Home Notizie La cineteca nazionale ripropone Tornatore: i film che parlano di un’Italia smarrita

La cineteca nazionale ripropone Tornatore: i film che parlano di un’Italia smarrita

La Cineteca Nazionale di Roma dal 22 al 25 novembre organizzerà una rassegna dedicata a Giuseppe Tornatore

pubblicato 30 Ottobre 2012 aggiornato 31 Luglio 2020 20:43

Mai come in questo anno stanno tornando nei titoli dei film, e non solo la parola Italia, una Italia senza forza. Non li voglio elencare. Stuccano. Ma Viva l’Italia merita una citazione per il sarcasmo assoluto che propone soprattutto in una battuta di Michele Placido, uomo politico, bocca della verità, rivolta a una gentile (?) signorina. Le dice, da seduto, le seguenti parole: “Io sono ricco e passo davanti, lei non è ricca e si attacca al c…”. Sono la bandiera della reclame del film. Su cui glisso.

Preferisco cogliere l’opportunità che offre la Cineteca Nazionale di Roma che dal 22 al 25 novembre organizzerà una rassegna dedicata per intere giornate a Giuseppe Tornatore, bravo, discontinuo, regista che ci insegna però alcune cose: ad esempio, l’importanza di parlare d’Italia e della sua scassata epopea. Uno dei film in cui emerge non tanto nostalgia sul come eravamo ma come, nel confronto, ci siamo ridotti è La leggenda del pianista sull’oceano, forse troppo lungo ma complessivamente efficace, con grandi sequenze.

Il film mi ha fatto pensare a un giudizio dei critici di “Le Monde” proposito dei molti lavori italiani sulla immigrazione nel nostro paese. Secondo loro, che scrivevano dalla Mostra di Venezia di due anni fa, i numerosi lavoro sembravano loro dettati da una vera e propria ossessione verso l’immigrazione.

Forse è un parere esagerato. Ma non c’è dubbio che questi film, molti o pochi non importa, dimostrano senso di colpa e incapacità di raccontare questa storia fatta di tante storie. Perché?

Per dare una interpretazione, vorrei tornare sul tema del grande cinema non come nostalgia ma come storia da rivalutare. Specie quando si parla di un cinema internazonale. Hollywood rischia di essere eclissata da Bollywood; nessuno più parla di Cinecittà come una Hollywood sul Tevere, né degli studi di Pinewood a Londra, delI’ex Ufa a Berlino o della Mosfilm di Mosca (oggi inesistente). I film arrivano alla spicciolata anche in Italia da tante parti del mondo e non creano un punto di riferimento preciso. Neanche la potente Cina ha un cinema in grado di essere egemone. E allora?

Allora bisogna tornare, per capire all’Italia e alle sue ossessione bisogna tornare alla Hollywood del sogno americano. Un sogno che nasce da lontano (la nostra Europa neanche è incinta di futuro), in e con una nuova terra, promessa, gli Stati Uniti d’America: il Vecchio Mondo dell’Europa cominciò a scoprirla dopo la Guerra di Indipendenza Americana (1776) che sconfisse i colonialisti olandesi, britannici francesi e spagnoli.

Erano passati quasi trecento anni , per l’esattezza duecento ottantaquattro, dal viaggio di Cristoforo Colombo, primo “emigrante”, 1492. Gli Stati Uniti Americani cambiarono la storia, e ciò pochi anni prima della Rivoluzione Francese(1789). Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo (1787) e la costituzione in cui è specificato il diritto di tutti alla felicità, la nuova terra promessa cominciò a richiamare gli europei (inglesi, tedeschi, olandesi, italiani, francesi) e in seguito gli emigrati asiatici (cinesi, giapponesi, indiani) e latino americani (messicani, brasiliani, cileni, argentini).

Luccicava nella terra promessa il sogno americano di trovare lavoro, libertà, benessere, fortuna: dentro e fuori di essa gli stessi americani cercavano di materializzare un loro sogno di guadagni e avventura, lanciandosi nella ricerca di giacimenti nella corsa all’oro di metà ottocento.

La necessità, la povertà, la voglia di lasciare in vari continenti e paesi situazioni arretrate, politicamente, economicamente, gettarono rapidamente le basi di una grande aspettativa che creò a lungo un altrettanto grande leggenda capace di risolvere dolorosi problemi, drammi, sofferenze, e quindi non astratte, illusorie, speranze.

La letteratura e poi dai primi del Novecento il cinema muto e dal 1928 sonoro, s’ incaricarono di diffondere non solo nel Vecchio Mondo, l’idea che esistevano buone probabilità per rendere possibile un sicuro riscatto da miseria e disagio a portata di mano, concreto, reale. Prospettive e non miraggi, avvalorati da esodi di massa sollecitati, programmati, verso la Statua della Libertà, nel porto di New York, “porta” d’America. Verso uno sviluppo tumultoso industriale, agricolo, artigianale complessivo che aveva bisogno di braccia ma anche e soprattutto di cervelli.

Un’immagine emblematica della attesa spasmodica, della fiducia stimolata dalla fama non usurpata dell’America come di una promessa vera, è quella di Charlie Chaplin nel film Charlot emigrante (1917) in cui il grande artista, nei panni di un emigrante con bombetta, in mezzo ad altri emigranti, guarda la famosa Statua con gli occhi del desiderio e del sogno che diventa tangibile, seducente visione di libertà e scommessa sul domani.

Un secolo dopo il regista italiano Giuseppe Tornatore ripropone la stessa scena con gli occhi di una moltitudine di italiani che si affollano sul ponte della nave su cui si sono imbarcati per il film “La leggenda del pianista sull’oceano” (1998) per specchiarsi nella famosa Statua.

Tra i due film, il cinema ha continuato a presentare le pellicole sul tema e sui personaggi noti o sconosciuti che hanno descritto la leggenda, una vera e propria epopea con i colori dell’entusiasmo e però anche del dolore. Dolore per lo sradicamento dalla propria terra; per paura dell’ignoto, della difficoltà dei rapporti, della lingua e della comunicazione. Una lunga odissea. Con sogni ad occhi aperti. In Italia tornavano negli anni dopo la seconda guerra mondiale (dal 1945 in poi) gli “zii d’America” che venivano filmati dai cinegiornali dell’epoca.

Nel film di Tornatore, gli italiani “immigrati” in America trovavano un Paese, al confronto gli “immigrati” qui da noi trovano un Paese incerto, sfasciato, afflitto da un razzismo silente. Mi fermo qui. Sul tema è necessario tornare, grazie proprio al film di Peppuccio che è segnato da una magnifica musica di Ennio Morricone, tra note di entusiasmo sulla terra promessa e delusione, noi adesso per gli immigrati l’Italia è solo o soprattutto delusione.