Viva la libertà, un grido che muore in gola
Roberto Andò, regista non giovanissimo, torna alla commedia degli equivoci per denunciare la politica
Palermitano di 53 anni, Roberto Andò non si può certo dire che sia uno dei nostri registi giovani (già dove sono?). Lo sa benissimo anche lui che è uomo di letteratura e di teatro; con esperienze di aiuto con Rosi, Fellini, Cimino, Coppola. Che è scrittore, nel solco di Leonardo Sciascia. E ha quindi una cultura seria. In un quadro arruffato di debuttanti, ex giovani o nuovi giovani che annaspano senza cogliere le grandi eredità dei cinema di ieri sui nostri schermi della nostalgia. Viva la libertà usa uno degli espedienti drammaturgici più tipici del vecchio e caro teatro: quello di esprimere una storia attraverso il confronto-scontro fra due fratelli gemelli. In questo caso, la complicata storia della situazione politica italiana presa da una paralisi nervosa e nevrotica in cui si dibatte il Paese, al di là della crisi economica.
Andò pone l’accento in maniera indiretta non tanto sugli effetti della crisi sulle complicazioni che noi cittadini stiamo vivendo fino a subire assurdi paradossi (l’eterno ritorno di Silvio Berlusconi), quanto sulla seria difficoltà di trovare alternative serie. Poiché non bastano le persone serie. Il film racconta della malattia della sinistra, anzi del centrosinistra, che nuota alla ricerca di orizzonti, o meglio cerca di nuotare ma va incontro a un ingorgo profondo. L’ingorgo dell’assenza di idee e della capacità di individuare scelte efficaci, e dunque capaci di convincere una sufficiente maggioranza di elettori per governare. Ecco che, per rimediare, al braccio destro del leader del centrosinistra viene l’idea (surrogato di vere idee) di sostituire questo politico ormai spompato con il gemello, scrittore e filosofo, che in passato ha dovuto subire delle cure psichiatriche.
Il gemello rilancia se stesso (il fratello), stupisce, riacquista fiducia, ma soprattutto ribalta i sondaggi. Affiora finalmente la concreta speranza di cambiare il vento e di vincere. Ma evidentemente non basta. Il film è comparso nelle sale proprio nei giorni della campagna elettorale dell’ultima consultazione che ha dato i risultati ben noti: tutti hanno vinto e nessuno ha vinto, e quindi la crisi non si risolve, anzi si aggrava di angosciose prospettive. Una crisi dopo l’altra, con risse tv e nelle piazze, una incertezza che deprime il Paese incazzato, sempre più.
La commedia di Andò si rivela appunto una commedia. Non la solita commedia all’italiana, bensì un sintomo di tragedia che scopre la vera sostanza della questione: l’Italia è malata profondamente, non serve un leader fittizio per cambiare, come le gomme ad una macchina, il corso delle cose verso un destino meno indecifrabile. Andò è bravo nel rendere persino divertenti i suoi paradossi, ma con essi mostra con chiarezza la personale preoccupazione che lo muove. La preoccupazione : tutto è e sarà davvero vano se la cura della malattia della politica resta a galla sulla superficie delle “apparenze”, ossia dello scambio di persone e leader che non hanno o hanno poco da dire.
Il film ha successo, dura nelle sale. E’ la prova che coglie un sentimento assai diffuso. Ma la sua autentica risorsa sta nell’inserire nel cinema italiano magro di qualità, la qualità di uno spassionato interrogativo: ce la faremo? E il dubbio nutre la richiesta di cose, persone, novità serie, da parte del pubblico che cerca a tentoni nella stanza buia del Paese qualche sorriso, qualche sollievo per respirare un poco. Fuori dalla sala, il buio è notte fonda.