Home Recensioni Breathe In: Recensione in Anteprima

Breathe In: Recensione in Anteprima

Dopo Like Crazy, Drake Doremus torna al Sundance con Breathe In. Ritratto, uno dei tanti possibili, riguardo a come la vita ci imponga delle scelte, specie se preferiamo non prenderne alcuna. In un contesto profondamente americano, in quella provincia dalle esistenze artificiali, quasi che questo fosse l’unico destino possibile per chi ci vive

pubblicato 21 Luglio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 11:47

Opzioni, scelte. A tutto questo siamo chiamati, volente o nolente, allorché veniamo incalzati dalla fitta rete di situazioni o relazioni che si intrecciano e che ci intrecciano lungo il percorso personale di ognuno di noi. Leitmotiv di una sconfinata serie di opere, che attraversano con disinvoltura i lidi letterari passando per quelli della cinematografia, della musica e chi più ne ha più ne metta, la tematica del «fato ineluttabile» che si frappone tra noi e la nostra realizzazione ha radici quantomai antiche.

Solo in superficie, perciò, Breathe In lascia dà adito alla storia d’amore impossibile ma ardentemente desiderata. A suggerircelo sono i profili dei due protagonisti di questa presunta relazione, casta e torbida al tempo stesso. A voi scoprire il perché di queste laconica descrizione; sta di fatto che nel più o meno velato rapporto tra Keith (Guy Pearce) e Sophie (Felicity Jones) c’è molto più di ciò che si vede.

Keith vive con la sua famiglia in un sobborgo non molto lontano da New York. Quadretto familiare impeccabile, tipico di un certo immaginario non tanto immaginario della famiglia-tipo americana: marito, moglie e figlia condividono una bella villa in zona periferica conducendo un’esistenza basata sul mantenimento dello status quo, vissuto con l’ansia di chi non può permettersi di non far quadrare i conti. Quelle pose iniziali, buone a stento per alcune foto da mostrare a terzi, ci informano di quanto l’apparenza sia una misura necessaria in certi ambienti; per sopravvivere, anzitutto a sé stessi.

Finché un giorno, nell’ambito di uno di quei ben noti scambi culturali, Sophie non bussa alla porta dell’irreprensibile famigliola. Come una miccia che si accende, l’ingresso della giovane inglesina in un ecosistema essenzialmente a lei estraneo provoca delle ripercussioni a tutto tondo. In un crescendo di eventi del tutto fuori dal controllo dell’innocente ospite, certi equilibri, così maldestramente tenuti in piedi dalla fragilissima disposizione a non voler anche solo sfiorare quel castello di carte, crollano inesorabilmente: le vite di padre, madre e figlia vengono stravolte, ognuna a suo modo. Monta, sottobanco, l’infatuazione di Sophie per il più maturo Keith, che da par suo non oppone troppa resistenza alla delicata dolcezza della ben più giovane ragazza. Ma soprattutto, la presenza di quel corpo estraneo comincia a turbare la fittizia stabilità di Keith già a partire da altro tipo di considerazioni.

Sophie è una talentuosa pianista, che ha però deciso di smettere poiché ha sempre vissuto tale dono come un’imposizione. La sua brama di libertà non la differenzia più di tanto da un’adolescente qualsiasi, la quale in cuor suo crede di sapere meglio di chiunque altro cosa sia meglio per sé stessa. È questo il primo ponte che si erge tra i due; sì perché Keith viene da un passato analogo, senza contare un presente ben più soffocante. Keith è infatti un violoncellista che ha dovuto mettere da parte la propria carriera per amore della sua famiglia, ripiegando su un più tranquillo impiego da insegnante. Qui la scelta: non quella intrapresa, bensì subita. Doremus va gradualmente sottoponendoci, e con discreta abilità, alle crepe di quest’anima in pena mentre scalcia come un bambino impaziente di aspettare la campana della ricreazione, quando potrà dimenticare il proprio dovere e darsi con tutto sé stesso a ciò che più desidera.

A supporto di quanto sino a questo punto evidenziato, altro ancora ci sarebbe da dire. Vago, per esempio, il nostro accenno relativo alla valenza della musica in Breathe In; preferiamo infatti che siate voi stessi a sperimentare questa seppur forte chiave di lettura del film, che in fondo ci illustra la propria storia come si esegue un brano, destinato inevitabilmente a concludersi. Ma altri ancora potrebbero essere gli spunti, sempre ancorati al tema musicale, visto che ai due protagonisti, specie all’inizio, viene dato di comunicare proprio attraverso tale canale: lui suonando il violoncello, lei il pianoforte. Un legame che s’instaura in maniera sottile ma non meno violenta, attraverso un linguaggio che solo i due riescono realmente a decifrare.

Ma se c’è un merito che va altresì riconosciuto al giovane regista californiano, è quello di plasmare una storia ordinaria, più e più volte affrontata, con un piglio più che notevole. Laddove possibile, nessuna soluzione scontata. Alla fine del percorso resta addirittura quel gigantesco punto interrogativo inerente a dove intendesse condurci l’epopea del triste Keith, che improvvisamente, ad un certo punto, diventa il solo protagonista, l’unico di cui non si riesce a trarre una descrizione esauriente. Per buona parte del film si sarebbe portati a credere nella teoria dell’infatuazione tipicamente adolescenziale, con la debole giovane in cerca di protezione e che in braccia apparentemente forgiate dall’esperienza scorge tutto ciò di cui ha bisogno. Salvo poi realizzare che quelle braccia, non più così rassicuranti, l’esperienza l’hanno rifiutata da tempo: «fare un respiro profondo» (come da titolo) e poi tuffarsi non è più sufficiente… non per chi non ha mai imparato a nuotare.

A tal fine la prova del non di rado sottovalutato Guy Pearce è encomiabile; l’attore ci restituisce quasi integralmente i dubbi e le ansie laceranti di un uomo sconfitto dalla vita, ma che anzitutto ha perso la sfida per eccellenza: quella con sé stesso. Eppure tale dramma non ci viene impartito con la durezza della mera finzione, infarcito com’è di coordinate assolutamente credibili, mai troppo scontate.

Esemplare, in questo senso, la sequenza in cui Sophie e Keith approdano al loro primo, forse liberatorio bacio. Anziché cedere alla tentazione del banale climax, Doremus mescola i tempi, donando a quello specifico frangente una forza ben diversa dal facile culmine ipoglicemico. Ed in realtà è proprio in certi dettagli che va rintracciato il vigore di Breathe In: per esempio in quei continui sobbalzi dei due ogni qualvolta, soli soletti, la loro colpevole intimità viene rotta da un rumore, uno sguardo che solo per sbaglio incrocia il “crimine” che si sta consumando tra i due. Parole forti, direte, ma in fondo è così che i due vivono questa strana e mai definita relazione: come due ragazzini alle prime armi, che a fatica riescono a sostenere l’uno lo sguardo dell’altro per paura di essere scoperti dall’adulto di turno. E mentre è agevole ipotizzare una Sophie che da questa difficile situazione ne esce in qualche modo “più grande”, è certo che Keith rimane steso come un pugile suonato, piccino come non mai. La prima, la cui unica colpa è stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, nonostante tutto si rende conto di aver portato un uragano in quella casa: senz’altro qualcosa l’ha imparata. Ma il secondo? La risposta resta racchiusa in quell’ultimo fotogramma, che, riprendendo le primissime sequenze del film, lo ritrae mesto, esposto come non mai. Come a dire che era già troppo tardi ancora prima che tutto avesse inizio.

Voto di Antonio: 7,5

Breathe In (USA, 2012), di Drake Doremus. Con Guy Pearce, Felicity Jones, Kyle MacLachlan, Amy Ryan, Ben Shenkman, Alexandra Wentworth, Nicole Patrick, Elise Eberle, Lucy Davenport, Hugo Becker, Mackenzie Davis, Brendan Dooling, Matthew Daddario, Roy Pollack, Bill Winkler, Naeem Uzimann, Annie Q. e Brock Harris.