The Luhrmann’s Gatsby Show
L’ultima trasposizione del capolavoro di Fitzgerald è il tour-de-force visivo che ci si attendeva dal regista australiano. Come già in “Moulin Rouge!” anche ne “Il Grande Gatsby” convivono due istanze: il gusto per una messa in scena segnata dall’accumulo e dall’eccesso e quello per il racconto popolare. Suggestivo, formale e affettato ma pur sempre grande cinema…
Fitzgerald, Di Caprio, Luhrmann. Un genio della letteratura, la star più duttile di Hollywood e il regista post-moderno per eccellenza. Tre stelle che tornano a rifulgere sotto un unico titolo, “Il Grande Gatsby”, pellicola cui è affidato il triplice compito di ribadire la fama imperitura dello scrittore statunitense, confermare (se ancora ce ne fosse bisogno) la versatilità del buon Leo e restituire al regista australiano quello scettro di autore conquistato con i mirabili “Romeo+Giulietta” e “Moulin Rouge!”. Personalità eccessive che si incontrano, guarda caso, sotto il segno dell’eccesso.
Fitzgerald, il cantore dell’età del Jazz, e il suo alter-ego letterario, quel Jay Gatsby votato all’eccesso, all’anticonformismo e all’amore incondizionato. Di Caprio chiamato ad incarnare l’ennesima figura monumentale, umana e nevrotica di una carriera in costante moto ascensionale. E Luhrmann, regista dell’accumulo visivo e cantore di melodrammi ipercinetici e struggenti, che dalla pagina allo schermo traghetta essenzialmente l’edonismo e la convulsa eccitazione dell’età del Jazz (ma senza Jazz). Tre anime che premono nel tentativo di ricomporsi in una forma cinematografica unica e un esperimento che condurrà (prevedibilmente) a dividere molti, entusiasmando tanti e dividendone altrettanti.
Ma di fronte a uno spettacolo che già da mesi si annunciava rutilante e barocco e che fa del capolavoro di Francis Scott la piattaforma per la messinscena di un immaginario personale, sovraccarico ed abbagliante, schierarsi è operazione che vale davvero la pena di compiere?
Dopotutto questo qui, più che il Gatsby di Fitzgerald è il “Luhrmann’s Gatsby”, un parco a tema griffato Prada e splendente Svarowski , che al posto del Jazz mette il “Jay-Z” e che frulla sensazioni, suggestioni e romanticismo in chiave pop e in nome del più totale e sprezzante esibizionismo registico. Quello di Luhrmann insomma non è certo il “Gatsby” rigorosamente letterario che i puristi si aspettavano ma l’ipertrofica re-immaginazione di un’epoca, proprio come il “Moulin Rouge” non era il teatro storico di fine ‘800 ma la sua proiezione lisergica e atemporale.
Lì si giocava con la fin de siècle, qui invece con l’età dell’oro, epoche entrambe dotate della medesima ebbrezza e, in qualche modo, di quella seduttività puramente esteriore tipica del videoclip. E come in un videoclip anche nei film di Luhrmann la realtà si presenta caricata e suggestiva. Per questo più che l’autenticità qui conta la sua rappresentazione affettata, più che il sentimento vale la messa in posa delle sue iperboli (ricordate i fuochi d’artificio che esplodevano coi baci in “Moulin Rouge!”?) e più che l’essenza di un’epoca a prendere parola sono le sensazioni di chi ne (fra)intende suoni e bagliori.
E’ il post-moderno eletto a stile che sacrifica – se si vuol vedere soltanto questo- parte della sostanza letteraria, ma che al contempo esalta -se si è disposti a vedere anche altro- le mille, sfolgoranti possibilità del mezzo cinematografico, la sua implicità “sensualità”, nella consapevolezza che il cinema è, prima di tutto, una sintesi chimica di elementi.
E quello di Luhrmann funziona quasi come i fuochi pirotecnici: inizialmente è una macchina che stordisce sensorialmente, quindi rallenta le marce “conformandosi” a ritmi più blandi (quasi classici) per poi riesplodere nuovamente in finali traboccanti romanticismo (Moulin Rouge!), melodramma vintage (Australia) e moderno senso del tragico (Romeo+Giulietta e oggi Il Grande Gatsby). E’ il “Luhrmann’s Show”, spettacolo da amare o odiare in egual misura, cinema che punta ai sensi e allestisce palchi sontuosi (oggi perfino stereoscopici) per le emozioni.
Tornando quindi alla domanda iniziale, su quale fronte schierarsi dinanzi a questo “Gatsby 7.1”? Detrattori incalliti o convinti sostenitori? Forse l’unico fronte certo rimane ancora quello della settima arte. Perché da questo film si può restare avvinti o delusi, drogati o distaccati, perfino annoiati ma di certo non si può restare indifferenti di fronte alla sincerità del suo autore, tutt’altro che superficiale metteur en scène. Perché vuoi vedere che a forza di filmare ossessivamente la forma anche Luhrmann silenziosamente è arrivato alla sua sostanza?