Joe: recensione in anteprima del film di David Gordon Green
Festival di Venezia 2013: David Gordon Green porta in concorso Joe, dopo il premio per la miglior regia vinta a Berlino con Prince Avalanche. Una storia canonica in cui contano dettagli e musica, elementi preziosi. E Nicolas Cage e Tye Sheridan sono da premio. Chi ha amato il regista di George Washington e All the Real Girls lo ritroverà finalmente in forma.
Se un film come All the Real Girls uscisse oggi, sarebbe accolto in parte come è stato accolto Joe: tutto ben fatto, ma in fondo prevedibile. Il cinema di David Gordon Green è fatto di storie semplici, spesso semplicissime (il suo titolo più ardito, a livello di trama, è Undertow). Ciò che conta però nel suo cinema sono quei dettagli che riescono a far vibrare una base che sarà pure risaputa, ma assume nuove tonalità, spesso inedite e commoventi.
Senza scordarci che è tuttavia lo stesso Gordon Green che ha “rivoluzionato” il cinema indie americano degli ultimi anni, confermando un’estetica rarefatta, attenta ai luoghi e alle sue sfumature più belle e dolenti. L’estetica del suo film d’esordio, il capolavoro George Washington, ne è un esempio perfetto: costato 42.000 dollari, ha una confezione che mette in imbarazzo molto cinema Usa laccato e costosissimo.
Poi sappiamo tutti come è andata: Hollywood l’ha chiamato, il regista ha accettato di dirigere alcune commedie, ed è stato (giustamente) massacrato per la loro infima qualità. Poi il ritorno sul tracciato indie con il piccolo e notevole Prince Avalanche, premio per la miglior regia a Berlino 2013.
A pochi mesi di distanza da questa improvvisa e inaspettata “rinascita”, David Gordon Green ha già pronto questo Joe, sorta di “altra faccia della medaglia” dello stesso Prince Avalanche. Perché se quello era un rarefatto e stralunato bromance, questo è una dura e cruda riflessione sul rapporto padre e figlio, non per forza dello stesso sangue. Entrambi i film sono girati in Texas, tra gli alberi e le foreste nel cuore impavido di un’America rurale divisa tra bellezza e crudeltà.
L’ex detenuto Joe Ransom è un uomo collerico a cui “piace essere guardato negli occhi”, con una vita dura alle spalle e che sta solo cercando di dominare il suo istinto a cacciarsi nei guai. Oggi come lavoro “uccide gli alberi” illegalmente, ma per farlo viene pagato da una società che vuole piantare pini robusti al posto degli alberi deboli. Un giorno un quindicenne di nome Gary gli chiede di poter lavorare per lui assieme al padre ubriacone…
Scritto da Gary Hawkins e basato sul romanzo del compianto Larry Brown, ex pompiere del Mississippi, Joe mette in scena innanzitutto una dolente “fauna” della periferia rurale americana, un parco di varia umanità desolata e povera: i neri che lavorano assieme a Joe, la famiglia di Gary e la sorella muta (quasi come la ragazzina di George Washington…), il rivale del protagonista Willie Russell con le cicatrici in volto e i denti marci…
L’America di Joe, e quella del cinema di David Gordon Green, è quella di tutto il cinema indie statunitense allo stato puro. Un’America di outsider, talvolta di freaks, in cui domina la dicotomia violenza/dolcezza. In George Washington si ammazzavano i cani e poi si facevano soffici cappelli col loro pelo, qui si bacia la testa di una persona appena uccisa. Ognuno ha le proprie storie, ognuno ha i propri dolori, ognuno ha i propri risentimenti.
In Joe si beve e si fuma tantissimo, si va a prostitute in un bordello per farsi fare un pompino in velocità (non c’è tempo da perdere, a volte), ci si spara a bruciapelo, si fa rissa in bar, si picchiano i più deboli o direttamente li si ammazza. Joe conosce bene quest’America, la porta segnata su di sé coi suoi tatuaggi, la barba lunga e troppe sigarette fumate. Perciò non vuole che Gary segua il suo percorso.
Sa anche bene che quell’America è una gabbia infernale che predefinisce i destini dei suoi abitanti. “Devi restare con la tua famiglia: è tutto ciò che hai”, dice la madre a Gary, nonostante il padre picchi entrambi e viva una vita allo sbando. Attorno a questa desolazione troviamo gli stessi elementi che caratterizzavano gli ambienti del primo cinema di Gordon Green: le rotaie dei treni, i cani, la bellezza della natura.
Grazie a scene straordinarie in cui si fondono immagini al rallenti, musica e voci off, il regista continua a lavorare sull’atmosfera e sull’emozione puramente cinematografica su un tappeto più convenzionale e “scritto” del solito. I paragoni con Mud di Jeff Nichols si sprecheranno, anche per la presenza del bravissimo Tye Sheridan: ma è indubbio che nelle carriere di questi due registi, che si stanno passando costantemente il timone del miglior cinema indie Usa, i loro ultimi lavori siano quelli più “avventuosi” e scritti delle rispettive filmografie.
David Gordon Green dice che Joe è “la storia degli ultimi resti dell’era dei cowboy”. Resti che hanno ancora il potere ambivalente di inquietare per la loro carica violenta e di commuovere per la loro moralità. Joe ci parla anche di questo: di lealtà tra uomini, che può esserci anche se stanno dalle parti opposte della barricata. Essendo fatti dello stesso dna, i poliziotti e i criminali che si vogliono capire lo faranno solo con lo sguardo.
Nicolas Cage è incredibilmente perfetto, a tratti addirittura intenso, in certi momenti persino toccante. Porta una carica in più ad un ruolo sofferto e complesso, cotraddittorio e affascinante, ricco di “stereotipi” da uomo burbero americano e sfumature improvvise. Un gran bel personaggio per un film molto più delicato e gentile, pur se disperato, di quello che alcuni detrattori saranno disposti ad ammettere. Perché sono ancora i singoli momenti che danno la forza emotiva all’opera. Come nel caso di un abbraccio inaspettato e da brividi, come solo gli uomini di cuore possono permettersi.
Voto di Gabriele: 8.5
Voto di Antonio: 9
Joe (USA 2013, drammatico 117′) di David Gordon Green; con Nicolas Cage, Tye Sheridan, Gary Poulter, Ronnie Gene Blevins, Sue Rock, Heather Kafka, Anna Niemtschk, Brenda Isaacs Booth, Adriene Mishler, Robert Johnson.