2001 tra Kubrick e Clarke, quel che non sapevamo sulla lavorazione di Odissea nello Spazio
In meno di 200 pagine Filippo Ulivieri e Simone Odino scandiscono i lavori che hanno portato a 2001 Odissea nello Spazio, soffermandosi sulla complessa ma affascinante collaborazione tra Stanley Kubrick ed Arthur C. Clarke
Quante volte, tra i cultori o addirittura gli studiosi di Stanley Kubrick, ci si è sentiti pungolati dalla curiosità di sapere, conoscere, quale delirante processo abbia portato alla nascita di 2001 Odissea nello Spazio. Uso «nascita» non a caso, e non soltanto perché in tema con una parabola, quella del film, che appunto descrive un percorso analogo, anche se si tratta più correttamente di rinascita, superamento. No, raramente come nel caso di questo libro, scritto a quattro mani da Filippo Ulivieri e Simone Odino, si ha contezza di quanto dare vita a un’opera comporti una vera e propria gestazione; complessa, articolata in questo caso, e non poteva essere diversamente alla luce della natura del progetto.
2001 tra Kubrick e Clarke perciò va oltre l’analisi o il mero raccoglitore modello trivia, ossia l’offrire curiosità più o meno interessanti. Parte dalle premesse, da cosa si è agitato per mesi prima che Kubrick riuscisse anche solo a maturare l’idea di darsi a questa impresa, un’Odissea nell’Odissea, lui che in fondo non ha mai smesso mai d’immaginarsi quale eroe della sua Storia, così affascinato e legato al concetto di Mito, fascinazione che ha mantenuto per tutta la vita. C’è un aneddoto che il libro non riporta ma che in qualche modo ci dà la dimensione, consentendoci di affondare meglio tra le pagine del lavoro di Ulivieri e Odino: un giorno Kubrick invia a John Calley, figura a capo del dipartimento di produzione in Warner negli anni ’70 e amico stretto del regista, una copia de Il ramo d’oro di Frazer, un saggio sulle culture primitive inerente allo studio comparativo delle religioni, pungolandolo ogni due settimane per circa un anno: «John, devi leggerlo». Alla fine, immagino stremato, Calley risponde: «Stanley, ho uno studio da portare avanti. Non ho il tempo di leggere di mitologia». Al che Kubrick rispose: «Non è mitologia, John. È la tua vita».
Questo ricordo, rievocato da un altro stimato collaboratore di Kubrick, Michael Herr, con cui scrisse la sceneggiatura di Full Metal Jacket, rappresenta forse la migliore introduzione a 2001 tra Kubrick e Clarke (qui l’articolo). Non ci si faccia infatti depistare, per esempio, dalla struttura del secondo di tre capitoli di cui consta il libro: anche quando Ulivieri si limita, per così dire, a compilare un seppur corposo calendario inerente alla lavorazione, scrupoloso nel riportare date e avvenimenti, ecco, anche in quel caso in realtà stiamo leggendo un racconto.
Se n’era già avuta la conferma in un precedente lavoro di Ulivieri, l’importante Stanley Kubrick e me (2012), che è in fondo il resoconto dei quasi trent’anni che Emilio D’Alessandro ha trascorso accanto al cineasta del Bronx nelle vesti di tuttofare. Anche lì si avverte questa preoccupazione per la narrazione, una quasi spontanea propensione a rendere una serie di fatti, di per sé già corroboranti, appunto trama. Sfido infatti a riuscire con facilità a staccarsi da quella successione di situazioni ed episodi di cui è costellata la vicenda che ha portato 2001 ad essere ultimato. Ed è la storia di una strana amicizia, di un’affinità intellettuale che tale amicizia l’ha resa e forse continua a renderla impossibile, al netto dell’affezione e del rispetto che l’uno nutriva per l’altro.
Due indoli opposte, Kubrick e Clarke condividevano forse la medesima prontezza e vastità d’intelletto, sebbene guardassero a orizzonti differenti. Profili che non emergono mediante descrizione, ma, come accade con le migliori sceneggiature, attraverso l’azione, il concreto di momenti in cui questi personaggi fanno e dicono qualcosa, il loro incontrarsi che è quasi sempre uno scontrarsi, pur loro malgrado. Al che ciascuno possa farsi un’idea non soltanto dei due protagonisti di questa storia, ma anche, forse soprattutto, di questo loro stimolante ancorché esasperante scambio, protrattosi con un’intensità a tratti folle per quasi quattro anni.
Non voglio anticipare quanto emerso dal botta e risposta tra chi scrive e gli autori, che trovate qui di seguito. Tuttavia qualcosa mi pare opportuno evidenziarla, accingendomi così a concludere questo scritto, introducendo la fase successiva, quella appunto dell’intervista. 2001 tra Kubrick e Clarke, nemmeno poi così paradossalmente, finisce con lo smitizzare una certa idea maturata negli anni, ossia quella di un regista perfezionista, maniaco e misantropo, che dalla sua stanzetta importuna mezzo mondo con richieste assurde. Se c’è un merito tra tutti, che va senz’altro riconosciuto a questo seppur breve lavoro (ho fatto notare ad Ulivieri che altre centocinquanta pagine mi avrebbero molto gratificato), ebbene, sta indubbiamente nell’aver contestualizzato ancora meglio, con lucidità e chiarezza, chi fosse Kubrick e cosa facesse.
Come sottolinea a ragion veduta Simone Odino, va mandata in soffitta quest’idea persino troppo romantica dell’artista avulso da ogni altra logica. Voglio dire, chi si è accostato con un po’ più di attenzione al personaggio, magari proprio attraverso le pagine di ArchivioKubrick, saprà certamente quanto al nostro stesse a cuore il riscontro commerciale dei suoi film, e quanto, è vero, maniacale fosse pure rispetto all’attività di promozione degli stessi. Qui però c’è di più. C’è l’imprenditore che cura ogni singolo particolare da prima ancora che l’idea salti fuori, interfacciandosi con tutti, senza sottovalutare nulla, sapendo quando delegare e come. Ed è un’avventura incredibile, fatta di concessioni, lotte, fallimenti, ripiegamenti, né più e né meno che in guerra. Perciò quando parliamo anche di grandi cineasti, viene da rivalutare l’idea che questi facessero/facciano film: il regista dirige, lo sceneggiatore scrive, il montatore monta, il produttore produce e via discorrendo. Nessuno, o pochi nella migliore delle ipotesi, si sono anche solo avvicinati a quell’idea terribile e meravigliosa, che è davvero il fare film, come Stanley Kubrick. E 2001 tra Kubrick e Clarke rappresenta in tal senso una preziosa testimonianza.
Intervista a Filippo Ulivieri e Simone Odino
Possiedi un sito il cui nome è di per sé esplicativo, ArchivioKubrick. Quale “lacuna” (d’obbligo le virgolette) ti ha convinto, se così si può dire, a curare un libro come questo? E quanti altri ancora se ne potrebbero pubblicare anche solo restando alla gestazione di 2001?
Filippo Ulivieri: Il libro nasce dall’espansione di tre scritti che io e Simone Odino abbiamo pubblicato l’anno scorso in occasione del 50º anniversario dell’uscita di “2001: Odissea nello Spazio.” Entrambi pensiamo che di studi su Kubrick ce ne siano fin troppi, quindi nei nostri lavori cerchiamo sempre di portare un contributo nuovo, che aggiunga qualcosa che manca nella pur sterminata letteratura kubrickiana. In effetti è lo stesso spirito che mi ha mosso fin dal principio, quando ho fondato ArchivioKubrick, che giusto il mese scorso ha festeggiato i 20 anni di vita. Ho creato il sito perché all’epoca non c’era una risorsa online su Kubrick che soddisfacesse il mio interesse verso il laboratorio creativo di un artista e che raccogliesse documenti — interviste a Kubrick e ai suoi collaboratori, bozze di sceneggiatura, foto di scena, recensioni d’epoca — che potessero essere utili a chiunque volesse studiare o anche solo approfondire il lavoro del regista. Ugualmente “2001 tra Kubrick e Clarke” nasce un po’ come risposta alla mancanza di un libro su “2001: Odissea nello Spazio” che raccontasse perché Kubrick prese la decisione di realizzare un film di fantascienza, come esattamente spese i quattro anni che furono necessari a portarlo a termine e come infine andò veramente la relazione con Arthur C. Clarke. Queste domande secondo noi non avevano ancora trovato una risposta soddisfacente. Abbiamo letto tutti i libri, i saggi e gli articoli pubblicati sul film dagli anni ’60 a oggi e nessuno riusciva a fornire una visione d’insieme, completa e chiara, dell’impresa kubrickiana. Inoltre abbiamo potuto consultare i documenti inediti della Collezione Clarke allo Smithsonian e del Kubrick Archive di Londra, cosa che già di per sé giustificava un nuovo libro su “2001”.
A tal proposito, in relazione al secondo capitolo del libro, in cui in pratica ripercorri i momenti più salienti dell’intero processo produttivo, addirittura approntando un calendario. Ecco, non ho potuto fare a meno di pensare a quanto analogamente Kubrick fece rispetto alla vita di Napoleone. Al di là delle fonti a cui hai attinto per questa seconda parte del tuo lavoro, hai forse preso spunto da quell’intuizione lì per il Napoleon?
FU: Mi fa piacere che tu abbia notato il parallelo tra le mie ricerche sulla lavorazione di “2001” e le ricerche napoleoniche di Kubrick, così dettagliate da fargli asserire che avrebbe potuto dire cosa Napoleone aveva fatto e quali persone aveva incontrato per ogni giorno della sua vita. Nel libro si racconta analogamente tutto quello che Kubrick ha fatto e tutti coloro che ha consultato per creare il film, quasi giorno per giorno dal 1964 al ’68. Il rimando era intenzionale, e forse anche facile da cogliere per chi conosce bene Kubrick e ha letto le sue interviste, anche se a dirlo così esplicitamente mi sembra di fare un torto al libro perché, da narratore, preferisco sempre che sia il lettore a scoprire le ricchezze nascoste dentro a un testo scritto.
Una domanda a te, Simone. Nel capitolo che hai curato, il primo, evochi una tesi, se non è improprio definirla tale, che mi è nuova, ossia quella di un 2001 che nasce quasi come film d’impegno (anche questa una forzatura probabilmente, ma tant’è). Riporti infatti la percezione che aveva Kubrick rispetto a ciò che faceva, quel senso di responsabilità verso il pubblico non solo a lui contemporaneo ma anche di quello a venire. Fare bei film è importante insomma, ma farne di significativi lo è ancora di più. Anche per questo, da principio, 2001 cominciava come una sorta di documentario?
Simone Odino: La mia è un’idea tutto sommato in linea con le tendenze recenti degli studi kubrickiani: non è che il nostro realizza 2001 perché si sveglia la mattina e decide che, perché è un appassionato di fantascienza, è arrivato il momento di cimentarsi nel genere. Uno dei limiti di molti analisi del film è la rinuncia ad contestualizzare il film in panorama sociale e culturale che non sia quello stereotipato della controcultura del sessantotto “lisergico” in cui 2001 viene da sempre confinato. In diverse ricostruzioni sembra infatti che il film nasca dalla mente di Kubrick come risultato di un improvviso impeto artistico irresistibile, ma questo è un limite di un certo tipo di interpretazione di molti prodotti artistici, non solo cinematografici, che ci sembrava il momento di superare.
Come si lega tutto ciò con i presupposti di 2001 nello specifico?
SO: Pensiamo che in 2001 e ancora prima nel percorso che ha portato Kubrick alla decisione di fare un film di fantascienza, poi in quella di individuare Clarke come collaboratore, passando dalle tante scelte artistiche radicali effettuate durante la produzione del film, ci siano ragioni e scelte che si inseriscono in modo coerente nel percorso artistico, sociale culturale di un’intera carriera. Sin dalle settimane successive all’uscita de Il Dottor Stranamore si nota infatti un evidente tentativo di realizzare un’opera che catturasse lo zeitgeist, e in quel momento l’esplorazione spaziale non era solo un tema molto popolare (e quindi perfetto per trarne un film di successo al botteghino), ma era anche un aspetto del confronto tra le superpotenze che poteva concorrere a sublimare la guerra fredda in una competizione pacifica, come sosteneva anche molta della fantascienza dell’epoca. Di questo Arthur Clarke aveva fatto uno dei temi principali della sua produzione letteraria e di divulgatore; per quanto riguarda Kubrick, da diverse interviste – anche quelle inedite a cui abbiamo avuto accesso – rilasciate dal regista è evidente come questi fosse un sostenitore dell’investimento nei progetti spaziali anche da un punto di vista pragmatico e – uso le sue parole – keynesiano: la “corsa allo spazio”, dovendo convogliare le migliori menti e le risorse a disposizione su un obiettivo scientifico in modo coordinato e necessariamente complesso, rappresentava un impresa che avrebbe avuto ricadute positive sotto tanti aspetti nella società, al di là del semplice obbiettivo di esplorazione o di propaganda politica. Potremmo quindi considerare il fare un film sull’argomento come un modo, da parte di un artista come Kubrick che è sempre stato interessato alla ‘condizione umana’, di contribuire a questo obbiettivo. Il fatto che 2001 sia stato descritto dai due, all’inizio, come “semidocumentario mitologico” nasceva probabilmente dal rischio che soprattutto Kubrick sentiva fin dall’inizio: quello dell’impelagarsi in una storia che riproponesse i soliti stereotipi della fantascienza dell’epoca. La sensazione è che, poiché Clarke racconta che fin dai primi giorni della loro frequentazione di come Kubrick gli citava passi dei libri di Joseph Campbell dedicati all’importanza del mito nelle culture umane (peraltro un argomento che lo aveva sempre appassionato) ci fosse comunque nel regista la volontà di creare una storia ambientata nello spazio ma che riecheggiasse le avventure classiche dell’umanità, anche se tutto questo va sempre considerato alla luce del fatto che Kubrick era, come abbiamo già detto, un autore piuttosto pragmatico e disincantato; infatti il concepimento e la realizzazione di 2001 prenderà direzioni anche inaspettate, legate ad altre istanze artistiche e produttive.
Tornando a te, Filippo. Cosa hai scoperto su Kubrick, come cineasta e come persona, che prima non sapevi o immaginavi? Una tua opinione, al di là della mole di fatti e notizie che riporti nel libro.
FU: Quello che mi sorprende man mano che approfondisco la mia conoscenza del cinema di Kubrick è quanto abile fosse come manager. Subiamo tutti la fascinazione di origine romantica dell’artista puro che, quasi trascendesse la natura umana, riesce a creare un’opera d’arte assoluta, divina, per cui anche Kubrick, autore cinematografico per eccellenza, viene spesso visto e studiato come l’artista totale che viaggia lontano dalle banali concretezze del mondo materiale. In realtà era una persona estremamente pratica, che operava come il più abile dei CEO e il più scaltro degli uomini d’affari. Mi piace mettere in luce questo aspetto manageriale dell’artista Kubrick, sia perché nessuno lo racconta mai, sia perché lui stesso diceva che era essenziale alla creazione artistica. Scoprendo come lavorava in concreto — con gli attori, i tecnici, gli scrittori, i dirigenti degli studi, i grafici, i compositori, le segretarie, gli avvocati, i contabili — si capisce meglio come potesse realizzare quelle opere d’arte cinematografica così immortali.
Alla luce dello status acquisito dopo 2001, cosa lo spinge ad accettare di realizzare Arancia Meccanica con quel budget così modesto (verrebbe addirittura da dire ridicolo), a parte l’ovvio amore per quella storia? Voglio dire, il successo del suo ultimo lavoro non fu abbastanza per avere orde di produttori e/o major pronte a finanziargli la qualunque? Sospetto volesse in parte anche defilarsi da una macchina stritolante come quella sulla quale aveva dovuto viaggiare per portare a termine 2001, ma immagino tu mi possa dire dell’altro.
FU: In realtà dopo “2001” Kubrick era pronto a un’altra impresa mastodontica: il “Napoleon”, un film che avrebbe dovuto raccontare l’intera vita di Napoleone Bonaparte. Kubrick non solo aveva iniziato le ricerche preparatorie già nel 1967 quando ancora doveva finire di girare “2001”, ma aveva anche preparato un budget di massima da presentare alla MGM per il finanziamento. Il progetto naufragò per vari fattori, ma principalmente per le mutate condizioni dello show business: finanziare un film ad alto budget era diventato un rischio troppo grande che nessuna major voleva più correre. “Arancia Meccanica” nasce come progetto-fuga, consigliato a Kubrick da sua moglie Christiane per toglierlo dall’impasse del “Napoleon” e di altri progetti po’ complicati, tra cui già un film sulla Germania Nazista. Un film a basso budget, adattato in modo lineare da un romanzo strutturalmente perfetto e girato in meno di sei mesi. Non è quindi vero che Kubrick aveva i produttori ai suoi piedi, nonostante i successi di botteghino di “Spartacus,” “Lolita,” “Stranamore” e “2001.” Non li ha mai avuti: neanche dopo l’altrettanto clamoroso successo di “Arancia Meccanica” Kubrick poté fare il suo “Napoleon”; la Warner non gli dette i soldi necessari. Di nuovo, ecco l’artista che si scontra gioco forza con le triviali necessità del mondo reale.
A tal proposito. Se non erro LoBrutto, nella sua biografia, evidenzia questo aspetto, inevitabilmente oscurato dalla caratura del personaggio, ossia la sequela di “insuccessi” che ha collezionato Kubrick nel corso della sua carriera. Un merito ulteriore del vostro libro mi pare proprio quello di aver reso evidente come la lavorazione di 2001, forse più che quella di ogni altro suo film, si ponga quale emblema di una carriera intera. In svariate situazioni Kubrick ha infatti dovuto ripiegare su altre soluzioni, a volte rinunciare del tutto a certe idee, proprio nell’ottica delle cosiddette “condizioni date”. A conferma di una flessibilità che cozza con certa vulgata che lo vorrebe estremamente rigido nel senso quasi di “capriccioso”, se non addirittura malato di mente: la sua ossessione, come ravvisi tu stesso, era comunque permeata da un’intelligenza che gli consentiva di rispondere alle sollecitazioni. Ecco, potresti brevemente approfondire questo aspetto?
FU: C’è una frase in un’intervista a Kubrick che mi ha sempre colpito: un film consta di dozzine di decisioni da prendere ogni momento della giornata e compito del regista è prendere quante più decisioni giuste sia possibile. La frase evoca quasi un’immagine meccanica, come se il regista fosse un elaboratore elettronico che, dati degli input, produce in continuazione degli output. Questo approccio computazionale non è in effetti estraneo a Kubrick, che in un’altra intervista si definì una macchina del gusto, obbligata dalle circostanze della produzione a compiere continue scelte estetiche per ottenere un risultato artisticamente valido. Nel libro questo suo ininterrotto processo decisionale viene messo bene in evidenza, con tutta la frenesia e a volte il caos della vita sul set. Per chiudere con un’altra citazione dalle interviste di Kubrick: fare un film è un po’ come scrivere “Guerra e Pace” negli autoscontri del luna park. Ho cercato di restituire questa atmosfera nel secondo capitolo del libro, per far vivere al lettore l’esperienza esaltante, frustrante e a volte perfino terrorizzante di un set cinematografico.
Pensi che Kubrick ritenesse quella con Clarke la sua collaborazione più fruttuosa e stimolante in assoluto?
FU: Non saprei dirlo con esattezza. Ci sono tanti altri scrittori con cui Kubrick ha lavorato a lungo e con reciproca soddisfazione: Calder Willingham e Jim Thompson a inizio carriera su diversi film, Brian Aldiss a più riprese nel corso di più di un decennio per “A.I.”, Michael Herr con cui ha adattato “Full Metal Jacket” e con cui ha discusso molti altri progetti. Il merito di Clarke è quello di aver collaborato al film forse più iconico e fondamentale tra quelli di Kubrick, nonché una vera pietra miliare del cinema mondiale, e anche di aver contribuito all’invenzione di una trama in gran parte originale, cosa che resta un unicum nella carriera di Kubrick. Studiando le bozze della sceneggiatura, cosa che in questo libro siamo i primi a fare, non ho trovato Clarke questo pozzo di idee e trovate che taluni dicono sia stato, tuttavia ha indubbiamente fornito quello che Kubrick cercava sempre nei suoi collaboratori: un cervello attivo a cui lui potesse lanciare idee e suggerimenti per trovare insieme qualcosa di meglio.