Se Spielberg rompe all’inizio, Mr. Tarantino rompe alla fine
Italo Moscati discute di Django di Tarantino.
Sono andato leggero di felicità a vedere, dopo un poco di tempo, Gengo, ovvero Django del cappellone Quentin Tarantino, il regista de casa saltato nella patria del pollo fritto. Le foto lo mostrano pesante di peso come il maestro Sergio Leone.
Ci sono chili e chili, sempre strachili, ma quelli di Leone erano lievitati al punto giusto da risultare più croccanti. Corbucci era pesante anche lui. Corrispondente al palato tarantiniano. Quentin ama le storie da San Quintin Jail, carcere per criminali, in cui predilige ambientare i suoi film anche se le azioni sono in plein air, uno stile impressionista grossier.
L’inizio me lo aspettavo, come me lo aspettavo. Cioè stile western spaghetti alla matriciana. Titoli grossi, musica da fanfare colt, voci e sonori potenti come allo stadio bernabeu, voci potenti da faccia feroce. Beh, mi dico, ragazzo (non sei più un ragazzo) vuoi il vintage rifatto con il ketchup? Eccolo, e godi. Godo abbastanza, non dico di no. Colpi di scena. Negri in catene ben frustati che sono messi lì per scatenare la storia.
Una storia affidata a un tipetto di simpatico aspetto che fa la grana collezionando vivi o morti, i ricercati, i wanted, indicati come merce per lo stato ammerigano del sud, prima della guerra di secessione, guerra che pose fine alla schiavitù. Il Simpatico Collezionista ingaggia uno schiavone nero come la pece e lo trasforma come Liberto, molto bello, nudo ancora più bello. Lo testimonia una delle ultime scene del film in cui il Liberto viene esposto interamente al sole, con un affare con palle stratosferiche; un affare che tocca quasi terra, nonostante sia appeso per i piedi a distanza comoda per un bianco aguzzino servo che ha in mano un coltellone per tagliare i cabbasisi, come li chiama Andrea Camilleri.
Lo svolgimento della trama è chiaro. I due soci fanno i dollari e il Nero Nudo e Crudo conquista il SC, Simpatico Collezionista, e lo porta dalla sua: trovare la Schiava Bellissima di cui è innamorato perso (anche nel senso che l’ha perduta di vista, diciamo così’).
Vanno dal Negriero (un Leo di Caprio dal cipiglio gang of New York) e lì il film tocca i vertici. Suspense nell’andamento di un dramma di narcisi negrieri e di mandingo, buone maniere, traffici per portarsi via la Schiava Bellissima che Leo ha infilato in una gabbia di ferro per mettere nero su nero, a fuoco lento del sole.
Mi fermo qui. Perché non è bello raccontare i colpi di scena, o pseudo tali, le trovate e le soluzione forzate (come lavori forzati), lo scioglimento del film per cui Quentin si rivela un BSG, un bastardo senza gloria, titolo e ciak dell’archeologo del western spaghetti al dente che cedono al brodo tarantiniano e alle sue tarantelle tenerelle dopo le stragi dentro e fuori le stanze (i bianchi e i neri come i pellerosse che qui non si vedono).
Insomma, se Spielberg ha deciso nel suo “Abramo Lincoln” di ipnotizzarci fino al sonno con russamenti nella prima parte del film per poi gettarsi un secchio d’acqua in faccia da risveglio, il buon Quentin ci scarcera dalla violence e tira in lungo lo spinellone dei molti possibili finali. Che non svelo, per carità.
Mi sono divertito? Sì, mi sono divertito part time, come una domestica ad ore, e poi mi sono rassegnato, pensando persino di andare in antipico davanti a un piatto di spaghetti aglio oglio e peroncyne. Ho avuto un idea, pensando a “Lincoln” e a “Django” (pare che il rivale Spielberg lo stia superando negli incassi italiani). Ho preso carta e penna, e ho scritto agli studios di Hollywood, proponendomi come correttore di bozze o bozzetti cinekolossal. Ravvivare gli inizi, concentrare e aggiungere pepe ai finali. Prendo poco, I am italian. Cerco un job, come gommista, aggiustatore delle gomme davanti e gomme di dietro. Masticare pellicola come chewing gum, non mi piace. La pellicola mi si attacca ai denti del giudizio.