Venezia 2012: un bilancio tra tematiche e fantasmi
A meno di quarantott’ore dalla chiusura, tiriamo le somme della 69a Mostra d’Arte Cinematografica Internazionale di Venezia. Tra tematiche e fantasmi
Ed anche un’altra Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, la sessantanovesima, si è conclusa. Il Lido va spopolandosi ed il Cinema dà appuntamento a Venezia fra un’anno più o meno esatto. Tanto è già stato detto, e tanto altro si dirà. Tra diatribe e dibattiti di vario tipo, noi optiamo ancora una volta per ciò che più c’interessa: i film.
E di questo, per l’appunto, intendiamo discutere. Perché il Festival che ha appena chiuso i battenti ci abbandona imprimendo in noi quel pizzico di sana nostalgia, dopo averci sedotto con una rassegna densa di appuntamenti assolutamente meritevoli. E di pellicole degne, di spessore, a Venezia non ne sono affatto mancate.
Tra sorprese e conferme, abbiamo avuto modo di gioire, esaltarci, sorridere, così come innervosirci, annoiarci e commuoverci. Un’esperienza oltremodo intensa, racchiusa in poco meno di due settimane all’insegna di pellicole la cui successione è stata in grado di generare shock emotivi come solo ad un Festival, un buon Festival, può accadere. Di seguito tentiamo di sottoporre un nostro bilancio.
Partiamo dalla fine, ossia dall’atto conclusivo rappresentato dalla premiazione. Onesta, tutto sommato condivisibile. Avremmo certamente gradito un Premio della Giuria ed una Coppa Volpi femminile diversi, ma in certi casi è pressoché impossibile mettere d’accordo tutti. Nel primo caso avremmo visto molto bene La Cinquième Saison, mentre alla Hadas Yaron di Fill the Void avremmo di gran lunga preferito la Nora Aunor di Thy Womb, oppure la bella e giovane Aurélia Poirier, sempre di La Cinquième Saison. Volendo non ci sarebbe nemmeno dispiaciuto il riconoscimento a To the Wonder per la miglior fotografia, ma in tal senso se la giocavano almeno in tre – tra cui il vincitore, ossia Daniele Ciprì.
Posta tale premessa, ci preme mettervi a parte di quelle che a nostro parere sono state le tematiche più forti di quest’ultimo Festival. In parte già annunciate alla vigilia da Barbera, solo la visione dei vari film ci ha permesso di scorgere con maggiore chiarezza il filo conduttore che lega buona parte delle opere presenti.
In primis i media, vecchi e nuovi, con annessa tecnologia. E se nel caso di un film come Disconnect e Superstar l’allusione è scontata, altrove bisogna lavorare un po’ di più. Disconnect evidenzia le falle di una realtà in cui la dimensione telematica sta sempre più avendo il sopravvento. Dai social network alle transazioni online, il film apre uno squarcio su alcuni degli scenari cui danno adito certe piattaforme. Non ci ha sbalordito, ma il film di Rubin funziona. Superstar, invece, si serve della tematica dei new-media per denunciare un altro fenomeno, ossia la bramosia di celebrità al giorno d’oggi. Il povero Martin è vittima inconsapevole di quel processo comunemente detto virale, per cui all’improvviso si ritrova incolpevolmente e immotivatamente famoso. Personaggio patetico il suo, che subisce certi meccanismi in maniera del tutto passiva, sino al triste epilogo finale. Tutto parte da alcune immagini e video catturati per strada e poi uploadati sui principali canali di video o image-sharing.
Ma su tutti, come non citare De Palma? Meno scontato e quindi più profondo il rapporto di Passion con l’universo mediale. Il film si apre e si chiude sulla medesima immagine, un laptop. Praticamente ogni passaggio essenziale del film si snoda attraverso il ricorso a dispositivi di questo tipo. Che si tratti di una mail o di una registrazione mediante telefono cellulare, il coinvolgimento/travolgimento delle ex-nuove tecnologie è preponderante. Non stentiamo a comprendere i fischi, in nessun caso giustificati, eppure piuttosto indicativi. La portata di quest’ultima fatica di De Palma trascende i meri codici di pseudo-critica cinematografica, spingendo il mezzo oltre e promuovendo il regista americano da profeta ad interprete.
Lo stesso Malick affida un momento importante del suo To the Wonder ad una delle piattaforme contemporanee più in voga, ossia Skype. La conversazione avuta dal personaggio di Olga Kurylenko con la figlia ha un peso non indifferente se non nell’intera economia del film, quantomeno nell’ambito di quella fase specifica. Non una critica in senso stretto da parte di Malick; piuttosto la dimostrazione di quanto sia fittizio lo slogan secondo cui la tecnologia, facendo anche leva su dimensioni sensoriali come lo sguardo, avvicini realmente le persone. In quel caso, l’episodio segna al contrario un abbandono, per quanto non definitivo.
Passiamo al secondo leitmotiv di questo Festival, ossia (genericamente) il tradimento. Vero è che si tratta di un tema vecchio come il mondo, su cui il Cinema si è già ampiamente espresso in passato. Ma poco alla volta, proiezione dopo proiezione, l’idea che tale soggetto fosse il risultato di un criterio stabilito a priori si è fatta sempre più consistente. Anche qui, da un lato abbiamo menzioni talmente palesi da sembrare banali. E’ questo il caso di Betrayal, film diretto in maniera pressoché impeccabile ma che a noi non ha fatto impazzire. Il punto è che l’intero impalco narrativo poggia su un doppio tradimento. Fino a quando Serebrennikov non mescola troppo le carte e rischia di mandare tutto a scatafascio.
Ma in tal senso si potrebbe citare pure Welcome Home, titolo di base interessante, ma troppo, troppo acerbo per risultare anche solo lontanamente incisivo. La confusione di una donna che fatica a comprendere ciò che vuole e che per capire e capirsi appronta una sorta di apologia del tradimento, non fine a sé stesso ma quale percorso iniziatico verso la consapevolezza che conta. Perplessità.
E che dire di Stories We Tell? Uno dei titoli più teneri e coraggiosi dell’intera Mostra, altro non rappresenta che un approfondimento sulla famiglia della regista Sarah Polley. Salvo poi scoprire, dopo poco tempo, che la vera protagonista è la madre di Sarah, personaggio di cui viene tratteggiato un profilo quanto mani sommario ma al tempo stesso profondo. Una donna che dietro ad una costante ed inspiegabile energia, celava un dolore che nemmeno coloro che le stettero più vicino riuscirono mai ad afferrare. Cosa centra il tradimento? Beh, sappiate che Sarah ha scoperto la verità riguardo al suo vero padre quando aveva circa vent’anni.
Ma è evidente che l’infedeltà di coppia rappresenta sola una delle tante sfaccettature. In Après mai e in The Company You Keep assistiamo a due diverse prospettive riguardo ai cosiddetti anni della contestazione, a cavallo tra ’60 e ’70, forzandoci a chiederci se in quel caso furono gli uomini a tradire certi ideali oppure viceversa. Stesso dicasi per The Reluctant Fundamentalist, pellicola che adopera un registro inverso, ripercorrendo un tradimento al contrario, stavolta nei riguardi del proprio popolo.
Doppiezza e inganno sono per esempio le colonne portanti di un film come Outrage Beyond, interamente basato su un continuo susseguirsi di doppi giochi più o meno eclatanti. Inganno che assume un tono violentemente tragico in Pieta, tutto finalizzato ad una vendetta viscerale. Tradimento che diviene abiura di sé stessi in Spring Brakers, dove le quattro protagoniste preferiscono annullarsi nel roboante chiasso del gruppo anziché tentare di ritrovarsi partendo da loro stesse. Altro potremmo dire, ma preferiamo arrestare la nostra corsa a questi pochi spunti.
Detto ciò, il Festival è anche sostanza, quella che viene percepita in maniera diversa da ognuno di noi. E visto che ci siamo, cosa si porterà il sottoscritto da questa Mostra, quali film ritiene che gli rimarranno in qualche modo impressi? Considerazioni, queste, in cui ci si può inoltrare solo a posteriori, quando si ha un quadro completo ed è consentita qualche licenza di carattere più personale. Giudizi a parte, quattro le opere che non intendo dimenticare e non dimenticherò. Andiamo con ordine.
Parto con due delle pellicole più controverse; fischiate, da alcuni addirittura odiate. A parere di chi scrive, invece, trattasi di veri e propri fari il cui raggio ha illuminato il Lido come pochi altri. Anzitutto To the Wonder. Dovrebbe essere risaputo che Terrence Malick ha un’idea di Cinema ben precisa, poetica, personale. Il suo ultimo lavoro non si discosta di una virgola da tale idea, assecondandola con una coerenza ed una maestria fuori dal comune. Il suo è un ritratto incantevole, dolce ed eccezionalmente coinvolgente. Quelli che lui ripercorre sono ricordi, attimi ed episodi apparentemente sconnessi che danno vita ad una straordinaria tela di suoni, immagini e colori. Il suo vizio è anche la sua virtù, ossia quello di essere intimo, troppo per alcuni. Ma in quell’intimità c’è tutta la radicale tensione di un’artista che rievoca parti di vissuto sepolti chissà dove. Ed in questo nessuno al mondo è più abile di lui.
Altro film che ha diviso nettamente la critica è Passion. A nostro avviso si tratta di un concentrato di De Palma in salsa spiccatamente attuale. Il regista di origini italiane riprende una storia che già si conosceva, la intorbidisce e la attualizza con una perizia fenomenale. Per quanto mi riguarda non vedo così scadente nemmeno la tanto vituperata prima parte, prodromo azzeccato di una seconda metà in cui il film letteralmente decolla. E poi è proprio in quelle prime battute, effettivamente stanche ed un po’ allungate, che rintracciamo premesse e volti di un De Palma lungi dall’essere a mezzo servizio. Temi musicali, inquadrature e tenore che a nostro parere rendono giustizia ad uno stile così accattivante come quello del buon vecchio Brian. Dopodiché il sovrapporsi e mescolarsi di dimensione onirica e reale; e Passion ha già fatto suo il livello successivo.
Passiamo quindi agli altri due film, in realtà anch’essi oggetto di critiche decisamente contrastanti, ma il cui dibattito è stato fino ad ora meno rumoroso. Harmony Korine porta al Lido la sua opera migliore, emblema di una maturità oramai acquisita. C’è tutto Korine in Spring Breakers, quindi un Cinema fresco, originale, ardito fino ai limiti della spavalderia. Tecnicamente eccelso, contenutisticamente pregno. Il suo è un trattato, l’ennesimo, su quella fetta di USA su cui s’intende glissare per malcelata vergogna. Spring Brakers è un film lercio, a tratti ripugnante, che dietro l’apparente esaltazione di un nichilismo sfrenato, cela una denuncia piuttosto chiara nei confronti di una gioventù americana senza riferimenti. Una gioventù che tende all’auto-distruzione mediante un conformismo becero e letale. Un percorso disarmante tra pop e delirio, che centra nel segno con uno stile fenomenale. E certi passaggi sono da antologia.
Ultimo ma non meno importante menzione è quella di La Cinquième Saison. Se per i tre sopracitati, onestamente, non ci aspettavamo chissà quale riconoscimento, sul film diretto a quattro mani da Brosens e Woodworth eravamo pronti a scommettere forte. Film da Festival che più da Festival non si può, La Quinta Stagione avrebbe strameritato almeno il Premio della Giuria, andato ad un Paradise: Faith buono, ma di gran lunga meno elegante del film belga. Quest’ultimo, ritratto impietoso e straziante di un contesto alla deriva. Fortemente ancorato ad un richiamo simbolico, La Cinquième Saison si distingue per una profondità visiva e compositiva che non ha eguali in questa Mostra. Certe immagini ci sono entrate nella pelle, e chissà quanto ci metteranno ad andarsene.
Come vedete non vi è menzione dei due film considerati i più rappresentativi di questo Festival, e non a caso premiati con il Leone d’Oro ed il Leone d’Argento. Ovviamente faccio riferimento a Pieta e The Master. Due film per certi aspetti ineccepibili, potenti, ognuno a proprio modo. Già dal trailer s’intuiva che quello di Kim Ki-duk fosse un lavoro di pancia, dal grande potenziale. Non si può in alcun modo negare la spiazzante intensità che pervade il film coreano, la cui cupa energia mette al tappeto. Tuttavia Pieta è pur sempre frutto di un autore che apprezzo abbastanza, ma che semplicemente non è nelle mie corde.
Riguardo a The Master si dovrebbe scrivere un articolo a sé. Anderson si dimostra uno dei migliori (se non di più) con la macchina da presa. Le sue sono affascinanti suggestioni, mai banali e sempre un passo avanti. Ma The Master, impeccabile sotto tanti aspetti, ha smesso di crescere dopo davvero poco tempo. Trattasi di una pellicola per certi versi devastante, dura come un macigno. Ci parla del percorso orizzontale di una setta americana pseudo-religiosa, focalizzandosi invece sui profili di alcuni personaggi che vi orbitano attorno. E lo fa con uno stile seducente, che colpisce e lascia tramortiti. Senza dubbio uno dei film migliori non solo del Festival ma di quest’anno, solo che a brevi tratti sono riuscito a entrarvi. E quando ne sono uscito ho fatto fatica a ricostruire cosa sia “andato storto” anche alla luce di un’opera così eccellente.
Detto ciò, mettiamo un drastico punto. Di seguito vi lascio invece con i voti dei film visti, ai quali integro un brevissimo commento laddove non mi sia occupato della recensione o non mi sia già espresso nel presente articolo. Sono loro i fantasmi del titolo: opere che abbiamo visto e a cui ci siamo in qualche misura legati, ma che non avremo a disposizione per un po’. Molte chissà per quanto. Film che appaiono e scompaiono come entità prive di materia. Fantasmi, per l’appunto.
CONCORSO
Après Mai – Olivier Assayas
Recensione
Voto: 8
At Any Price – Ramin Bahrani
Recensione
Commento: Sobrio e spigliato ma in fin dei conti poco incisivo.
Voto: 6
Bella Addormentata – Marco Bellocchio
Recensione
Voto: 7
Betrayal – Kirill Serebrennikov
Recensione
Commento: Serebrennikov ci sa davvero fare dietro la macchina da presa, se non fosse che ad un certo punto perde la bussola ed il tutto prende una strana piega.
Voto: 5
La Cinquième Saison – Jessica Woodworth e Peter Brosens
Recensione
Voto: 9
È stato il figlio – Daniele Ciprì
Recensione
Voto: 7
Fill the Void – Rama Burshtein
Recensione
Voto: 5
Un giorno speciale – Francesca Comencini
Recensione
Commento: Va bene l’attualità, ma va saputa filtrare. E senza strane mescolanze, che alla fine lasciano pure l’amaro in bocca.
Voto: 4
Linhas de Wellington – Valeria Sarmiento
Recensione
Voto: 6,5
The Master – Paul Thomas Anderson
Recensione
Voto: 8
Outrage Beyond – Takeshi Kitano
Recensione
Voto: 6
Paradise: Faith – Ulrich Seidl
Recensione
Commento: Amaramente vero e divertente, anche se inutilmente e furbescamente eccessivo in alcuni punti.
Voto: 7,5
Passion – Brian De Palma
Recensione
Voto: 8
Pieta – Kim Ki-duk
Recensione
Voto: 7,5
Spring Breakers – Harmony Korine
Recensione
Voto: 10
Superstar – Xavier Giannoli
Recensione
Voto: 7
Thy Womb – Brillante Mendoza
Recensione
Commento: Rischiosamente descrittivo fino quasi alla fine. Poi la svolta nelle ultime battute, con una grande protagonista.
Voto: 7
To the Wonder – Terrence Malick
Recensione
Voto: 9
FUORI CONCORSO
Bad 25 – Spike Lee
Recensione
Voto: 8
Bait 3D (Shark 3D) – Kimble Rendall
Recensione
Commento: Se il trash non si fosse fermato alla sola presenza di due squali dentro a un supermercato, forse avremmo parlato di altro.
Voto: 4
Cherchez Hortense – Pascal Binitzer
Commento: Sottile commedia francese che tocca più argomenti alquanto delicati. Spiritosa ma con gusto.
Voto: 7
The Company You Keep – Robert Redford
Recensione
Voto: 7
Disconnect – Henry-Alex Rubin
Recensione
Voto: 7
Enzo Avitabile Music Life – Jonathan Demme
Recensione
Commento: Ha il merito di scoperchiare un mondo a molti di noi sconosciuto. E lo fa in maniera efficace.
Voto: 7,5
L’Homme qui rit – Jean-Pierre Améris [film di chiusura]
Commento: I suoi maggiori punti di forza stanno in un bellissimo soggetto, tratto da un romanzo di Victor Hugo, ed uno stile pregevole.
Voto: 7
The Iceman – Ariel Vromen
Recensione
Voto: 7
Love is All You Need – Susanne Bier
Recensione
Commento: Intelligentemente tenera ma non sofisticata questa commedia della Bier.
Voto: 7
O Gebo e a Sombra – Manoel de Oliveira
Recensione
Commento: Più Teatro che Cinema, in quest’ultimo lavoro del maestro portoghese. Ma il fascino non manca.
Voto: 7
The Reluctant Fundamentalist – Mira Nair [film d’apertura]
Recensione
Voto: 6
Tai Chi 0 – Stephen Fung
Commento: Grottesca prima parte di una trilogia da cui ci aspettiamo più botte ancora (e più raffinate) ed episodi al limite. Il tutto in salsa steampunk, con ambientazione nel diciannovesimo secolo cinese.
Voto: 6,5
ORIZZONTI
The Cutoff Man – Idan Hubel
Commento: Parte da una premessa a dire il vero interessante. Ma procede troppo lentamente per lasciarsi seguire fino alla fine.
Voto: 5,5
L’intervallo – Leonardo Di Costanzo
Commento: Semplice ma al tempo stesso valido. Sogni e paure di una gioventù che non vuole smettere di credere che ci sia di meglio rispetto a ciò che li circonda.
Voto: 7
Me Too – Alexej Balabanov
Commento: Balabanov ci regala quasi un’ora e mezza di mistico nonsense russo. Un po’ fratelli Coen, un po’ Tarkovskij. Con le dovute proporzioni, s’intende.
Voto: 7,5
The Millennial Rapture – Koji Wakamatsu
Commento: Tolta la suggestiva cornice, poco si salva di un film piuttosto pretenzioso.
Voto: 4,5
GIORNATE DEGLI AUTORI
Acciaio – Stefano Mordini
Commento: Bella la fotografia di Bigazzi, per un’opera stantia, debole sotto troppi aspetti.
Voto: 4
Inheritance – Hiam Abbass
Commento: Acerbo e con alcune scelte discutibili. Per il resto apprezzabile, specie per come si approccia all’argomento trattato, ossia la tensione tra Libano e Israele.
Voto: 5,5
Keep Smiling – Rusudan Chkonia
Commento: Qualcuno potrebbe anche alludere al trash d’autore. Parte in maniera promettente, per poi seppellirsi da solo immediatamente dopo.
Voto: 4
Queen of Montreuil – Solveig Anspach
Commento: Tenera ed ironica commedia dal sapore agrodolce. Ci ha ricordato vagamente Mike Leigh per come vengono sviluppati certi personaggi. Davvero una bella sorpresa.
Voto: 7,5
Stories We Tell – Sarah Polley
Voto: 8,5
SETTIMANA DELLA CRITICA
Kiss of the Damned – Xan Cassavetes
Commento: Ha un suo perché, ma una buona tecnica cede il passato ad una vacuità complessiva che vanifica il tutto.
Voto: 5
Welcome Home – Tom Heene
Voto: 4,5