Anna Karenina: la nuova espiazione del cinema di Joe Wright
L’omaggio grafico all’eroina di Lev Tolstoj e al film con Keira Knightley.
Joe Wright, Dario Marianelli e il fattore K. Questa la sinergia che si ripete già da 7 anni, quando, nel 2005, il regista inglese si fece conoscere dal mondo grazie alla sua libera rilettura di Orgoglio e pregiudizio.
Non un capolavoro, beninteso, né la miglior trasposizione da Jane Austen (la versione con Greer Garson e Laurence Olivier, per esempio, resta sempre la più fresca e ironica), ma un film libero e romantico, che barattava la leggerezza del testo originario con un approccio “traditore” e smaccatamente sentimentale, più funzionale alla narrazione cinematografica che allo spirito della scrittrice britannica.
I nasi dei puristi si storcevano dinanzi a tanta lesa maestà letteraria ma il film, sul piano del puro piacere visivo e sonoro, funzionava mirabilmente. Perché si capisce che a Wright, più che di trasporre fedelmente un testo, interessava impaginare sontuosamente i sentimenti, incorniciandoli nella migliore delle fotografie possibili (il film a tratti è pura contemplazione paesaggistica), scegliendo per loro partiture classicheggianti che innalzassero il romanticismo oltre il livello di guardia (grazie al bravissimo Dario Marianelli) e riportando l’attenzione più sull’estetica, che sull’etica, dei sentimenti.
Infine c’era lei. Il fattore K. Keira Knightley (speciale sull’attrice). Amata-odiata dai più per quell’espressività che profuma di maniera (e che gli zigomi contribuiscono a marcare), ossuta ed acerba incarnazione di un’eroina letteraria piuttosto distante dalla profondità dei modelli di riferimento. Tuttavia anche attrice che aspira a crescere in ogni suo film (guardate Non lasciarmi), nonostante il suo ruolo di patinata regina del glamour da copertina ne freni le, ancora poco esplorate, potenzialità.
Nel bene o nel male, tuttavia, Keira resta sempre la musa “visiva” di Wright almeno quanto Dario Marianelli rappresenta il portavoce “sonoro” della sensibilità del regista. L’incontro fra i tre si ripeterà in Espiazione– forse il miglior film di Wright ad oggi- dramma tutto giocato sugli incastri del tempo e gli inganni dello sguardo, fusione perfetta fra una visione classica (ma non datata) della storia e il gusto per una composizione cinematografica assolutamente audace; si va da una prima parte, la più crudele, costruita sulla geometrica sovrapposizione di immagini e suoni (indimenticabile il battito impetuoso della macchina da scrivere che scandisce, musicalmente, i moti interiori della protagonista), fino a una seconda più lirica e incentrata sui risvolti emotivi e dolorosi della vicenda.
In mezzo, quell’entr’acte, costituito dal superbo piano sequenza su un campo di battaglia, che divide i due cuori della narrazione e capace di straziare, grazie ancora allo splendido lavoro di Marianelli, quello degli spettatori. Wright, senza imitare l’epicità di un Minghella o i calligrafismi alla Ivory, dimostra che si può ancora tirare fuori un cinema classico personale, popolare e al tempo stesso colto ed emozionante.
Oggi con Anna Karenina (recensione di Cineblog) il regista si trova ad affrontare probabilmente la sua prova più difficile, e non solo perché chiamato a condensare in due ore la non indifferente mole del testo tolstojano, ma soprattutto perché impegnato a conciliare la sua concezione estremamente “sensoriale” del cinema con la complessità psicologica (ed ideologica) del materiale di partenza, il tutto in una forma ancora coerente e accattivante.
Ricostituita quindi la “sinergia” iniziale, Wright sceglie la strada della sperimentazione visiva attraverso l’accorgimento del cinema-teatro, non un mero esercizio di stile fine a se stesso quanto piuttosto un’allegorica variazione sulle dinamiche di una vicenda fin troppo nota. Un saggio di cinema-teatro si diceva, a metà tra la follia di Luhrman e il rigore di un Sokurov (chi ha visto e assimilato Arca Russa sa cosa intendo), accompagnato ancora dalle affascinanti metamorfosi sonore a firma Marianelli (abilissimo, come sempre, a far scaturire la melodia dalla ritmica dei suoni reali), e attraversato nuovamente dall’elegante silhouette di Keira Knightley, qui più corpo-manichino da immolare alla ragion sociale che vero propulsore di emozioni in cui potersi identificare.
Perché di Anna-Knightley, alla fine, ci resta più impressa la sua plateale presenza, esaltata dalla magnificenza di abiti e gioielli, che le ragioni del cuore o l’orgogliosa difesa dei sentimenti, così come di Levin risalta più la sua figura di innamorato deluso che quella di tormentato contraltare sociale di Anna.
E insieme a lei anche i restanti protagonisti di questa nuova e barocca visione sembrano del resto abdicare alla loro concretezza umana per divenire essenzialmente marionette tirate dai fili invisibili del destino. Non a caso, intorno ai personaggi centrali, le comparse ( la società) sono sovente colte in movenze innaturali e pose impossibili o vengono ritratte immobili nell’attesa che lo spostamento di una teletta, lo schiudersi di un drappo o l’irrompere di un paesaggio, dia loro impulso a un nuovo movimento (vedi la splendida scena del ballo).
Insomma se il rischio di trasformare personaggi e contesti piuttosto “complessi” in rigidi archetipi appare concreto, è pur vero che mai come in questa versione appare anche funzionale ad un approccio più “fatalistico” della vicenda. E cosa c’è di più inesorabile della metafora teatrale per ribadire questa verità? E’ quindi la stessa “plasticità”con cui si guarda ai personaggi (“pedine” del discorso tolstojano) a trovare nel teatro il perfetto corrispondente visivo e metaforico; quel teatro che è territorio ideale per tutte le storie che attraversano il tempo e che della Storia (con la “S” maiuscola) vogliono essere testimonianza.
Platea svuotata di sedie o abitata dall’orchestra, ora ippodromo ora ufficio, il palco diviene così scenografia mobile ed in continua osmosi col reale, sorta di lussuosa matrioska che, inglobando i diversi livelli della narrazione, rimodula il concetto di tempo e di “ellissi” (cinematografiche innanzitutto) direttamente sui corpi. Sebbene “Anna Karenina” difetti sul piano del coinvolgimento emotivo o dello scavo psicologico generale, è impossibile negare che il suo valore risieda essenzialmente nella esibizione della sua colta ed affascinante metafora.
E così, mentre i sentimenti, qui algidi o perfino artificiosi nella loro meccanica rappresentazione, scrivono ancora una volta condanne a morte fisiche e sociali, il regista, in parallelo, riscrive ancora una volta il suo cinema. E “Anna Karenina” è cinema puro ancor prima che teatro, cinema che chiede di abbandonarsi alla meraviglia dei suoi arabeschi visivi, che invita tutti, dai personaggi agli spettatori, a perdersi nell’abbraccio sinuoso e barocco dei suoi movimenti. Spiazzante, perfino, quando dopo tanta fastosità, sceglie di congedarci con un’immagine pacata e confortante; quel prato che cresce tra i filari delle poltrone e che pare suggellare, finalmente, l’avvenuto incontro fra le diverse dimensioni del tempo fin qui attraversate: il cinema il teatro e, naturalmente, la vita.
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