Cannes 2019, Liberté, recensione: Albert Serra mette in scena de Sade
Festival di Cannes 2019: di nuovo il regista catalano ragiona sugli umori che agitavano l’Europa che si apprestava a vivere l’epoca dei lumi, battendo ancora sul binomio costituito da sesso e morte
Manca poco alla Rivoluzione Francese, in quel 1774 già dominato dai lumi, quantunque non ancora al Potere. Nella Germania di quel periodo, culla di grandi filosofi e Filosofie, c’è chi si sta già preparando per la nuova Era che verrà. Espulsi dalla Francia di Luigi XVI, Madame de Dumeval, il Duca de Tesis e il Duca de Wand, cercano riparo tra Potsdam e Berlino, dove cercano di coinvolgere pure il Duca di Walchen ad aderire alla loro causa. Di che si tratta? Ciò che accomuna tutti questi personaggi è la Fede inossidabile nel Libertinaggio quale risposta massima, oltre che unica, a secoli di Leggi e proibizioni che hanno tarpato le ali all’umanità, che finalmente si dichiara libera da tutta questa congerie di limitazioni, pronte ad essere messe in soffitta.
Ad Albert Serra tutto si può rinfacciare, fuorché di non essere coerente, quasi ai limiti del parossismo, con un’idea di cinema ben precisa, che consapevolmente vuole farsi Arte e dunque dire qualcosa. Il regista catalano sa che la Storia al cinema non si ricostruisce, va sublimata. L’esasperazione, l’estremo che tocca questo suo ultimo lavoro sta lì a testimoniare questa esigenza di rappresentare non tanto un’epoca bensì la sua atmosfera, o meglio ancora, il Pensiero che si agita dietro certi suoi passaggi, ciò che le pagine di Storia non possono facilmente consegnarci, mentre quelle di Filosofia non sono alla portata di tutti.
Sia chiaro, non che Liberté ambisca ad alcuna accessibilità. Non agli occhi di chi vorrebbe appunto un elenco di fatti, una trama strutturata e via discorrendo. Tutto nel cinema di Serra è al servizio di quanto evidenziato sopra, ossia rendere manifeste tendenze e desideri appena percettibili tra le righe di un racconto quasi sempre scarnificato, individuando poche cose ma rivelatrici. Nei film di Serra sono le azioni dei personaggi a dare senso, mettendoci a parte rispetto a ciò che dobbiamo sapere e, laddove possibile, capire. Ecco perché l’ossessione con cui il regista de La Mort de Louis XIV, di cui Liberté assurge a una sorta di sequel spirituale, si sofferma sul ripetersi non di rado meccanico di certi comportamenti.
Dicevo di Liberté quale seguito, per certi versi, del lavoro precedente di Serra. Concettualmente senz’altro, poiché quello un film sulla decomposizione in essere, mentre sta avvenendo, di un corpo, il suo venire meno, e con esso il dissolversi di una forma di Potere pronta a venire soppiantata da un’altra, dato che il cosiddetto vuoto di Potere è una favoletta che non ha alcun riscontro con la realtà, da sempre. Questo invece è un film di quasi-morti, personaggi trascinati da quella spirale di dissoluzione che, come gli zombie di Romero, si trascinano compiendo attività su cui sembrano avere il pieno controllo, mentre così non è.
Liberté è forse la descrizione più lucida dell’Inferno dopo Le 120 giornate di Salò di Pasolini, quantunque le premesse siano diverse. Non si pensi però che il Potere descritto dal poeta italiano sia del tutto altro rispetto a quanto invece mette in scena Serra: nel caso di Pasolini tale Potere viene esercitato attraverso l’operato concreto di funzionari, quand’anche quest’ultimi si servano della mera pressione psicologica, che è comunque una forma di Potere piuttosto concreta, tangibile. Il discorso di Serra si muove su un binario parallelo, ma non così diverso: i suoi personaggi, infatti, ancorché liberi nell’accezione più ampia del termine, confinati ad una foresta in cui poter mettere in pratica a pieno la loro nuova religione, quella che vieta ogni divieto, sono a loro volta schiavi di questo “nuovo” Potere, incarnato da un’idea, che è appunto la Libertà spinta al massimo delle sue possibilità.
E non si può dare contezza della portata di tutto ciò senza partire dal dato concreto, quantunque teatralizzato, di quali siano le ripercussioni di questo totale abbandono a un ideale. Liberté si apre con l’approssimarsi dell’oscurità, luogo adatto per chi vuole nascondersi, per chi sta sperimentando una nuova dimensione. Il passaggio ad una notte che ha quasi del soprannaturale, o forse metafisico, poiché in atto vi è un cambio di paradigma che cambia l’uomo dal profondo, quella regione di cui certo rigido realismo non può affatto dar ragione. I vari personaggi, incipriati, ben vestiti quando lo sono, s’incontrano, si scrutano, talvolta dando l’impressione quasi di volersi sbranare a vicenda. Tutti attratti da quei luoghi che rimandano ad una condizione primigenia, perché è da lì che bisogna ripartire, ossia la Natura, non meno divinizzata della Libertà; anzi, tornare ad una sorta di stato edenico è esattamente il punto, poiché lì c’è il Bene, l’uomo è Buono finché incontaminato.
Perciò Liberté diviene un catalogo di episodi che rimandano a de Sade, non limitandosi a riproporli a livello descrittivo, quasi che ci si fosse serviti di certi testi a mo’ di manuale d’istruzioni, bensì estrapolandone la ratio, o per meglio dire il senso più profondo, che è appunto profondamento umano. C’è infatti una differenza abissale tra un film malato ed uno che tratteggia una malattia, sebbene non di rado la linea di demarcazione sia invece oltremodo sottile: il discorso di Serra non può prescindere dall’esporre l’abiezione, realizzando scene di sesso in cui il sesso non c’è. Al suo posto il degrado, l’istinto vissuto come un compito gravoso dato a sé stessi, dal quale non a caso non si trae piacere ma sofferenza, che è esattamente ciò a cui le anime in pena che vagano sullo schermo anelano, pervertendo quel principio tutto sommato trasversale secondo il quale appunto soffrire significa espiare, dunque crescere, migliorare.
E c’è, se non tutto, almeno parte del paradosso del Cinema, che è sempre un fare luce su qualcosa, qualunque cosa. Questo significa mettere costantemente in discussione i limiti dello sguardo, oramai peraltro abituato all’osceno, nel senso beniano di ciò che è fuori dalla scena; in un’epoca in cui di questo fuori, di questo oltre, se n’è fatto oggetto di un feticismo sfrenato, in quanto non solo lo si predilige ma se ne è quasi esclusivamente attratti. Si potrebbe quasi dire che Albert Serra, per certi versi, si limiti a puntare la sua lente sul principio di un simile rivolgimento, appuntamento che per troppo tempo è stato rinviato, quali che siano state le ragioni. Se la sua è pornografia, dunque, non lo è per le ragioni immediate, ossia mostrare ciò che, come evidenziato poco sopra, è stato per lungo tempo fuori dalla scena.
Se proprio la si vuole definire tale, e si può, si deve altresì ammettere la sua urgenza, il suo mettere con le spalle al muro; non attraverso la sublimazione dell’Arte, perché in certe immagini non è che semplicemente non c’è Eros, ma nemmeno alcuna aspirazione all’erotismo. Non avendo più tanto senso lo spingere un po’ più in là limitazioni già in larga parte eluse, tocca allora non semplicemente focalizzarsi su quanto avviene entro lo schermo ma su come guardare all’azione nel suo svolgersi, costringendo chi osserva a porsi dei quesiti affinché non si limiti a recepire tale azione bensì a decodificarla, così da non commettere lo stesso errore di quei figuri agiti da forze che non controllano, vittime e non autori. Serra ci pone nella privilegiata posizione di poter vedere coloro che invece possono solo guardare, ossia i suoi personaggi, bypassando quel voyeurismo becero alla base del dispositivo pornografico. Non producendo perciò pornografia, quanto semmai mostrandocela; e, così facendo, dandoci modo di comprendere non lei, la pornografia, ma certi suoi presupposti. Finché non si fa giorno.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
Liberté (Francia/Portogallo/Spagna/Germania, 2019) di Albert Serra. Con Helmut Berger, Theodora Marcade, Marc Susini, Iliana Zabeth, Laura Poulvet, Baptiste Pinteaux, Alex Garcia Duttmann, Lluis Serat, Xavier Perez, Francesc Daranas, Montse Triola e Safira Robens. Un Certain Regard.