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Sorrentino e la bellezza dei grandi

Decadente e luttuoso, l’ultimo film di Sorrentino evoca sensazioni difficili da decifrare a caldo ma si avvinghia subito allo sguardo e all’anima dello spettatore

pubblicato 26 Maggio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 14:12


Sono tante e tutte densissime le sensazioni che a caldo mi ha provocato la visione dell’ultimo, abbagliante film di Sorrentino, “La grande bellezza“. Probabilmente vanno al di là del significato che l’autore ha voluto imprimere alla sua pellicola, quasi un “La dolce vita” filtrata dal grottesco de “Il divo” e in sottofondo residui della lunare poesia di “This must be the place”. Sarà perché, al di là di sequenze costruite come se fossero tanti piccoli quadri che si completano a vicenda (proprio come le fotografie della mostra del finale), Sorrentino è in grado come pochi di costruire un cinema degli “spazi” mirabile e fortemente evocativo. Si serve del suo sguardo perennemente in movimento e di una macchina da presa che segue il flusso di tutto ciò che gli sta davanti, vorace di volti e incollata ai corpi, innamorata dei luoghi e a ansiosa di restituirne la bellezza nascosta sotto la scorza.

La capitale è la “diva” del suo ultimo film. Non più le highways americane o la Lugano de “Le conseguenze dell’amore” ma Mamma Roma in tutto il suo splendore (tanto), le sue (frastornanti) miserie e nobiltà (decadute). Non c’è luogo in cui si svolgono gli episodi del film che il regista non accarezzi con la sua estetica finemente barocca. Dai palazzi nobiliari alle cucine, dalle terrazze griffate ai giardini , dalle scalinate sacre ai peep-show fino ai sottoscala di ex- baroni, ogni pietra, colonna, soffitto diventano protagonisti della storia insieme ai personaggi contrastando, con la loro sincera e quasi ieratica bellezza, le umane mediocrità.

E questi luoghi raccontano da soli altre storie, più silenziose, non solo quella di Jeb Gambardella, novello Virgilio (non a caso scrittore e un po’ poeta) in un moderno girone dantesco, e nemmeno quelle degli intellettuali in lenta decomposizione sui terrazzi della città eterna. Sono le storie mai narrate di figli lasciati impazzire o ammalare, o di quelli fotografati amorevolmente ogni giorno della loro vita e fino alla fine della propria.

E sono anche le storie mai vissute della propria giovinezza (le “radici” della santa?), di quella sprecata per inseguire le chimere del protagonismo ( il potere di “fare fallire le feste” lo chiama Jep) o di quella rubata per fare posto a nevrasteniche performance-art di bambini e, non ultime, storie di quell’altra giovinezza – o immaturità- che magari non è troppo tardi per recuperare (la incarna Carlo Verdone in una dolente revisione del proprio alter-ego cinematografico). Vite degli altri soltanto in apparenza distanti da noi, vite che Sorrentino accomuna alle nostre attraverso quelle morbide e silenziose carrellate all’indietro che sono ormai diventate una cifra stilistica del suo cinema indagatore.

C’è spazio per tutti in questo putrido e un po’ patetico affresco, dai preti-esorcisti a malavitosi latitanti che reggono (così affermano loro) le sorti dell’Italia, dalle spogliarelliste col cuore alle sante presunto-vere, dalle giraffe che spariscono ai fenicotteri che appaiono all’improvviso. Sorrentino gioca ad assimilare simili apparizioni (questi fantasmi?) ai luoghi delle loro manifestazioni “corporee” costruendo un decadente mosaico spazio-emozionale (del tempo invece quasi non v’è traccia) sospeso fra sarcasmo e compassione. Non è facile, dopo una sola visione, decifrarne con esattezza gli intenti né in fondo è necessario farlo; è lecito piuttosto abbandonarsi alla contemplazione lasciando germogliare liberamente altre suggestioni.

Perché le sensazioni innescate dal film di Sorrentino sono innumerevoli e rimandano non soltanto all’evidenza di un’ Italietta tenacemente incollata alla “dolce vita” perfino nella morte, ma anche a quelle personali di chi ne vive il suo sottobosco silenzioso, individui la cui esistenza può essere evocata soltanto per contrasto da parte di chi assiste allo spettacolo. Una su tutte però non ha mai cessato di accompagnarmi durante la visione del film fino al termine dei suoi titoli di coda; la sensazione di aver partecipato a un dolente e un po’ grottesco funerale. Forse i luoghi della vita filmati da Sorrentino stavolta non erano che squarci di un immenso e insospettabile sepolcro.

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