Dagospia spia il cinema e c’è da preoccuparsi (del cinema)
Dagospia costituisce una voce fuori dal coro, soprattutto quando parla dei film e del cinema che ci tocca come cittadini di questo Paese.
Ho avuto modo di segnalare un paio di volte le “rivelazioni” provenienti da un sito in cui politica, gossip, varia umanità si mescolano. Il sito si chiama Dagospia ed è stato creato, e continua ad essere realizzato, da Roberto D’Agostino, ben noto, non serve dilungarsi su di lui e il suo passato di lookologo in tv, e di appassionato di cinema.
Ha girato anche un film Mutande pazze, non molto amato dalla critica e dal pubblico, ma curioso, e indicativo di una certa confusione, diciamo così, che sgoverna il cinema italiano da tempo. Il film è del 1992 e può essere considerato il segnale dell’inizio del trash in ogni aspetto della nostra vita audiovisiva. Trash che fa l’onda.
Non c’è bisogno di scandalizzarsi. Sono cose del mondo e bisogna prenderne atto. Anche perché Dagospia, con lo stesso Dago e Umberto Pizzi, presenta sul sito affreschi fotografici di grande, potente spessore visivo, in cui emerge in tutto il suo penoso vigore non solo il trash ma la condizione di un paese che ha corrotto la dolce vita e stabilizzato, grazie a politici e al demi-monde dei media, un folclore indicativo su facciata e retroscena del nostro bistrattato paese.
Detto questo, Dagospia, definito dal suo creatore “risorsa informativa”, costituisce una voce fuori dal coro, soprattutto quando parla dei film e del cinema che ci tocca come cittadini di questo bistrattato paese.
In questi giorni, con notizie e puntualizzazioni, sugli esiti della Mostra di Venezia e del Festival del film di Roma, Dagospia ricostruisce le vicende di una attualità che ha un lungo passato alle spalle, e forse non ha più un futuro (ma noi continuiamo a sperare).
Lo fa correttamente mettendo a confronto i risultati di merito, di qualità e attrazione dei film con i risultati ai botteghini che spesso vengono snobbati da coloro che hanno interesse a far sì che le cose (brutte cose) vadano avanti, senza orizzonti, senza destini.
Dagospia si domanda, ecco la questione centrale, se vale la pena tenere in piedi una impalcatura che non garantisce nulla, ovvero procede con alti e bassi, consolandosi con il successo di qualche commedia chiassosa e sciocca, o con qualche premio nei festival dato a volte più per carità cristiana che per convinzione delle giuria, e con il vivido compiacimento dei capi pubblici (ministeriali, statali, parastatali, regionali, buropartitici) impegnati nel tirare a campare.
E’ vero. A parte i costi di questa assurda impalcatura, mi viene una immagine che propongono. Questo cinema, traditore di una grande tradizione, è stretto in un quadrilatero d’acciaio, dalla faccia di bronzo.
Cinecittà e Istituto Luce; sezione cinema del ministero dei beni culturali; Rai cinema o Mediaset; grandi e medi festival; produttori dell’Anica ma anche i cosiddetti indipendenti – a cui si possono aggiungere da qualche anno le film commission- danzano la stessa danza, con la stessa musica, con gli applausi che essi stessi (o gli incaricati e consensi non gratis) rivolgono a…se stessi. Il quadrilatero ha basi fragili consolidate dalla mancanza di volontà e valutazioni serie.
Il tutto con il consenso dei partiti e dei loro portaborse, delle categorie e delle lobby che vivono smarriti nella danza e bussano alla cassa. Il quadrilatero è forte, fortissimo. Nonostante abbia basi fragili, molti debiti, lottizzazioni, e soprattutto mancanza di volontà e valutazioni serie. Non lo scardina nulla e nessuno.
Per fare qualcosa bisognerebbe trovare chi (chi?) abbia voglia di fare la sola rivoluzione di cui c’è bisogno: togliere le fondamenta politiche, o di convenienza, che lo hanno accuratamente portato al blocco di idee e di iniziative di controtendenza; o si tratta semplicemente di un blocco celebrale in troppe teste?