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Selfie: trailer del documentario “partecipato” di Agostino Ferrente

Selfie: video, trailer, poster, immagini e tutte le informazioni sul documentario di Agostino Ferrente nei cinema italiani dal 30 maggio 2019.

pubblicato 27 Maggio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 19:04

[Per visionare il trailer clicca sull’immagine in alto]

 

Il 30 maggio arriva nei cinema italiani Selfie, il documentario presentato a Berlino (Panorama) scritto e diretto da Agostino Ferrente (L’Orchestra di Piazza Vittorio, Le cose belle) e interpretato e filmato da Alessandro Antonelli e Pietro Orlando. Il documentario, che fruisce del patrocinio di Amnesty International Italia, prende spunto dalla morte del 17enne Davide Bifolco morto nel 2014 per un colpo di pistola sparato da un carabiniere.

Il regista Ferrente è stato introdotto alla tragica storia di Davide Bifolco attraverso il libro “Una città dove si ammazzano i ragazzini” di Maurizio Braucci e Massimiliano Virgilio, pubblicato da le Edizioni dell’Asino nell’autunno del 2014 (pochi giorni dopo la tragedia).

Napoli, Rione Traiano. Nell’estate del 2014 un ragazzo di sedici anni, Davide, muore, colpito durante un inseguimento dal carabiniere che lo ha scambiato per un latitante. Davide non aveva mai avuto alcun problema con la giustizia. Come tanti adolescenti, cresciuti in quartieri difficili, aveva lasciato la scuola e sognava di diventare calciatore. Anche Alessandro e Pietro hanno 16 anni e vivono nel Rione Traiano. Sono amici fraterni, diversissimi e complementari, abitano a pochi metri di distanza, uno di fronte all’altro, separati da Viale Traiano, dove fu ucciso Davide. Alessandro è cresciuto senza il padre, che dopo la separazione dalla madre si è trasferito lontano da Napoli. Ha lasciato la scuola dopo una lite con l’insegnante che “pretendeva” imparasse a memoria “L’Infinito” di Leopardi. Ora fa il garzone in un bar: guadagna poco, non va in vacanza ma ha un lavoro onesto in un quartiere dove lo spaccio, per i giovani disoccupati, è un ammortizzatore sociale di facilissimo accesso. Pietro ha frequentato una scuola per parrucchieri, ma al momento nessuno lo prende a lavorare con sé. Il padre, pizzaiolo, ha un lavoro stagionale fuori città e torna a casa una volta alla settimana, mentre la madre è andata in vacanza al mare con gli altri due figli. Lui, invece, ha deciso di passare l’estate al rione, per fare compagnia al suo migliore amico e iniziare una dieta che rinvia da troppo tempo.

Alessandro e Pietro accettano la proposta del regista di auto-riprendersi con il suo iPhone per raccontare in presa diretta il proprio quotidiano, l’amicizia che li lega, il quartiere che si svuota nel pieno dell’estate, la tragedia di Davide. Aiutati dalla guida costante del regista e del resto della troupe, oltre che fare da cameraman, i due interpretano se stessi, guardandosi sempre nel display del cellulare, come fosse uno specchio, in cui rivedere la propria vita. Una disputa allontana i due amici: Alessandro preferirebbe venisse raccontato solo il loro rapporto e il resto delle cose belle del rione, ché di quelle brutte parla già quotidianamente la stampa. Pietro, al contrario, non vorrebbe tacere nulla, perché solo così lo spettatore potrà capire quanto è difficile per loro, in quel contesto, vivere una vita “normale”.

Il racconto in “video-selfie” di Alessandro e Pietro e degli altri ragazzi che partecipano al casting del film viene alternato con le immagini gelide delle telecamere di sicurezza che sorvegliano come grandi fratelli indifferenti una realtà apparentemente immutabile, con i ragazzi in motorino che sembrano potenziali bersagli in un mondo dove la criminalità non sembra una scelta ma un destino che ti cade addosso appena nasci. Un film fatto interamente di sguardi dove il rione appare ai due ragazzi come una parafrasi dell’Infinito di Leopardi, che Alessandro prova finalmente a raccontarci: circondato da un muro che esclude la conoscenza di tutto ciò che sta al di là e che forse, si augura, un giorno, almeno i suoi figli potranno finalmente scoprire.

[quote layout=”big” cite=”Agostino Ferrente – Regista]I primi mesi mi chiamavano tutti Mario e all’inizio non ne capivo il motivo. Poi mi è stato spiegato che è il nome con cui si avvisa della presenza di uno sbirro, evidentemente mi avevano scambiato per un poliziotto. Mi hanno accettato bene quando hanno saputo che volevo girare un film sulla morte di Davide, una vicenda che vivono con un profondo senso di ingiustizia, anche perché al carabiniere è stata sospesa la pena.[/quote]

 

 

NOTE DI REGIA

 

Dopo L’Orchestra di Piazza Vittorio e Le cose belle, avevo giurato di non realizzare più documentari. Avevo sofferto troppo entrando nelle vite delle persone coinvolte: non so fare documentari diversamente, ho bisogno di immergermi a fondo nella realtà che voglio raccontare, fino a diventarne parte. Non so realizzare documentari d’osservazione, raccontare in maniera neutra. No: io sprofondo nella realtà di cui mi innamoro e non voglio più raccontarla, voglio modificarla, “ripararla”. Ma poi venni a conoscenza della storia di Davide. Se ne era parlato molto tra giornali e talk show e mi aveva colpito la facilità con cui un ragazzino colpevole solo di avere l’età sbagliata nel momento e nel posto sbagliati, per molti era diventato il colpevole e non la vittima: a poche ore dalla notizia il tritacarne del pregiudizio sociale aveva già sentenziato che si trattava di un potenziale delinquente e che quindi, in fondo, era solo “uno in meno”.

Gianni Bifolco, il papà di Davide, mi aveva dato appuntamento al Bar Cocco. Gli raccontavo che non volevo realizzare un’inchiesta sulla dinamica dell’accaduto, anche volendo non ne sarei stato capace, volevo piuttosto provare a raccontare il contesto nel quale quella tragedia assurda si era consumata. Per questo mi sarebbe piaciuto incontrare ragazzi del rione che avevano la stessa età di Davide quando era stato ucciso. Era capitato a lui, ma poteva succedere a loro. Volevo che, partendo dalla sua storia, raccontassero se stessi e il proprio universo. Mentre riferivo il mio progetto ci venne incontro l’inserviente del bar, un ragazzino con la faccia magra da adolescente che andava di fretta perché doveva prepararsi per la festa della Madonna dell’Arco. Gli chiesi se gli andava di filmare la cerimonia con il mio smartphone, pregandolo di tenersi sempre nell’inquadratura. Lui accettò e mi colpì perché durante la processione si commosse ma non smise di filmare se stesso tra le lacrime, con la statua della Madonna alle sue spalle. Il giorno dopo si presentò da me, sempre al bar Cocco, un ragazzo paffutello e con i baffi, che si definiva il migliore amico di Alessandro. Sembrava molto più grande ma giurava di avere anche lui 16 anni…

Chiesi ad entrambi di “farsi” un provino col mio iPhone in una scuola appena ristrutturata e già in abbandono. Avevo convocato anche altri ragazzi con loro, ai provini, perlopiù amici intimi Davide, oltre ad alcune ragazzine e qualche bambino. Ma era già chiaro: i protagonisti del film sarebbero stati loro due, Alessandro e Pietro. Ho consegnato loro due cellulari, affinché, attraverso l’espediente del selfie “responsabilizzato”, si annullasse ogni filtro tra loro e il regista (il primo spettatore del film) e i due, privati dell’ansia della prestazione indotta da una telecamera usata da un operatore, si potessero concentrare di più su quello che dicono e fanno. Ma non avevo intenzione di subappaltare, anche solo in parte, la regia del film, non cercavo un documentario “partecipato”: ho solo chiesto ai miei protagonisti di essere al tempo stesso anche cameraman, col compito di auto-inquadrarsi, da me guidati, guardandosi sempre nel display del cellulare come se fosse uno specchio: in cui rispecchiare sé stessi e il mondo alle loro spalle, così che quello specchio potesse diventare lo schermo cinematografico – per vedere (farci vedere) Alessandro e Pietro che osservano se stessi e il proprio contesto sociale e umano, la loro vita: i quartieri popolari di Napoli sono stati raccontati in lungo e in largo. Anch’io nel mio piccolo l’ho fatto, cercando “le cose belle” nascoste tra le rovine dovute frutto del disinteresse delle istituzioni, i fiori che resistono, nonostante tutto. La mia nuova ossessione era raccontare gli sguardi di questi ragazzi, concentrandomi non su quello che vedono, che oramai tutti conosciamo, ma sui loro occhi che guardano. [Agostino Ferrente]