Cineblog omaggia Zack Snyder
Il cinema di Zack Snyder dai morti viventi ai miti immortali
Atletico, affabile e sorridente. Di tutto il team de L’uomo d’acciaio, presente in questi giorni al Taormina Film Festival 2013, lui Zack Snyder, regista e anima del reboot milionario, è l’unico davvero reale e “possibile”, quello che può permettersi, complice l’anonimato della sua persona, di girare indisturbato per la cittadina “rischiando” al più di essere riconosciuto da qualche fan con t-shirt di Superman d’ordinanza, taccuino o rivista per l’autografo e macchina digitale per immortalare l’incontro. E il sorridente Zack, bisogna dirlo, non si è negato a nessuno durante quelle brevi escursioni nella mondanità (o normalità?) taorminese che precedevano la serata più febbrile del festival.
Fisico prestante in una corporatura media, ben lontana da quella statuaria del “suo” Henry Cavill, e una solarità giovanile che lo accomuna più a un entusiasta fruitore di cinema che all’architetto responsabile di macchine complesse come Watchmen e Sucker Punch. Viene denominato spesso come un “visionario” del blockbuster ed in effetti la definizione gli calza benissimo. Basti vedere come riesce a coniugare agevolmente, a differenza -per esempio- di un Michael Bay ancora limitato da un’idea eccessivamente “cinetica” di messa in scena, la spinta verso una dimensione estetizzante di cinema, frutto della fusione di linguaggi diversi, e le istanze narrative del plot. E tutto ciò mantenendo sempre quel ritmo “giovane” e incalzante che accarezza la moda “fast” del cinema moderno (tendenza abbandonata, per ragioni romanzesche, nell’ immeritatamente snobbato “Watchmen”).
Assistere a un film di Snyder in fondo è come premere il pulsante di “start” ma non tanto per dare avvio a qualche ludica e stordente video-esibizione del nulla (e intorno ce n’è parecchio), quanto per mettere in moto il conto alla rovescia di un singolare immaginario che da quel momento filerà dritto e spedito verso il suo obiettivo, magari lasciandosi dietro stuoli di entusiasti o grida di delusi, ma che di certo non lascerà scampo a nessuno. Pensiamo a “L’alba dei morti viventi”, riuscita rivisitazione del classico romeriano: non passano neanche dieci minuti di film che si assiste già al montare (perfetto) di un’epidemia di morte, la disgregazione del nucleo familiare della protagonista e la fuga dall’assedio di una cittadina già morta (vivente). Tutto veloce e naturalmente tutto credibilissimo; il resto è un omaggio teso ed onestissimo al cinema dei ritornanti che non sfigura affatto accanto al modello originale e che soprattutto non ha l’ambizione di riproporre la metafora social-consumistica di quello, nonostante l’azione si svolga ancora dentro un centro commerciale.
Poi è la volta di “300” amato/odiato esperimento di peplum-fumetto, “incarnazione” testuale di una graphic-novel già di suo stilizzata che sullo schermo, complice una fotografia desaturata ad arte e il bullet-time utilizzato in chiave espressiva, diventa il manifesto di un cinema orgogliosamente digitale ed esasperato, sofisticazione consapevole della realtà (storica) che riesce ad arrivare comunque alla sua verità e perfino a pulsare di un suo cuore autentico.
Il suo contraltare, quantomeno sul piano filosofico, è rappresentato dall’inaspettato “Sucker Punch”, pellicola fin troppo sottostimata ma che in realtà, almeno per chi scrive, è anche la sua opera più personale, debordante e per certi versi struggente. Un “pugno a sorpresa” (proprio come il titolo) che segna quasi il punto di non ritorno della stessa rappresentazione fantastica, qui riproposta come fuga da un reale “malato” ed insostenibile e proprio per questo dimensione ancora più fantasiosa ed eccessiva, satura di invenzioni e contrasti e accompagnata da iperboli visivo-sonore che non danno tregua stordendo già ad un primo livello, quello meramente sensoriale.
Una stratificazione di linguaggi (videoclip, action e videogame) che ha infastidito i più e che ai cultori del fantasy classico è parso solo caotico compiacimento stilistico ma che, nonostante tutto, non riesce a nascondere l’anima da autentico narratore di Snyder. La stessa che poi trapela da prodotti come l’animato “Il regno di Ga’ Hoole”, realizzato per un target quasi impossibile (né per infanti né per i troppo adulti) o come il poco celebrato “Watchmen”, devoto adattamento di un’opera inserita dal Time magazine come uno dei 100 migliori romanzi in lingua inglese di tutti i tempi. L’impresa, giudicata da molti impossibile, è svolta dal regista con la giusta dose di scioltezza e tanta concessione alla crudezza e il risultato riesce bene a rendere la cupa apocalisse degli heroes (tutte incarnazioni del lato ambiguo dell’America) a cavallo fra gli anni ’50 e gli ’80. Se poi qualcuno volesse mettere in dubbio le capacità registiche di Snyder si guardi almeno i titoli iniziali del film, vero capolavoro della moderna settima arte, capaci di condensare 30 anni di storia americana in un giro di “The Times They Are A’Changin’” da mozzare il fiato.
Oggi, con “L’uomo d’acciaio” Snyder torna ancora una volta alla storia e più precisamente a quella di un mito fondativo della cultura di massa, quel Superman che insieme a Star Wars rifondò la Hollywood di fine anni ’70. Impresa a più mani e con le penne eccellenti di David S.Goyer e Christopher Nolan a garanzia di una certa seriosità e del realismo della visione. Presenze senza dubbio importanti e finanche un po’ “castranti” per il nostro visionario ma giudicate probabilmente necessarie per ripristinare l’interesse della moderna fascia giovane nei confronti dell’uomo in mantello e calzamaglia e soprattutto per ridare a Snyder quello smalto commerciale recentemente perduto proprio in favore della propria ricerca poetica. Ed anche se l’uomo d’acciaio, senza fare nomi e cognomi, per il sottoscritto resterà sempre e solo uno, è comunque ben accetta questa re-immaginazione aggiornata alle fobie del terzo millennio (Metropolis devastata oltre ogni misura) e intrisa di sofferente paternità. Perché è sicuro che almeno in cielo Superman sfreccerà libero e potente proprio come la fantasia del suo sfrenato ed entusiasta regista.