Il re leone, recensione, l’equivoco del cambio di forma
Arriva in sala l’atteso rivisitazione de Il re leone in chiava digitale. Leggete la nostra recensione
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Tutti gli animali delle Terre del Branco si radunano sotto l’iconica Rupe dei Re per gli omaggi di rito al nuovo figlio del sovrano Mufasa. È Simba, colui a cui un giorno toccherà governare su quelle terre. E dovrà farlo malgrado l’odio covato dallo zio Scar, che si sente derubato del posto che gli spetta, da sempre invidioso del fratello Mufasa, nei riguardi di cui al contempo avverte un timore reverenziale profondo. La storia è quella del 1994, nulla è cambiato in questi termini. Il banco di prova di questo rifacimento de Il re leone sta evidentemente altrove, in quella che è la sua ragion d’essere, che la si voglia accogliere con favore o meno, ossia la computer grafica.
Discorso ineludibile, non si può in alcun modo passare sopra a una componente fondante come questa, che va quanto più possibile contestualizzata, non dico sviscerata, ché non è questo l’intento di una recensione. Non si può infatti sorvolare sul livello acquisito dalla tecnica, spaventoso in un duplice senso: da un lato poiché desta meraviglia, dall’altro perché apre davanti a noi una voragine che, a ben pensarci – e non è certo questo il primo film che ci dà modo di farlo – , corrisponde al più probabile tra gli scenari futuri di una parte considerevole di quest’industria.
E dire che per Disney questo non è il primo esperimento in tal senso; tre anni anni fa usciva Il libro della giungla versione live action, come forse un po’ impropriamente si va descrivendo certo genere di produzioni. Lì il tentativo si rivelava stranamente riuscito, una variante gradevole rispetto a un originale da cui per forza di cose prendeva le distanze, consapevole che il film che Favreau stava girando fosse altra cosa, totalmente. A ben vedere, tuttavia, c’è un elemento che fa davvero la differenza: al netto infatti della mole cospicua di computer grafica lanciataci copiosamente sugli occhi, la presenza di Mowgli funge da garanzia ad una continuità circa la verosimiglianza dell’intera operazione.
In altre parole, le espressioni soprattutto, l’ineludibile elemento umano dunque, rendono quel contesto credibile da un punto di vista drammaturgico. John Cassavetes ebbe a dire che «la più grande location di tutte è il volto di una persona», e mai come in questi anni, e probabilmente ancora di più in quelli a venire, si avrà modo di confermare la profondità di questo semplice aforisma. Il re leone mette momentaneamente alla berlina gli epigoni del (foto)realismo a tutti i costi, quell’oasi sulla quale una certa Hollywood sta spingendo all’inverosimile in quanto sa che lì è ancora l’unica a poter dire la sua, e a livelli così alti.
Tocca però chiedersi fino a che punto sia bypassabile l’apporto che, nel bene e nel male, può dare l’uomo, quello in carne ed ossa. Su queste pagine ho avuto modo di accennare alla questione già in due occasioni: la prima in concomitanza con l’uscita di Rogue One, la seconda, più recente, in relazione a The Irishman. Nel caso de Il re leone, va detto, la discussione tende a muoversi un po’ su altri binari, dato che non si tratta tanto di stabilire fino che punto sia “corretto”, se non addirittura “giusto”, o meno sostituire gli attori con delle controparti digitali; qui il punto ha una connotazione pratica prima ancora che morale, ossia quanto in certi casi sia funzionale il ricorso ad una computer grafica così totalizzante.
Al di là del taglio evidentemente diverso de Il re leone originale, animazione di tutt’altro tipo, con colori e toni per forza di cose più ispirati, il problema vero sta nei protagonisti, ossia gli animali. Per decenni è stata una prerogativa della Disney l’antropomorfizzazione delle specie più disparate, processo a cui di solito si è alluso facendo leva sul fatto che parlassero. Questa nuova versione de Il re leone ci chiarisce (definitivamente?) che il vero discrimine rispetto allo statuto di verosimiglianza sopra evocato sta altrove: non in ciò che si sente ma, ancora una volta, in ciò che si vede.
In quelli che comunemente chiamavamo cartoni animati, gli artisti potevano concedersi un lusso non da poco, ossia quello di ricreare l’animale in maniera pressoché identica alla controparte reale, fatto salvo per il volto: questo doveva rispecchiare lineamenti e contorni umani, con tutte le conseguenze del caso. Se ci si pensa bene, questa possibilità, se così vogliamo chiamarla, fa tutta la differenza del mondo. Ciascuno di noi provava empatia verso quei personaggi, quegli eventi, proprio in funzione di certe espressioni, che erano più umane dell’umano, ma i cui tratti alle volte esasperati venivano recepiti senza particolari turbamenti proprio perché tale esasperazione sublimata dalla tecnica, in questo caso decisiva in senso puramente positivo.
Trovandosi a ricreare un animale che sia una replica esatta e non stilizzata, si capisce bene quanto l’intera procedura vada rivista. La tecnica in questo caso tende ad un’oggettività che appiattisce ogni altro elemento che non sia il riprodurre l’esattezza fotografica del soggetto, in uno slancio di euforia nerd e feticista per la complessità di calcolo e precisione che i mezzi a disposizione ci consentono oggi. Il punto è che, questo sembra di capire, non si possono raccontare le storie che ci raccontavamo ieri con le forme così radicalmente cambiate con cui avremo a confrontarci di qui a poco. Certe dinamiche, certi meccanismi proprio non possono funzionare, a meno di una revisione ben più attenta, che va alla radice del problema.
Limitarsi a girare lo stesso film ma con una tecnica differente, in questo caso la computer grafica, non fa che evidenziare l’enorme discrepanza tra forma e contenuto, quest’ultimo pensato per girare su “macchine” diverse, per così dire. Quanto si può sperimentare guardando questo Re Leone, in termini di coinvolgimento, non può andare oltre il fascino di un documentario a sfondo naturalistico, rispetto al quale, tuttavia, questo film si rivela ben più debole, poiché inevitabilmente deve in larga parte estrapolare la componente “selvaggia”, che diventa irricevibile anche rispetto a quei punti che rimandano all’uomo, come per esempio l’istinto materno o paterno, quello di conservazione, il fare branco etc. Vi è perciò comprensibilmente precluso a priori anche il fascino per la natura, qui contenuta in un ambiente pensato per altro, ovattato.
Non trovare corrispondenza alcuna nei volti di questi personaggi si rivela frustrante dal primo momento, come se si stesse assistendo ad un film fuori sync, che attraverso le immagini racconta una storia, mentre la traccia audio contemporaneamente ne illustra una simile ma diversa – niente a che vedere col movimento delle labbra, che c’è. I limiti di tale operazione, già per come è concepita, sono poi palesemente confermati da quelle piccole, oserei dire marginali differenze rispetto all’originale, tutte modifiche estremamente superficiali, furbe quasi, come l’introduzione lì per lì simpatica ancorché del tutto gratuita della canzone che Lumière canta ne La bella e la bestia (Stia con noi). Una misura meta e surrettizia mediante la quale, facendo l’occhiolino, si vorrebbe che noi si stesse al gioco tralasciando tutto il resto.
Inutile perciò l’ode alla tecnica, al grado di complessità e sofisticazione raggiunto grazie alla tecnologia: quello non si presta ad opinione, essendo lì, sotto gli occhi di tutti (gli animali sembrano veri). È il credere, o anche solo lo sperare, che quest’entusiasmo per l’aspetto meramente scientifico, definiamolo così, possa o addirittura debba avere preminenza su aspetti ben più salienti, rispetto ai quali la tecnica dev’essere asservita, non viceversa. Davvero poco, nelle scorribande di Simba, Timon e Pumbaa, riesce a colpire, instaurando quel contatto che, date le nuove condizioni, ha da passare per altre logiche.
Non si tratta dunque di alcuna nostalgia per un modo di fare animazione al quale quelli più recenti, o che ancora devono affacciarsi, si possono serenamente affiancare. Ma a ciascuno il suo; e si opta per un contesto diverso, addosso ad un modello diverso, allora è d’uopo che la scelta dei capi si regoli di conseguenza. Assurdo pensare che il medesimo indumento vada bene per tutte le occasioni oppure i tipi di corporatura. Ma soprattutto, come in questo caso, non si può pensare che un volto valga l’altro, o che addirittura si possa fare a meno di una faccia per evocare fattispecie che di una serie di espressioni umane (o umanizzate) non può proprio fare a meno.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]
Il re leone (The King Lion, USA, 2019) di Jon Favreau. Con Marco Mengoni, Elisa, Edoardo Leo, Beyoncé Knowles, Luca Ward, Massimo Popolizio, Toni Garrani, Donald Glover, Stefano Fresi, James Earl Jones, Billy Eichner, Seth Rogen, Chiwetel Ejiofor, Keegan-Michael Key, Alfre Woodard, John Oliver ed Eric André. Nelle nostre sale da mercoledì 21 agosto 2019.