Home Recensioni Die Hard – Un buon giorno per morire: le recensioni dagli Usa e dall’Italia

Die Hard – Un buon giorno per morire: le recensioni dagli Usa e dall’Italia

La maggiorparte dei critici è unanime: la saga di Die Hard deve finire qui.

di carla
pubblicato 17 Febbraio 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 17:30

Mentre vi scrivo Die Hard – Un buon giorno per morire ha il punteggio di 16% di Tomatometer su RottenTomatoes. Però… Mentre su Cineblog (grazie al nostro blogger) ha raggiunto un sei pieno, scopriamo se a voi è piaciuto e leggiamo i commenti della critica Usa e di quella Italiana.

Chris Vognar – Dallas Morning News: E’ tutto un po’ sciocco, ma la presenza di Bruce Willis regala correnti sotterranee di giocosità facile.

Dana Stevens – Slate: questa puntata sclerotica dovrebbe essere l’ultima.

Lisa Kennedy – Denver Post: delusione.

Tom Long – Detroit News: Tutti i film Die Hard non hanno senso, questo è un dato di fatto. Questo però manca di personalità. E questo è imperdonabile.

Ben Sachs – Chicago Reader: Inutile ma non inguardabile.

Laremy Legel – Film.com: Ogni scena d’azione è telegrafata, e la maggior parte del dialogo è irrimediabilmente stupido.

Peter Travers – Rolling Stone: Questa serie ha bisogno di morire qui.

Andrew O’Hehir – Salon.com: Più o meno tre sequenze d’azione legate insieme con il più stupido tessuto connettivo che si possa immaginare.

Steven Rea – Philadelphia Inquirer: vuole essere un film sui valori della famiglia ma in realtà è solo sul valore di un franchising al box-office, e il suo valore è in declino.

Richard Roeper – Chicago Sun-Times: E’ come se stessimo guardando Bruce Willis in un film di Bruce Willis in cui Bruce Willis può sopravvivere a tutto.

Claudia Puig – USA Today: Odioso e spesso noioso.

Michael Phillips – Chicago Tribune: non è solo il più debole dei Die Hard, ma è un pessimo film d’azione in generale.

Kenneth Turan – Los Angeles Times: il senso di euforia e divertimento che ha segnato la serie è inspiegabilmente un assente ingiustificato.

Christy Lemire – Associated Press: inutile e senza gioia, una raffica di rumore e caos, un attacco di distruzione senza la minima menzione.

Bill Goodykoontz – Arizona Republic: è il giorno per John McClane di andare in pensione.

Lou Lumenick – New York Post: Il signor Willis ha detto nelle interviste che è aperto ad un sesto “Die Hard”. Per favore Bruce, la prossima volta, leggi la sceneggiatura.

AO Scott – New York Times: Tutto ciò che ha reso il primo “Die Hard” memorabile – le sfumature di carattere, il sottotesto politico, lo spirito da cowboy – è stato stordito o rimosso via del tutto.

Francesco Alò – Il Messaggero: Scene d’azione parossistiche quanto divertenti (…) Molta ironia, bella chimica tra Bruce Willis e il più giovane Jai Coutrney (…)

Maurizio Acerbi – il Giornale: Venticinque anni e sentirli, purtroppo, tutti. Era il 1988 quando nelle sale irrompeva il personaggio di John Mc Clane, protagonista assoluto della saga di Die Hard, interpretato da un Bruce Willies in forte ascesa (…) Nel calcolo delle probabilità di certe scene, avreste più possibilità di centrare un 6 al Superenalotto. Sarà anche “duro a morire” John Mc Clane; ma, forse, una meritata pensione non guasterebbe.

Maurizio Porro – Il corriere della sera: Torna, non richiesto, John McClane, eroe disincantato da 25 anni di cinque storie tutte uguali ed in vorticosa discesa nella confezione sempre più sfilacciata. Qui 95 minuti moscoviti con incendi, pistole, auto scaraventate in aria, fughe, ematomi e uranio self service, perché il nostro, occhio più socchiuso che mai, vuol riconquistare il figlio della Cia in carcere russo: «Ti voglio bene, figliolo» (frase spot, come dire: mi passi l’olio, papà?). Ma prima fughe, files, inquinamenti morali e materiali e per fortuna Bruce Willis spiega i segreti di Chernobyl su cui fa dell’ironia molesta («non è che ora ci spunta un terzo braccio?»). John Moore, regista, è banale e dimenticabile come il nome. Il resto magari fosse silenzio, è rumore assordante del nulla.

Roberto Nepoti – la Repubblica: John McClane va in Russia a cercare notizie del figlio Jack, che non vede da anni. Scopre che il ragazzo è diventato un agente della Cia ed è coinvolto in un intrigo poco chiaro (anche per lo sceneggiatore, si direbbe), tra spietati oligarchi, che sono i veri responsabili del disastro di Cernobyl, e quantitativi industriali di uranio arricchito da riciclare. L’assurda trama è solo un pretesto per una novantina di minuti col botto, dove McClane sr. e McClane jr. distruggono un imprecisato numero di automezzi, un elicottero, un hotel; oltre a fare strage di russi grandi, grossi e cattivi. Arrivano così a cinque gli episodi della serie aperta da Trappola di cristallo, che resta senz’altro il migliore. Là il regista John McTiernan sfruttava magistralmente gli spazi di un solo ambiente, un grattacielo; qui i set pullulano, ma le emozioni sono a comando e si misurano sul numero delle pallottole sparate. Come nelle altre puntate McClane, impegnato una volta di più a difendere la famiglia, non rinuncia a far battute nelle situazioni di massimo pericolo. Non sempre divertenti, però.