Uomini di parola: Recensione in Anteprima
Al Pacino, Christopher Walken ed Alan Arkin insieme per una commedia a cavallo tra azione e gangster movie. Tra equivoci senili e voglia di un’ultima, rocambolesca possibilità, Uomini di parola ci racconta una giornata da ex-criminali con dei conti in sospeso. Anche con sé stessi
Ventott’anni di prigione: tanto è costato a Val (Al Pacino) assumersi la responsabilità per un colpo che non andò a buon fine. Da uomo di parola qual è, scelse di caricare su di sé il fardello di un omicidio che lo coinvolse in maniera accidentale e mantenere lo status quo a oltranza, senza più fiatare. Ma adesso il vecchio Val è pronto, e dietro quella porta c’è il mondo ad attenderlo. Anzi no, anzitutto lo aspetta il proprio passato. Lo stesso che lo condannò e che ora, fuori da quelle schiavizzanti ma al tempo stesso rassicuranti mura, intende porre la parola fine.
Di primo acchito parrebbe l’incipit di un qualsiasi, già visto gangster movie. Déjà vu acuito da quanto accade poco più avanti, quando si scopre che a dover giustiziare l’ex-galeotto è proprio il suo migliore amico, Doc (Christopher Walken); qui si insinua una situazione fotocopia, simile a quella di Donnie Brasco: Lefty (anche allora Al Pacino) costretto, suo malgrado, a guardarsi le spalle proprio da colui di cui più si fida. Ma d’altronde in certi ambienti funziona così, quindi c’è poco da lamentarsi se il filone segue certe tappe prestabilite.
In più, nota non meno di rilievo, Stand Up Guys (titolo originale) altro non è che una commedia, una di quelle che poggia più sulle premesse che su tutto il resto. Se tra le fila dei tuoi interpreti disponi di attori come Pacino, Walken ed Alan Arkin diventa pressoché arduo resistere alla tentazione. Ed allora ecco che tutto il peso dell’intera pellicola viene caricato sulle loro spalle, o meglio, su quella delle loro carriere. Di per sé il film ha poco o nulla da offrire, se non i suoi protagonisti, gettati in pasto alle folle per indurle maldestramente a rievocare momenti capitali nella storia della Settima Arte. Perché in fondo quei tre nomi lì di pagine ne hanno scritte, e parecchie, chi più chi meno.
Ciò che s’innesca sin da subito è esattamente questo, ossia un gioco, una lunga boutade che prende di mira l’anagrafe dei tre interpreti principali. Nè gli autori hanno interesse a nascondere tutto ciò, anzi: a partire dall’apprensione di Doc per farmaci di ogni tipo (quelli per l’ipertensione, per l’ulcera e via dicendo), passando per lo scontato ricorso al mancato vigore sessuale per via della vecchiaia incalzante, con annessi siparietti che ci si mette poco ad immaginare. Tra uno sketch e l’altro, però, si trova anche il modo di far filtrare tematiche un po’ meno spensierate, come il valore dell’amicizia e, per l’appunto, l’approssimarsi della terza età. Tutta roba su cui ci si sofferma quel tanto che basta per suscitare qualcosa; quel qualcosa da cui noi, in tutta sincerità, non siamo riusciti a farci scuotere più di tanto, pur avvertendolo nell’aria. Espressione di un lavoro ridotto al minimo sindacale, con i profili dei vari personaggi tirati fuori da un archivio ed assecondati con scrupolo.
Uomini di parola, con molta leggerezza, ci accompagna lungo le ventiquattrore successive alla scarcerazione di Val, che per l’occasione intendere fare baldoria. E baldoria sia: donne, droga, furti, mazzate; questo è ciò che intende Val per divertimento. Senza preoccuparsi di come possa essere il mondo dopo ventotto anni di vacanza da esso, riservando quel briciolo di stupore, nei riguardi di un contesto completamente diverso rispetto a come lo aveva lasciato, alla nuova modalità d’accensione di un’ingombrante auto sportiva.
Un film, dunque, concepito e condotto a mo’ di revival, e nella finzione, e nella realtà. Reunion per i tre personaggi, Val, Doc ed Hirsch; ma ritrovo anche per indiscutibili glorie di Hollywood, quelle alle quali l’industria in questione si aggrappa disperatamente quando non sa davvero più che pesci pigliare. E volendo, superato a fatica lo scoglio di questa riproposizione coatta nonché (diciamocelo pure) un po’ fine a sé stessa, qualche sorriso potrebbe pure scivolare dalla bocca. Ma anche quando si punta alle risate, Uomini di parola segue più che fedelmente un registro già visto: Al Pacino che trangugia Viagra per poi finire in ospedale con tanto di membro ostentatamente in vista sotto il lenzuolo o Arkin idolatrato e conteso dopo un improbabile ménage à trois ci ricordano un periodo ben più fortunato per certi episodi, ma che oggi possiamo al massimo recepire come anacronistici, del tutto privi di quell’originalità e mordente di non pochi anni or sono.
Insomma, trattasi di un progetto che corre in retromarcia senza però curarsi dello specchietto retrovisore: impensabile evitare degli urti qua e là, laddove non si tratta di veri e propri incidenti. Un’operazione nostalgia che, limitandosi al minimo sindacale, va presa per quello che è, ossia il tentativo di tirar fuori un piccolo spettacolo con grandi del passato. E a sostenere che tali nomi appartengano al passato non siamo noi, nossignore, bensì il film stesso, che tende, magari involontariamente, a mummificare prima del tempo figure che senz’altro hanno ancora delle cartucce da spararsi. In altre sedi però, non qui.
Voto di Antonio: 5
Voto di Gabriele: 4
Uomini di parola (Stand Up Guys, Commedia, USA, 2013) di Fischer Stevens. Con Al Pacino, Christopher Walken, Alan Arkin, Julianna Margulies, Vanessa Ferlito, Addison Timlin e Lucy Punch. Nelle nostre sale da giovedì 11 Luglio.