Festival di Venezia 2009: la globalizzazione e la macchina a mano di Michael Moore
Michael Moore non è Ken Loach. Sono due duri e puri, ma Michael è meno puro e Ken è più duro. Al Festival è arrivato, molto atteso, Michael che è un regista di documentari che si è costruito una fama indiscussa. Da “Roge& Me” a Bowling for Colombine”, “Farhreneit 9/11”, “Sicko”, “Slecher Uprising/ Captain Mike
Michael Moore non è Ken Loach. Sono due duri e puri, ma Michael è meno puro e Ken è più duro. Al Festival è arrivato, molto atteso, Michael che è un regista di documentari che si è costruito una fama indiscussa. Da “Roge& Me” a Bowling for Colombine”, “Farhreneit 9/11”, “Sicko”, “Slecher Uprising/ Captain Mike Across America”, questo pingue e tenace uomo del Michigan ha avuto premi, guadagnato in abbondanza (il capitalismo paga se i film anche doc incassano), creato un modello di giornalismo d’intervento che piace a tutti, in special modo ai più giovani e ai più anziani.
I giovanissimi e i più anziani, per diverse ragioni, sono coloro che tra il pubblico s’incazzano di più. I primi perché vedono il mondo della globalizzazione come una fregatura piuttosto che una opportunità (ovunque precarietà o sfruttamento senza tante possibilità intermedie).I secondi, in pensione, fuori dal giro del lavoro e delle opportunità, si sentono fregati dal loro presente e dal loro piccolo futuro,e non sanno con chi prendersela. Con baldanza, aggressività, sarcasmo e fermezza il puntiglioso Michael si mette al servizio di entrambi con la sua macchina a mano e col montaggio.
In Capitalism: A Love Story, (qui il trailer) il regista procede nel suo cammino dopo il bersaglio grosso del doc a carico George W. Bush (che gli ha consentito di riscuotere il maggior successo) e ha individuato un bersaglio grosso, forse ancora più grosso: il Capitalismo.
Dopo tutto non è stato difficile stabilirlo oggi come oggi in quanto la crisi economica- paragonata a quella terribile del 1929 negli Usa e dilagata anche in Europa- ha scosso le fondamenta dell’economia statunitense, e non solo, come sappiamo. A testa bassa e fina (il regista ha talento) ha scelto il Capitalismo: nemico dei nemici, vincitore delle battaglie con tutti i sistemi che si sono proposti di batterlo, ad esempio il Comunismo dell’Urss imposto da sovietici nei Paesi dell’Est; e resistente, in forme molto cambiate, e in crisi, sia a Cuba che in Cina. Dopo aver visto a Venezia le circa due ore del film doc di Michael ci si può domandare: com’è andata?
Beh, lo spettacolo a tratti non manca, sono presentissime le buone intenzioni, l’analisi sulla finanza criminale è serrata…Ma è proprio l’analisi che non aiuta a capire davvero le trame e la logica di quel che è successo e sta succedendo. Forse, la macchina a mano che scappa di mano, le corse del pesante corpo del simpatico Michael, il sarcasmo, le trovate spiritose, la buona volontà, i ricordi all’America del presidente F.D. Roosevelt e delle atmosfere di toccante democraticismo dei film di Frank Capra non sono sufficienti a scalzare il Capitalismo e a denunciare la lunga storia d’amore tra il Capitalismo e l’America.
Michael è duro di propositi. Ma per andare a fondo bisogna essere un puro, come lo è Ken Loach, combattente, lottatore continuo, che conosce le astuzie del Nemico Capitale che non muore. I duri fanno notizia e la gente va a vederli, trascinati dalla curiosità e dalla voglia di incazzarsi. Però forse è meglio scegliere con misura come e dove mettere la macchina a mano che rischia di scappare di mano.