Venuto al mondo: Recensione in Anteprima
In anteprima su Cineblog la recensione di Venuto al mondo, ultimo film di Sergio Castellitto, con Penelope Cruz ed Emile Hirsch
Dopo Toronto e San Sebastian, Venuto al mondo si appresta ad invadere i nostri cinema. Ben 350 le sale in cui verrà proiettato quest’ultimo, delicato lavoro di Sergio Castellitto, che qui torna riproponendo un trio già ampiamente rodato in occasione di Non ti muovere. Venuto al mondo, infatti, è tratto dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini, e vede tra i protagonisti la sempre avvenente Penelope Cruz.
Progetto ambizioso questo, sia in termini commerciali che a livello prettamente artistico. Il libro della Mazzantini ha riscosso un certo consenso e ci si domanda a ragione se tale trasposizione sia stata in grado di mantenere un buon livello, alla luce di premesse abbastanza soddisfacenti.
D’altronde non pochi sono i temi toccati da Venuto al mondo, aspetto che rendeva a priori la sua realizzazione un’impresa ancora più ardua. Laddove in ambito letterario una buona penna potrebbe riuscire a destreggiarsi tra tutta quella congerie di eventi e situazioni, certe operazioni richiedono una sensibilità ben diversa sul grande schermo. Componente, questa, su cui non potremo fare a meno di tornare a breve, allorquando ci soffermeremo su cosa ci ha convinto e cosa no.
Gemma (Penelope Cruz) è una studentessa italiana piuttosto matura. Diego (Emile Hirsch) invece è un giovane fotografo americano dal passato burrascoso. I due s’incontrano sullo sfondo di una Sarajevo che non ha ancora conosciuto la guerra che qualche anno dopo l’avrebbe devastata – siamo nel 1984. I due si piacciono e in men che non si dica s’innamorano, trovandosi nella condizione di dover riconsiderare i propri sogni e le proprie ambizioni. Il tutto per amore di stare insieme. Per sempre.
Questo non è che l’incipit di un’opera certamente costruita attorno all’amore, ma il cui vero leitmotiv si muove costantemente in bilico tra più sfaccettature dello stesso. Come abbiamo accennato poco sopra, le tematiche toccate durante il dipanarsi della trama sono molteplici. Perché in fondo in amore non è tutto bianco o tutto nero, anzi. Come probabilmente in nessun altro ambito, esistono una miriade di tonalità più o meno marcate.
In questo contesto, su tutte, emerge il desiderio di maternità. Aspirazione ambigua, ma a dire il vero nient’affatto annacquata da certi facili sconfinamenti nel campo del sentimentalismo. Venuto al mondo procede essenzialmente su due binari, alternando il dramma esistenziale di una donna alla disperata ricerca di diventare madre per la prima volta, con quello più ampio di un popolo in guerra. Ma non ci vuole molto per capire che il secondo sia subordinato al primo, dato che il ricorso alla Guerra nei Balcani funge più da sfondo che altro. Tragedia nella tragedia, insomma.
Il film si apre con un’inquadratura che ricorda molto una delle più sdoganate alla vigilia dell’ultimo Festival di Venezia riguardo a The Master. Una plongée che ritrae il mare aperto da un lato e la piattaforma di una nave dall’altro. Scelta non casuale, qui come nel film di Anderson. Dopodiché ecco che veniamo gradualmente condotti attraverso le prime battute della storia. Non male come inizio.
Ma i primi nodi cominciano a sorgere poco più avanti. L’entrata in scena della storia d’amore tra Gemma e Diego rappresenta più o meno emblematicamente un punto di svolta notevole. Da quel momento il film tende pericolosamente verso un abisso incolore che oscilla tra la noia ed il semplice disappunto; il tutto misto a qualche raro ancorché debole cenno di fiamma. Troppo didascalici alcuni passaggi, che paradossalmente tendono anche ad essere i più significativi di un film che non riesce a fare a meno di scaricare il peso di certi suoi messaggi solo ed esclusivamente sull’uso della parola.
Non a caso le coordinate più chiare in tal senso ci vengono fornite da due scene in particolare. La prima è quella in cui Gemma e Diego, dopo una serie di peripezie, raccontano ad una psicologa perché vorrebbero avere un figlio. Ciò che sarebbe dovuto trapelare pressoché esclusivamente dalla messa in scena, finisce con l’essere manifestato in maniera inequivocabile, scelta opportuna in ambito letterario forse, ma che nel contesto del grande schermo rischia seriamente di compromettere una chiave interpretativa molto forte e oltremodo pregnante. Sulla falsa riga di questa prima scena ve n’è un’altra, simile, tanto da apparire speculare alla prima. In questo caso è la Cruz che torna sull’argomento, mentre mitiga ai nostri occhi la sua ossessione per la maternità spiegando ad un amico il perché si stia struggendo così tanto.
Ed è esattamente questo deliberato delegare alla parola ciò che ahinoi svilisce la potenza insita nel seppur efficace racconto che si sta mostrando. E la nota stonata sta proprio in questo: nel mostrare poco e dire troppo. La spiccata mancanza di plasticità visiva in alcuni dei passaggi cardine è il difetto che più ci sentiamo di imputare a questo film. Laddove sarebbe stato più opportuno prendersi la premura di descriverci certe dinamiche attraverso le immagini ed il loro avvicendarsi, ci si limita piuttosto ad esternarle in maniera sin troppo diretta mediante il ricorso ai dialoghi. Quest’ultimi non più funzionali al racconto, ma a conti fatti indebitamente essenziali affinché passino certi input che dovrebbero filtrare mediante canali ben diversi. E non che si tratti di un’opera verbosa, né tantomeno tale connotato va a priori giudicato male. Un film come Cosmopolis, giusto per citarne uno, poggia interamente sui dialoghi; eppure in mezzo a tutto quel pedante discutere Cronenberg riesce a destreggiarsi meravigliosamente.
Sostanzialmente è tutto qui, in questo arenarsi della pellicola in alcuni dei momenti in cui avrebbe dovuto mostrare i muscoli in maniera più veemente. Di carne al fuoco ce n’era già parecchia, dato che la storia di per sé è piuttosto densa. Ed è inevitabile storcere il naso quando si è costretti a prendere atto di un lavoro che procede al contrario, ossia complicandosi la vita là dove se ne sarebbe benissimo potuto fare a meno, e giocando invece al risparmio in quei determinati punti in cui si avverte palesemente il bisogno di una maggiore ricchezza espositiva.
Un vero peccato, perché Venuto al mondo ha realmente tutta l’aria di una produzione dal respiro internazionale – cosa che a conti fatti è. Ecco perché dinanzi alle sue incertezze non si riesce proprio ad essere accondiscendenti. Rivolgiamo la nostra attenzione sul cast. Ricco, promettente come oramai sempre più di rado accade con i film nostrani. Emile Hirsch per più di metà del film sembra l’ombra di sé stesso: quell’ottimo attore che abbiamo imparato a conoscere in film come Into the Wild e che non può certamente essere scomparso, alla luce di una prova di tutto rispetto nel più recente Killer Joe. Difatti nell’ultima parte del film, quando non è più chiamato ad atteggiarsi a grottesco e stralunato americano, dà prova di quanto vale, riappropriandosi del tenore che gli appartiene.
Un po’ meglio la Cruz, che effettivamente mantiene un buon livello per tutta la durata del film, dando peraltro credibilità al suo personaggio quale che sia il periodo preso in considerazione – da notare che la narrazione si snoda in quasi trent’anni. Tolta qualche battuta poco riuscita, encomiabile anche la prova di Adnan Haskovic, attore bosniaco a cui a nostro avviso il talento non manca, specie se incanalato nel progetto giusto. Interessante anche Saadet Aksoy; l’attrice di origini turche beneficia peraltro di un copione che le consente di creare un discreto ponte tra il suo personaggio ed il pubblico.
Tuttavia le perplessità rimangono. Tolti quei passaggi discutibili di cui abbiamo già fatto menzione (a cui per altre ragioni possiamo aggiungere i seguenti: Gojko che tenta di insegnare a Pietro quanto sia dura la vita attraverso una partita di calcio; la morte del professore ebreo; l’artificiosa nostalgia con cui viene costruita la reunion sul finire del film), poco ci ha convinto non tanto la colonna sonora quanto l’uso che se ne fa. Brani di per sé splendidi, ma in qualche caso (non tanti comunque) apparentemente poco appropriati. Senza contare la mole di canzoni, per un potpourri di generi che a luci nuovamente accese lascia lievemente interdetti: difficile stabilire il tenore del comparto sonoro, proprio per la sua forzata varietà. Qualche pezzo in meno probabilmente non avrebbe guastato.
Poco prima che il mistero venga svelato, a dire il vero, la pellicola dà segni di ripresa. Ma oramai è troppo tardi e nemmeno un discreto finale può risollevare le sorti di un film che per due ore procede quasi per inerzia. Fino a quei dieci minuti di apparente vitalità, la propensione fortemente descrittiva di Venuto al mondo non fa che allontanarci anziché tenderci la mano. E questo a dispetto di un soggetto nient’affatto banale, ma che al momento di tirare le somme si rivela privo di mordente per come è orchestrato. Ciò che rimane è la lodevole fotografia di Gianfilippo Corticelli, oltre che un cast in cui l’unica nota davvero stonata è rappresentata dall’interpretazione di Pietro Castellitto (ci spiace dirlo, ma la sfuriata in albergo contro la madre evidenzia tutti i limiti di questa sua specifica prova).
Insomma, poco, troppo poco per un film che, ribaltando il gergo calcistico, doveva se non vincere quantomeno convincere. Venuto al mondo finisce con l’essere lo spettro del film che sarebbe dovuto e potuto diventare: intenso ed oltremodo coinvolgente. E se non i singoli drammi, ad uscirne ridimensionato è il loro intreccio, maldestramente vanificato da una messa in scena discutibile più nella forma che nella sostanza.
Voto di Antonio: 5
Venuto al mondo (Italia, 2012). Di Sergio Castellitto, con Penelope Cruz, Emile Hirsch, Adnan Haskovic, Pietro Castellitto, Saadet Aksoy, Luca De Filippo, Sergio Castellitto, Jane Birkin, Mira Furlan, Branko Djuric, Isabelle Adriani, Sanja Vejnovic, Luna Mijovic, Juan Carlos Vellido, Milan Pavlovic, Moamer Kasumovic, Rijad Gvozden, Emina Muftic e Sven Medvese. Qui trovate il trailer ufficiale. In uscita nelle nostre sale giovedì 8 Novembre.