La religiosa e Isabelle Huppert saffica al cinema dal 5 settembre
La religiosa di Guillaume Nicloux, e Isabelle Huppert saffica con velo da Madre superiora, con Officine Ubu nelle sale italiane dal 5 settembre 2013.
Marie – Suzanne Simoni, promettete a Dio castità, povertà e obbedienza?
… No padre
Il trailer italiano di oggi svela subito con un dialogo eloquente, il destino e la rivolta della giovane Suzanne interpretata da Pauline Etienne, La religiosa ultimogenita illegittima di un’antica casata nobiliare in declino nella Francia settecentesca, che i peccati della madre costringono alla vita monastica.
“La religieuse” del romanzo incompiuto di Denis Diderot, che Guillaume Nicloux ha portato al cinema e all’ultimo Festival di Berlino, da dove arriva la nostra recensione in anteprima e il clamore diffuso dalle attenzioni saffiche di una Isabelle Huppert con velo da Madre Superiora.
Una forma di affetto a dir poco inappropriato, e purtroppo solo uno dei soprusi e delle umiliazioni inflitte alla coraggiosa protagonista, con un talento naturale per la musica, una forte fede, e una gran voglia di vivere, che la porta a lottare fisicamente e psicologicamente per la libertà.
Una sedicenne torturata e umiliata, privata di cibo, preghiere e dignità, spogliata ‘completamente’ di vestiti e scelte, che passa dalle imposizioni tacite e con rimorso di Madame de Moni (Françoise Lebrun), le angherie anche fisiche e le crudeltà della sadica Suor Christine (Louise Bourgoin), e gli slanci eccessivi e focosi d’amore della Madre superiora del convento S. Eutrope (Huppert), e quelle un po’ troppo amorevoli e licenziose della Madre superiora del convento S. Eutrope, interpretata da Isabelle Huppert.
Una vittime di libertà negate e scelte imposte da altri, che dal XVIII secolo continua a lottare per tutte le donne che ancora oggi vivo una condizione analoga, insieme alle contraddizioni della fede e del progresso.
La libera interpretazione di una storia vera, lasciata incompiuta da un Diderot fuggito da un convento da ragazzino, con un fratello prete e una sorella monaca, per la quale il francese Guillaume Nicloux dirige un finale diverso da quelli scelti dalle precedenti trasposizioni cinematografiche dirette da Jacques Rivette e Jean Gruault, un finale da vedere nelle nostre sale, distribuito da Officine Ubu a partire da giovedì 5 settembre 2013, del quale oggi possiamo sbirciare qualche foto, insieme al trailer e poter italiano, una clip e l’intervista al regista.
Intervista a Guillaume Nicloux
Quando hai letto La Religiosa di Diderot per la prima volta?
Ho coltivato questo progetto dagli anni della mia adolescenza. Ho avuto un’educazione religiosa e dopo la cresima pensavo sinceramente di entrare in seminario. Questa tentazione è scomparsa quando ho compiuto 13 anni e ho scoperto la sessualità e la musica, in cui i miei sensi sono esplosi. Non avevo mai saputo di queste cose, prima, e non perché io abbia ricevuto un’educazione particolarmente rigida – piuttosto il contrario. Ma fino ad allora, mi ero occupato della mia fede. Mentre scoprivo punk e anarchia, ho iniziato a leggere tutto quello su cui potevo mettere le mani, incluso La Religiosa che ha avuto un profondo effetto su di me, nella mia personale ribellione e nel vortice di domande che avevo in testa. Non ho mai dimenticato quel libro che mi ha segnato per tutta la vita. Pochi anni dopo, mi sono chiesto come si potesse portare in una dimensione cinematografica questa storia di una ragazza rinchiusa in un convento contro la sua volontà. È stato solo tre anni fa che ho trovato il giusto taglio per un potenziale adattamento.
Qual è stata la chiave per farne un film?
Volevo cercare di svincolarmi dal contesto del romanzo e dall’immagine anticlericale di Diderot, e concentrarmi sull’essenza stessa del testo, che è un inno alla libertà. Sono sempre stato affascinato dalle persone che scelgono volontariamente gli ordini di clausura, come quelle descritte da Jean Genet e Edith Stein. Quella infinita mise en abîme tra ciò che accade dentro e fuori di noi, quell’involucro materiale usato come scudo. Ma La Religiosa è più un romanzo sulla libertà che sulla prigionia. Così ho voluto spostare l’attenzione su alcuni desideri reali, come la libertà di pensiero e di realizzazione nella vita al di là di ogni divisione religiosa. Perché in fondo, Suzanne non nega la sua fede o il suo amore per Dio. Esercita semplicemente la sua volontà di esprimerli come meglio crede.
Quindi hai cercato di attualizzarlo?
Non è stato necessario. I temi trattati nel romanzo sono estremamente moderni. La ribellione di una giovane donna all’autorità, la sua strenua battaglia per la libertà, la sete di giustizia, il rifiuto di arrendersi, la lotta contro la reclusione. L’aspetto più interessante è la contemporaneità delle tematiche e l’impatto che sortisce sui giovani. Mia figlia, che ha diciassette anni, ha scoperto il romanzo l’anno scorso e mi sono reso conto che la storia di Suzanne per lei ha ancora grande valore. A suo avviso, il mondo di oggi non sembra molto cambiato dai tempi di Diderot.
Che cosa intendi?
Viviamo ancora in un regime patriarcale, in cui le donne sono discriminate in maniera subdola e ipocrita. Le adolescenti sono deprivate della libertà di pensiero e costrette a subire l’egemonia di un sistema alienante basato su leit-motiv religiosi e culturali, e tutto accade sotto i nostri occhi. La società e i media ci mostrano continuamente esempi di brutalità esercitate da autorità maschili che impediscono a giovani donne di prendere decisioni autonome. Ritengo che la grande forza e la contemporaneità del romanzo di Diderot risieda nell’universalità e l’atemporalità dei temi esplorati.
Sei rimasto fedele al romanzo?
Non ho mai pensato di tradire il romanzo. Quando faccio l’adattamento di un libro, il mio approccio si ispira al metodo di Hitchcock: lo leggo, lo chiudo, lascio lavorare l’immaginazione, per far emergere ciò che mi ha veramente colpito. In questo senso, è una forma di tradimento, ma l’importante è tradire rimanendo fedeli il più possibile, usando il libro come fonte di ispirazione. Non credo di essermi allontanato molto dalla posizione di Diderot, perché dietro la sua filosofia materialistica, Diderot prende posizione contro l’autorità arbitraria e l’intolleranza della Chiesa, che Voltaire definiva “vergognosa”.
La Religiosa è un romanzo incompiuto, e nel film hai cambiato il finale.
Nel romanzo, Suzanne Simonin è una ragazza passiva, rassegnata al proprio destino. Nella mia versione resiste e supera le prove a cui è sottoposta. Nell’adattamento fatto da Jacques Rivette e Jean Gruault la vicenda finisce con il suicidio della protagonista. Il loro film aderisce agli aspetti anticlericali, una cosa comprensibile dal momento che nel 1965 la separazione fra Stato e Chiesa era ancora un tema delicato. L’ORTF (ufficio della radiotelevisione francese) e la censura lavoravano a braccetto. Più di cento film erano ancora banditi nel 1966, ed è stato così dalla fine della guerra. Per quanto mi riguarda, più conoscevo Suzanne, meno desideravo che morisse. La mia versione apre uno spiraglio a un futuro possibile. Volevo che si liberasse dal vincolo materno per essere libera. Ho sempre considerato Suzanne una ribelle che lotta per la sua libertà anche se ciò significa privarsene temporaneamente.
Nel film sembra che tu sia ossessionato dalla perdita di identità e dalla questione dei parenti biologici.
La ricerca del padre è un tema che mi è molto caro. Spesso è più facile immaginare il futuro, se si conosce il proprio passato, così ho inventato un padre di Suzanne, un libero pensatore, al fine di amplificare il tema dell’identità di Suzanne. E poi mi è sembrato indispensabile per aggiungere una dimensione romantica al suo destino, una proiezione fantastica non dissimile da una fuga mentale.
Che apporto ha dato al progetto lo sceneggiatore Jérôme Beaujour?
Ha dato un grande contributo. Mi ha permesso di formulare i dialoghi in modo che emergessero le motivazioni dei diversi protagonisti e che risultasse chiaro il rapporto di Suzanne con la fede. Mi ha fatto conoscere Sylvie Pialat, e insieme, sono stati la chiave alla creazione del film. A volte devo lottare con me stesso per introdurre emozioni dirette, quando i miei personaggi, spesso molto trattenuti, cercano di formulare il loro amore. Il coinvolgimento di scrittori come Jérôme Beaujour mi permette di superare le mie carenze laddove necessario.
Come hai affrontato il casting?
Cerco sempre di trovare un legame immaginario tra l’attore e il suo personaggio. È pura fantasia, ma mi piace questo graduale scivolamento, quella strana inversione che avviene ad un certo punto, come se il personaggio si staccasse da me per abitare qualcun altro. Poi arriva l’incontro. E in quel momento che il desiderio è confermato o terminato. Io non faccio prove, non faccio letture, parlo il meno possibile con gli attori perché per me sono già il loro personaggio. L’unica cosa che mi interessa è il momento in cui tutto si compone, il momento in cui creiamo insieme sul set, con tutti gli elementi concreti del film. La cosa essenziale è l’attore e credo che non si tratti di recitare bene o male, ma di avvicinarsi a un qualche tipo di verità durante le riprese.
La scelta di Pauline Étienne è stata essenziale.
L’ho vista entrare nella stanza ed è stato subito evidente che era perfetta per la parte. La cosa che mi commuove di lei ha a che fare con la mia sensazione di aver ricevuto una benedizione. È una parola strana, benedizione. È un po’ enfatica e difficile da definire, senza voler entrare nella nozione di sacro, che è un po’ ingombrante. Per me è un misto di emozioni che a volte provo quando incontro una persona, perché al di là del modo di muoversi, sorridere o concentrarsi, quella persona sembra imporre una forza superiore, allo stesso tempo rassicurante e disarmante.
Come hai scelto le Madri Superiore?
Françoise Lebrun per me è sempre stata un’icona del cinema da quando l’ho vista in LA MAMAN ET LA PUTAIN di Jean Eustache. In più, la trovo commovente a livello umano, e ho visto immediatamente il legame con Madame de Moni. Per Sorella Christine, volevo qualcuna che non fosse immediatamente identificabile come la “perfida” Madre Superiora. Quando ho incontrato Louise Bourgoin, mi è sembrata dolce e solare, l’esatto opposto del personaggio. Louise era la persona ideale – intelligente e curiosa – ero sicuro che sarebbe stata in grado di affrontare la parte. Isabelle Huppert è un’attrice in grado di portare qualcosa di eccezionale ad ogni personaggio. Per questo la trovo così affascinante, per la profondità delle sue interpretazioni e il suo perfezionismo. Il desiderio per Suzanne doveva andare oltre l’attrazione sessuale, doveva risultare sincero e inquietante; ma non morboso. Quasi mistico.
Hai prestato molta attenzione all’accuratezza storica?
Lo scenografo Olivier Radot, la costumista Anaïs Romand e io stesso abbiamo fatto molte ricerche. Preferisco girare in location reali, così siamo andati alla ricerca di conventi che hanno conservato il loro aspetto originale. Ce ne sono alcuni in Francia, ma quando hanno scoperto il soggetto del nostro film hanno rifiutato. Così abbiamo cercato all’estero, e ne abbiamo trovati due in Germania rimasti praticamente immutati da più di tre secoli. A quel punto dovevamo farli rivivere. Non volevo cadere nello stereotipo di un film freddo e triste che perpetra il mito di austerità della vita monastica. A quell’epoca, molti monasteri erano particolarmente ricchi. In molti casi la vita era relativamente normale. Ovviamente c’era la preghiera, ma c’era anche buon cibo, si rideva e a volte addirittura si danzava.
Il film è illuminato dalla luce delle candele. I colori sono caldi e a volte molto vividi.
Io e Yves Cape abbiamo fatto riferimento alle fotografie di Sergei Prokudin. Prokudin aveva sviluppato un processo tricromatico attraverso il quale i colori potevano risultare allo stesso tempo saturi e desaturati. Abbiamo così sostituito la rappresentazione tradizionale di un convento polveroso con un’immagine più scintillante, quasi calda, incentrata sui colori primari, in cui i volti privi di trucco rivelano il colore naturale della pelle esposta.
Come hai scelto le musiche?
Ero già un fan del lavoro di Max Richter, ancor prima che scrivesse la colonna sonora di VALZER CON BACHIR. Pochi giovani compositori mi ricordano Philip Glass, Arvo Part e Mogwai; tre artisti che mi piacciono particolarmente. Sapevo anche che era un grande fan di Bach e Purcell, come lo sono io. Volevo che scrivesse i pezzi che doveva eseguire Suzanne molto in anticipo, in modo che potessi filmarla e registrarla dal vivo. Ha anche composto parte della musica che doveva fornire il tema musicale del film, ma purtroppo non ho potuto usarlo. Il film non lo permetteva.
Avevi in mente qualche riferimento cinematografico per LA RELIGIOSA?
EDWARD MUNCH di Peter Watkins mi ha accompagnato per tutto il tempo delle riprese, non so proprio perché. Forse perché pone più quesiti che risposte, e penso che per i credenti – ed è ciò in cui la Fede consiste – sia una continua ricerca di risposte. La fascinazione che esprimo per la contemplazione dei volti in questo film è tangibile, come se fossi sotto un incantesimo. Gli sguardi in macchina sono come domande rivolte direttamente a me. Non ho una risposta per loro, ma la mia posizione di testimone mi tiene costantemente in allerta. Ho sentito la necessità di utilizzare quegli sguardi in macchina in diverse occasioni. Quando Marc Barbé dice a Pauline Étienne la verità sulla sua nascita e quando Isabelle Huppert entra in uno stato di esaltazione.
Cinema sperimentale, thriller, commedia… Sembra che tu voglia esplorare diversi generi e intrecciare una fitta trama fra ogni tuo film.
Quello che più mi interessa in ogni lavoro, al di là del genere che scelgo, sono i rapporti umani e come gli individui forgiano e rompono legami – come si evolvono o regrediscono, da soli o con gli altri. Le mie trame sono semplicemente un mezzo attraverso cui esplorare questa fucina di emozioni umane.
Ci sono nel film riferimenti autobiografici, consci o inconsci?
Sapete come è nato il romanzo? Ufficialmente, Diderot scrisse La Religiosa come scherzo per un amico. Ma scavando nella sua vita, si scopre che uno dei suoi fratelli era un prete, e una delle sue sorelle entrò in un convento, dove morì. Diderot stesso venne mandato dal padre in convento, ma riuscì a fuggire. Quindi non so se si può parlare di influenze autobiografiche, ma si deve riconoscere che l’autore avesse ottime ragioni per esplorare il soggetto.