Venezia 70, in un clima di disarmo del cinema italiano, la più vecchia mostra alza con garbo un dito: ci sono!
Una coppia bene assortita che misura le parole quella composta dal presidente Baratta e dal direttore Baratta, molto meglio così
A Roma, in una conferenza stampa, la Mostra del cinema di Venezia 2013 si è presentata, secondo una tradizione consolidata. Senza ansia o tensioni, senza strepiti e concitazione mondana. A dispetto della cornice di Via Veneto che comunque, anche in questi tempi grami, gonfia tristemente il petto al silicone della dolce vita; e lancia invano l’urlo di Tarzan, subito svanito nel nulla.
Venezia, come tutti ricordano, è dal 1932 la prima Mostra del cinema che segnò l’inizio di una politica cinematografica di grande energia da parte di Mussolini e del fascismo. Lo ricordano Oreste Del Buono e Lietta Tornabuoni, due giornalisti, due intellettuali, che negli anni 80 pubblicarono un bellissimo Almanacco Bompiani dedicato alla fondazione di Cinecittà, 1937, avvenuta cinque anni dopo la Mostra. Entrambe le scelte furono indovinate; seguirono altre iniziative sullo stesso nuovo “terreno”, la pellicola, che stava prendendo piede nel mondo e in particolare nel mondo, anche e soprattutto per contrapporre al potere di Hollywood un bilanciamento di azioni e costruzioni: film e studi.
Nel 1924 era nato l’Istituto Luce dedicato al cinema educativo, nel 1928 c’era stato il rivoluzionario avvento del sonoro dopo trentatre anni di silent movie, il grande cinema muto, e l’Italia aveva voglia di non farsi tagliare fuori, al punto che proprio Venezia servì al fascismo per dare una prova di liberalità (breve e opportunistica) aprendosi al cinema sovietico e ai suoi grandi autori, che alla Mostra allora biennale furono persino premiati. Questo passato, su cui bisognerebbe dilungarsi, era tutto impregnato da un potente desiderio di gloria, prestigio, leggenda. Le dittature in Italia e in Germania, per controbattere Hollywood e la sua macchina capitalista, cercarono il consenso al loro interno e al loro esterno in una duplice direzione: la creazione di un consenso politico con film di propaganda non di rado di qualità formale, e di un consenso di carattere generale sul piano dell’intrattenimento (la grande forza di Hollywood).
Senza voler fare qui una storia che pure dovrebbe essere conosciuta da tutti, specie dai giovani, si può dire- per fermarsi all’Italia- che varie forme di retorica sulla Mostra si sono succedute anche dopo la seconda guerra mondiale, sulla scia di un movimento straordinario per vitalità e bellezza: il neorealismo che conquistò il mondo e impresse un segno forte al nostro cinema venuto dopo, anche quello più popolare. Adesso, saltando molti passaggi peraltro essenziali, la Mostra continua ad essere impegnata in una affannosa ricerca di identità. Una Mostra non può tutto, specie nel tempo di oggi in cui la politica “taglia” il cinema in modo mai abbastanza denunciato. La Mostra non può perché il cinema è in mano ai partiti che gestiscono burocraticamente più o meno l’intero arco delle istituzioni e delle nomine. La Mostra non è diversa, anzi, da quel che accade nel Paese.
Eppure, una svolta c’è, proprio con Baratta e Barbera, rispettivamente presidente della Biennale e direttore della Mostra (secondo anno in carica). Le apparenze contano. Contano anche le parole. Ad esempio, la sordina alla mondanità, la voglia di sperimentare, il desiderio di sottrarsi a polemiche oziose, intrise di invidie e sciocche contrapposizioni. La selezione dei film è giustamente prudente. Autori noti e autori in via di riconoscimento. Inoltre, l’obiettivo di coinvolgere i giovani nella seria, vera, importante cornice di una Mostra di una Venezia che guarda all’arte, all’architettura, alla musica, al teatro. Il cinema non è solo al mondo, il cinema deve cercare in questa direzione: un percorso concreto, inventivo, consapevole, di creatività e di “uso” del film come documento e come laboratorio di idee e di immaginazione. Auguri Venezia 70 (un po’ li dimostra ma su, coraggio).