Sugar Man: Recensione in Anteprima del documentario Premio Oscar
Sconosciuto per decenni in patria, mentre dall’altra parte del mondo le sue canzoni ispiravano un intero movimento in rivolta. Questa è la storia di Sixto Rodriguez. Questa è la storia di Sugar Man, vincitore del Premio Oscar quale Miglior Documentario
È notte, e fuori nevica. Camminando per le vie di una strada come ce ne sono tante, ecco materializzarsi una sagoma alquanto insolita. Servendoci della luce fioca che s’infrange su quella figura, capiamo che l’atipicità di quella forma sta nel fatto che porta con sé una chitarra; è un uomo, non c’è dubbio. Anzi, è un musicista. No, è un poeta. Qualche istante prima non avevamo idea di cosa indicassero quelle ombre, ora siamo certi che si tratta di un artista. Scherzi della vista.
In fondo, però, l’intera esistenza di Sixto Rodriguez è stata contrassegnata da un buio accecante, di quelli che non ti permettono di scorgere anche fosse vagamente l’impronta di un uomo nient’affatto straordinario; di certo non quanto la sua storia. Storia che ancora si dimena e che cerca in tutti i modi di venir fuori dalle nostre mani mentre maciniamo caratteri su una tastiera; anche se non cederemo, state tranquilli.
Searching for Sugar Man è il documentario che si è aggiudicato il Premio Oscar nella sua categoria in occasione dell’ultima rassegna, nonostante da parecchi mesi qua e là se ne parlasse con una certa enfasi. Un progetto che ha senz’altro suscitato interesse nell’ambito dei musicofili, avvicinando anzitutto loro, che di Sixto Rodriguez conoscevano la storia meglio di tanti altri. Ma chi è Sixto Díaz, o Jesús? Fino a nemmeno quindici anni fa, buona parte di coloro-che-se-ne-intendono di musica avrebbero distolto lo sguardo altrove, aggrottando le ciglia nel tentativo di tirar fuori quel fascicolo dal proprio archivio mentale. Per poi scoprire, tristemente, che a tale nome non corrispondeva alcun file.
La carriera di Rodriguez ebbe inizio sul finire degli anni ’60: scovato in un locale di Detroit, il Sewer, due produttori restano ammaliati dalla voce, dalla musica e dai testi di quest’artista davvero particolare. I suoi brani erano intrisi di una quotidianità disarmante, esposti in una forma singolare, tanto che quel tenore non lasciava semplicemente ricordare un ben più fortunato figlio di quell’America dei bassifondi, ossia Bob Dylan; per alcuni Rodriguez era addirittura meglio, no question about it. Il frutto di quella neonata e fulminea collaborazione fu costituito da due album pubblicati in sequenza: Cold Fact (1970) e Coming from Reality (1971).
Siamo in Sudafrica, sempre in quegli anni, vale a dire ai primi dei ’70. Vige ancora il più rigido apartheid, tale per cui il Paese più a sud dell’Africa vive una costante situazione d’instabilità. Tolto il fulcro della ben nota vicenda, all’epoca il dissenso si estendeva al di là della questione razziale. In ambito musicale, per esempio, nessun cantante sudafricano poteva varcare i confini del proprio Paese, senza contare che tutti quei dischi considerati contrari al regime vigente venivano messi al bando. Cold Fact fu uno di questi.
In realtà c’è di più. In un contesto di rivolte sempre più crescenti, sia in termini di numero che di incisività, in quel pezzo di terra isolato dal resto del mondo, le canzoni di Sixto Rodriguez ricoprirono un ruolo davvero importante. Quei testi parlavano di ribellione al sistema, di insurrezione verso chi imponeva dittature di qualunque tipo. E per lo più venivano dall’America, quel luogo già divenuto mitico, il cui nome a quel tempo faceva ancora rima con libertà. Ecco, era proprio questo che le parole di Rodriguez spronavano a ricercare ed in parte probabilmente donavano, cioè libertà; un anelito molto vicino a chi in quel tempo viveva la propria condizione come una segregazione perpetua. D’altronde l’epoca era quella dei grandi sismi sociali, di quelle rivoluzioni grandi e piccole che hanno profondamente inciso ed in parte stravolto la società così per com’era fino a qualche anno prima.
Insomma, la fama di Sixto Rodriguez toccò vette incredibili: secondo molti, in Sudafrica, era addirittura più famoso di Elvis Priestley. Ma come spesso accade, niente alimenta la curiosità e la leggenda più del mistero. Mentre di molti acclamati musicisti si riuscivano a reperire svariate notizie, anche di carattere personale, di Rodriguez non si sapeva assolutamente nulla. E nulla se ne seppe per molto tempo. Qui ha concretamente inizio il film, che dopo un’introduzione simile a quella appena esposta (ma che noi abbiamo di molto sintetizzato per ovvi motivi) ci illustra proprio ciò che accadde in seguito a quegli anni di tumulti, scanditi dalla musica folk di un artista sconosciuto in patria ma iconizzato dall’altra parte del pianeta.
Il regista, Malik Bendjelloul, sa di doversi rivolgere anzitutto ad una buona fetta di pubblico che con ogni probabilità ignora la storia che ha scelto di raccontare. Dunque adotta un registro votato all’investigazione, esponendola così come farebbe un detective che ha appena risolto un suo caso. Anzitutto la contestualizzazione del soggetto, partendo esattamente dai luoghi in cui il protagonista mosse i primi passi. Lavora bene già in questa fase Bendjelloul, certamente aiutato da un personaggio che esercita un suo fascino, ma la cui vicenda andava somministrata con cura, rilasciandone episodi un po’ per volta. Muovendosi da una parte all’altra del mondo, tale alternanza ci consente di entrare in quella duplice esistenza di Rodriguez, sconosciuto in patria e all’apice del successo in Sudafrica.
Per una buona metà del film, la presenza di Sixto aleggia in maniera quasi mistica su quanto vediamo, alone corroborato da tutta una serie di aneddoti che per lo più nemmeno lo toccano direttamente. Sì perché fino ad un certo punto la storia non riguarda solo il personaggio in sé, bensì l’impatto che ebbe la sua opera. Travolgente, inspiegabile in entrambi i casi: un fallimento epocale negli USA; un successo straripante in Sudafrica.
Non è un caso se il diretto interessato ha avuto modo di dire di aver vissuto ben due vite, da cui come pochi è entrato ed uscito con la medesima nonchalance, scaraventato da una dimensione all’altra da forze che non ha mai potuto (e forse anche voluto) controllare. «American zero, South African hero», titolò un articolo pubblicato sul finire degli anni ’90, quando Sixto Rodriguez venne letteralmente riesumato, dopo aver trascorso quasi trent’anni nel più completo anonimato; mentre altrove l’aura leggendaria attorno alla sua imperscrutabile esistenza cresceva a dismisura.
Non pochi sono gli spunti offerti da Sugar Man (che è poi il titolo del primo brano del suo primo album). Soffermandosi su una storia in cui realtà trascende di molto la finzione, non possiamo far altro che lasciar sedimentare l’assurdità di una vicenda davvero inusuale. In maniera intelligente, Bendjelloul ci avvicina a Rodriguez, con discrezione, senza sensazionalismi di sorta, laddove l’intero racconto ha un che di sensazionale. L’impressione, ad un certo punto, è quello di una vita rubata, di un successo negato. Dalla sorte, magari. Oppure da chi, intenzionalmente o meno, ha forzato un fallimento che sembra il vero colpo di scena in questo scenario a tratti commovente. Perché il destino, se ne esiste uno, parlava chiaro: ad attendere Sixto Rodriguez c’era un avvenire di successi e riconoscimenti. Certo, il flop di quei suoi esordi tende piuttosto a farci sospettare il contrario; eppure, per la piega che prese anni dopo la sua non-carriera, in maniera peraltro così repentina, viene da chiedersi se in realtà quanto avvenuto a quasi tre decenni di distanza non sia più veritiero di quel primo, nefasto responso.
Sta di fatto che Sixto affrontò il tutto come forse sa e può fare soltanto un vero artista. Privato di un abito, se ne cucì un altro, completamente diverso, ma non meno adatto ad esprimere ciò che ogni poeta coltiva al proprio interno. Non avendo più modo di riversare la propria interiorità sulle sue canzoni, su tutte quelle che non ascolteremo mai, Sixto decise che la sua esistenza dovesse essere espressione di un’Arte da perfezionare giorno dopo giorno. Nelle piccole cose, in quelle che non si vedono e che solo l’artigiano conosce. Nel buio della stanza dove crea. Mentre agli altri è dato risalire a quel costante ed indefesso lavoro, nel migliore dei casi, attraverso i più minuscoli dettagli della sua opera conclusa. E chissà cosa avrebbero da dire le sue figlie riguardo a quest’ultima considerazione.
Voto di Antonio: 8,5
Voto di Gabriele: 8
Sugar Man (Searching for Sugar Man, Svezia-Regno Unito, 2012) di Malik Bendjelloul. Con Stephen Segerman, Dennis Coffey, Steve Rowland, Mike Theodore, Dan Dimaggio, Jerome Ferretti, Willem Möller, Craig Bartholomew-Strydrom ed Ilse Assmann. In Italia dal 10 al 12 Giugno in tutte le sale del circuito The Space Cinema.