Die Hard… 25 anni e non sentirli
L’omaggio grafico di Cineblog al nuovo Die Hard e al suo Bruce Willis.
Era il lontano autunno del 1988 quando proposi a mia madre (perché a 15 anni mica si andava in minicar!) di vedere, nell’altrimenti per me irraggiungibile cinema di paese, il primo mitico Trappola di cristallo. La mamma si convinse e, così persuasa, lo propose anche alla zia. Che si persuase a sua volta.
Incomprensibilmente attaccati alla poltrona di casa ci rimasero soltanto papà e fratelli, fatto alquanto strano visto che gli stessi, all’epoca, si appassionavano alle avventure di Schwarzy, Stallone & Co. Ma del resto chi era per loro questo sconosciuto Bruce Willis?
Per il sottoscritto già una vecchia conoscenza dato che ai tempi non mi perdevo una puntata della spassosa Moonlighting, serie in cui il nostro faceva coppia con l’adorabile Cybil Shepherd, tra investigazioni ed impagabili siparietti comici nonsense orchestrati spesso con la complicità del pubblico a casa.
Per farla breve, Bruce Willis, per me, era già qualcuno. Così tutti e tre ci recammo al cinema, godendoci oltre due fantastiche ore di azione, tensione e ironia: in barba a chi era rimasto a casa, avevamo scoperto noi l’ultimo vero gioiello del cinema d’azione degli anni ’80, quello destinato a porre i semi del moderno action anni ’90 e a lanciare nell’olimpo delle star il versatile Bruce Willis.
E mentre gli americani erano impazziti di brutto per questo film, in Italia gli incassi lo assestavano al 62°posto (sì, avete letto bene!) della classifica ufficiale, dietro roba come “Sotto il vestito niente 2” e “Congiunzione di due lune”(…brrr!). Ma il bel paese, nel riconoscere fenomeni, è sempre stata poco “fenomeno” e così Die Hard (come fu ribattezzato per il mercato home video), conobbe una seconda vita soltanto nei salotti di casa, quando anche gli scettici papà e fratellino poterono rendersi conto del gran film che si erano persi in sala.
Perché per chi scrive “Trappola di cristallo” (il primo nome di “battesimo” lo rende più “mio”) è un classico assoluto, accostabile per atmosfera a qualsiasi altro titolo “natalizio” degli anni ’80 (lo rivedo spesso proprio insieme a “Gremlins”), nonchè pellicola imprescindibile per chiunque voglia accostarsi al genere in modo intelligente, senza dover passare per forza attraverso le granitiche e un po’ fredde incarnazioni di eroi tutti d’un pezzo come Cobra o Commando.
Dopotutto Bruce Willis, John McClane per i fan, esce fuori dalle sue rese dei conti invincibile almeno quanto i vari Arnold e Sylvester, ma con in più quel bagaglio di ironia che i suoi colleghi, maschere prigioniere della loro stessa mascella, non potranno sicuramente vantare. “Vieni in California, vedrai che bello, ci divertiremo da matti!” dice scimmiottando la moglie (!) mentre striscia ferito lungo i condotti del Nakatomi Plaza, provocando risate e apprensione al tempo stesso. Quale altro protagonista si sarebbe potuto permettere, tra piedi trafitti di schegge e escoriazioni sparse un po’ ovunque, di osare la stessa ironia che riusciva invece al nostro Bruce, corpo vulnerabile, sorriso sornione, muscoli nella norma (cioè normali) e una tutto sommato scarsa propensione all’eroismo?
Riuscita la ciambella, negli anni successivi si è tentata nuovamente la ricetta coi sequel “Die Hard- 58 minuti per morire”, “Die Hard- Duri a morire”, “Die Hard – Vivere o morire” e, oggi, “Die Hard- un buon giorno per morire”. Notare come la parola “morire” finisca per ricorrere in tutti i sequel (laddove nel capitolo fondante era stata sacrificata), e notare l’effetto che provoca la reiterazione di questo vocabolo dopo il titolo inglese: come se Die Hard fosse divenuto ormai un trade mark a se stante, indicatore di una ben consolidata formula action , garanzia di contenuti affidabili per il suo pubblico di riferimento. Duri a morire, sì. Ma chi muore veramente? Perché, se si eccettuano le stragi del secondo capitolo (ancora il migliore fra tutti), ad essere accoppati alla fin fine sono i cattivoni di turno, mentre McClane si becca giusto una lauta razione di botte, insufficienti tuttavia a piegarlo del tutto (e del resto lui è o no die hard ?).
Nell’anno 2013, ben un quarto di secolo dopo il primo folgorante esordio e dopo aver consegnato alla carriera ben quattro seguiti ufficiali (anche se l’ultimo, “Vivere o morire”, semplicemente non era necessario), il poliziotto dalla pellaccia dura Willis (nel frattempo divenuto detective), si appresta ad invadere le sale di mezzo mondo, puntando con forza a rinverdire un franchise un po’ appannato, e mirando strategicamente anche al rinato mercato russo (altrimenti perché proprio Mosca come location?).
Il buon Bruce lo amiamo da sempre perché riesce ancora a essere “in palla” grazie a incarnazioni divertenti e poco banali (Solo due ore, Red, Sin City,) e altri ruoli ben scelti (l’ultimo riuscito fanta-action Looper). Certo le due prove intimiste con Shyamalan (Il Sesto Senso e Unbreakable), benché avessero fatto intravedere inesplorate sfumature melodrammatiche, ormai sembrano lontane anni luce e, salvo ripensamenti, paiono destinate ad essere sepolte ancora di più sotto i cumuli di macerie e il fuoco delle esplosioni di questo nuovo buon giorno morire, sua nuova avventura sovietica.
Ma non si dica che questo eroe “controvoglia” sia mosso da troppi intenti altruistici; l’obiettivo infatti è sempre (stato) quello di salvaguardare, principalmente, la salute dei propri cari. Così dopo aver messo in salvo due volte la moglie e una volta la figlia, stavolta McLane cerca di proteggere la pellaccia al figlio maschio (per il sesto capitolo, già annunciato, si accettano suggerimenti, dalla nonna invalida al cugino di 2°grado e così via…). Poco importa però della verosimiglianza o della ripetizione di una formula a “rischio” stanchezza; a noi basta solo che il buon vecchio McClane e il suo inconfondibile grido da cowboy (“Hippy ya ye!” o “Yippie-ki-yay!” per gli inglesi) conservino anche stavolta la rude, sincera e divertente strafottenza dei bei tempi che furono. E a farci sentire come se 25 anni non fossero mai passati…
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