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La quinta stagione di Woodworth/Brosens al cinema dal 27 giugno

Il 27 giugno 2013 arriva al cinema La quinta stagione di Jessica Woodworth e Peter Brosens, per spingersi oltre gli schemi, la realtà devastante, le maschere degli uomini e gli stravolgimenti della natura, anche quella umana.

di cuttv
pubblicato 24 Giugno 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 12:59

“Devi avere il caos dentro per generare un fuoco danzante”

Parola di uno dei personaggi del visionario La Cinquième Saison dei registi Woodworth/Brosens, Con Sam Louwyck, Aurélia Poirier, Django Schrevens e Gill Vancompernolle, già recensito da noi al 69 Festival di Venezia, dove ha ricevuto il Premio Arca Cinema Giovani e il Premio Green Dro, seguito dal Premio FIPRESCI al 57 International Film Festival di Vallodolid, il Premio Speciale della Giuria e il Premio della Giuria Giovani al Festival de Cinema Europeen des Arcs, i Premi Cineuropa e Miglior Fotografia e il Miglior Attrice alla giovane protagonista Aurélia Poirier.

Un film ermetico e sorprendente, che conclude una trilogia sullo scontro tra uomo e natura, e ben più di una parabola dei tempi che cambiano, in un villaggio delle Fiandre sconvolto da un’inspiegabile calamità, che ha ridotto alla fame l’intera popolazione, e spalanca gli abissi di realtà devastanti e maschere inquietanti.

La quinta stagione

Una misteriosa calamità colpisce un remoto villaggio belga nelle Ardenne: la primavera si rifiuta di arrivare, gli alberi cominciano a cadere, la terra diventa arida, le provviste scarseggiano. Il ciclo della natura è sconvolto. La natura prende il sopravvento provocando l’implosione della piccola comunità. Due adolescenti, Alice (Aurélia Poirier) e Thomas (Django Schrevens), lottano per dare un senso alla propria vita in un mondo che sta crollando intorno a loro.

Un film difficile da girare, realizzato con un budget molto ristretto, che Nomad Film porta nelle nostre sale da giovedì 27 giugno 2013, e oggi anticipiamo con il trailer italiano, il poster, un’intervista al duo belga Woodworth/Brosens e il Diario dell’anno della peste a seguire.

La quinta stagione

Intervista ai registi di Ian Mundell

Le cose cominciano a scomparire, persino i colori… Il villaggio e il paesaggio sono una presenza forte nel film. Dove si trovano, e come avete scelto, questi luoghi?

Peter Brosens: Il villaggio si chiama Weillen ed è a soli due chilometri da casa nostra a Falaën. È un luogo straordinario, perché evoca l’isolamento di un luogo “situato in mezzo al nulla nel cuore delle Ardenne”. È abitato da una comunità rurale, è circondato da prati e campi e sovrastato da un grande e fitto bosco. È perfetto per ambientarvi una storia!

Come avete scelto gli attori?

Jessica Woodworth: Siamo stati aiutati dalla ADK Kasting di Bruxelles. Per circa sei mesi abbiamo cercato in tutto il Belgio Thomas e Alice. Io ho anche valutato alcune opportunità in Francia e Svizzera. Aurélia Poirier, che interpreta Alice, la protagonista, in realtà è francese. Quando l’ho vista arrivare al provino a Ginevra ho immediatamente capito che sarebbe statala nostra Alice. Django Schrevens, che incarna Thomas, ha 17 anni: è belgabrasiliano e vive a Bruxelles, dove abita anche Gill Vancompernolle (12 anni) che è di origini fiamminghe. Nel cinema belga Sam Louwyck non è uno sconosciuto. Abbiamo scritto il ruolo di Pol apposta per lui, così come abbiamo immaginato il ruolo di Marcel (l’uomo con il gallo) pensando a Peter Van den Begin. Nel film ci sono diversi attori straordinari, come Bruno Georis, Nathalie Laroche, Pierre Nisse e Delphine Cheverry. E sul posto abbiamo anche scelto alcuni non professionisti, come Robert Colinet e
Véronique Tappert. È stato meraviglioso lavorare con tutti.

E la scelta della troupe principale?

PB: Dopo aver visto gli incantevoli film Blue Bird e Little Baby Jesus of Flandr di Gust Van den Berghe (entrambi selezionati alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes), abbiamo chiesto ad Hans Bruch Jr. di essere il direttore della fotografia del nostro film. Hans ha portato con sé una squadra di operatori giovani e molto impegnati. Abbiamo proposto a Igor Gabriel, collaboratore abituale dei fratelli Dardenne, di occuparsi delle scenografie. Sia lui che la sua squadra sono stati fantastici. Pepijn Aben, tecnico del #suono in presa diretta, e Michel Schöpping, che si occupa del montaggio del suono, del missaggio e delle musiche, entrambi olandesi, lavorano con noi da Khadak e quindi hanno visto e sentito di tutto!

Qual è stato il contributo della troupe a La quinta stagione?

JW: È stato un film estremamente difficile da girare, e avevamo un budget molto ristretto e vincolato. I responsabili di ciascun dipartimento si sono rivelati pieni di risorse e di pazienza, adattandosi al nostro stile di lavoro che è molto esigente e impone di prendere numerose decisioni sul set, all’ultimo
momento. Non è una modalità facile per una troupe. «On est dans le nontraditionnel!» era la battuta ricorrente. Siamo stati costretti a cambiare il piano di lavorazione 27 volte nel corso dei 31 giorni delle riprese, perché dipendevamo interamente dalle condizioni atmosferiche! Il nostro primo aiuto regista, Arnout André de la Porte, che si occupava del programma giornaliero, è stato un vero mago.

Quali sono state le sfide tecniche della realizzazione del film?

PB: Credo che non ci saremmo sentiti normali se non avessimo messo a dura prova i nostri limiti. Faceva un freddo cane. Abbiamo girato tutte e le quattro stagioni nel cuore dell’inverno. Le scene d’estate sono state molto difficoltose: in pantaloncini corti e maglietta, gli attori erano congelati fino al
midollo! E durante la scena del barbecue estivo ha iniziato a nevicare fitto e sul set si è scatenato il panico.

Come lavorate in due alla regia?

PB: Prendiamo insieme ogni decisione. Fortunatamente siamo d’accordo quasi su tutto. Se a uno dei due viene in mente un’idea davvero pessima, l’altro glielo fa notare e poi, dopo un momento teso di silenzio, scoppiamo a ridere. E andiamo avanti così. Quando qualcosa funziona, quando una scena si svolge magnificamente, lo capiamo subito tutti e due, senza bisogno che ci parliamo.

Considerate La quinta stagione il terzo capitolo di una trilogia, dopo Khadak e Altiplano. È un progetto che avevate fin dall’inizio o un’idea che ha preso forma realizzando i film precedenti?

JW: La lavorazione di ciascun film ci ha assorbito così tanto che non ci siamo mai preoccupati di immaginarlo come parte di un progetto più grande. Solo dopo aver girato il secondo film, Altiplano, ci siamo confrontati sul nostro desiderio di applicare le nostre idee al luogo dove abitiamo. Viviamo qui nel Condroz da quasi dieci anni. Ci piaceva molto la sfida di lavorare “nel cortile di casa nostra”.

In che modo l’esperienza acquisita con i due film precedenti ha influenzato La quinta stagione?

JW: Dirigere un film è un’impresa titanica che comporta migliaia di decisioni che vanno prese nell’arco di vari anni. In tutta sincerità, in ogni film è scolpita una parte della nostra anima. I nostri film sono un’estensione di noi stessi: contengono i nostri dubbi, le nostre speranze, i nostri dolori e il nostro
rispetto. Per quanto riguarda la fase delle riprese, ogni singolo giorno su un set in esterni è unico. Malgrado l’esperienza che puoi avere acquisito, devi sempre affrontare un nuovo giorno con umiltà, convinzione e coraggio. E poi noi viviamo ogni film come se potesse essere l’ultimo.

Lavorare “a casa” ha modificato il vostro modo di sviluppare il film?

JW: Abbiamo svolto la stessa quantità di ricerche di quelle effettuate in Mongolia e in Perù. Un professore belga dell’università di Liegi, Françoise Lempereur, ci ha aiutato per una serie di aspetti storici e folcloristici. Abbiamo passato al setaccio archivi e musei e parlato con i contadini locali della loro vita quotidiana e delle loro ansie. Ma questa volta non avevamo il vincolo di attenerci a fatti precisi, visto che si tratta di una situazione ipotetica che si verifica in un prossimo futuro. Fortunatamente si tratta di pura finzione! Tuttavia, tutti gli elementi presenti nel film derivano in una certa misura dalla realtà, esattamente come nei nostri due film precedenti.

Parlatemi un po’ delle idee che legano i tre film.

PB: Abbiamo iniziato a girare film di finzione in Mongolia (Khadak) e Perù (Altiplano), due luoghi per definizione molto lontani. Ciò nonostante quello che ci siamo sforzati di trasmettere è in realtà molto, molto vicino a noi. Con La quinta stagione abbiamo rivolto il nostro sguardo al nostro ambiente
perché abbiamo sentito che era necessario trasporre le nostre idee nel contesto in cui viviamo. In realtà, la storia de La quinta stagione potrebbe essere ambientata in molti luoghi, ma “il cortile di casa nostra” ci è sembrato più logico, perché conosciamo la gente, la luce, la topografia, le stagioni, gli usi e costumi, le vecchie case di pietra, le cave, le fattorie, i ritmi quotidiani e via dicendo. Inoltre è un luogo che ha una bellezza ossessiva e sembra fuori dal tempo.

JW: Ovviamente i tre film hanno in comune lo stesso linguaggio visivo, un senso di urgenza e l’interesse per le tematiche ambientali. Ma un film parla a ogni spettatore in modo diverso. Noi desideriamo che i nostri film tocchino il pubblico, al di là della storia che raccontano. Come accade con la musica. Nessuno si domanda mai ‘Di cosa parla questa sinfonia?’. Ascoltare la musica è un’esperienza soggettiva e molto personale. Vorremmo che i nostri film fossero vissuti come se fossero dei brani musicali. Iniziamo a lavorare
sulla musica molto presto, prima ancora di girare. Per tutto quello che riguarda il suono e la musica, il nostro partner creativo fin da Khadak è Michel Schöpping. Con lui abbiamo esplorato innumerevoli possibilità e il suo contributo ai nostri tre film è incommensurabile.

PB: La sua domanda mi ha fatto collegare mentalmente La quinta stagione al nostro primo film, Khadak, un film che parla della fine del nomadismo. In La quinta stagione la comunità alla fine ricorre alla forma di arroganza più estrema: il sacrificio umano come modo disperato di rovesciare il cattivo presagio. Tuttavia, Thomas, l’adolescente solitario, opta per un tipo completamente diverso di sacrificio: il sacrificio individuale. Alla fine del film, sceglie di portare il bambino ferito ‘nella terra dove crescono le banane’. Quindi diventa un nomade, fisicamente e spiritualmente.

Quali sono gli elementi visivi che collegano i tre film?

PB: I tre film hanno in comune un principio cinematografico: una composizione ben equilibrata di piani sequenza al servizio sia delle scene che delle inquadrature in cui collocare situazioni e azioni. In questo modo il tempo può diventare tangibile: nei nostri film il ritmo e la tensione non sono determinati dal classico découpage, ma dal modo in cui il tempo fluisce attraverso le immagini e le scene. E questo può consentire allo spettatore di trascendere la storia vera e propria. Ancora una volta, crediamo che il
cinema abbia le stesse potenzialità della musica, della pittura o dell’architettura.
Per questo film sembrate aver scelto una gamma di colori molti più tenui.

Per quale motivo?

PB: Come sapete, l’inverno in Belgio ha per definizione una luce tenue. Ci piace rendere omaggio ai colori autentici di un luogo. D’inverno, la Mongolia (Khadak) brilla di una luce accecante e le Ande (Altiplano) sono un tripudio di colori. Qui ci siamo limitati a restare vicini alla realtà. Il cambio di tonalità ne La quinta stagione è dovuto alla storia stessa: la primavera si rifiuta di arrivare e le cose iniziano a scomparire, persino i colori.

A livello estetico o narrativo, quali sono state le vostre fonti d’ispirazione?

PB: Ci siamo ispirati alle arti e alla musica, soprattutto nella fase di elaborazione del progetto: i dipinti di Bruegel, Goran Djurovic, Michaël Borremans, per esempio, e la musica di Georges Gurdjieff, Nick Cave, Johann Sebastian Bach e Dimitri Šostakovi?. A dire il vero, ci capita spesso di concepire e creare le immagini ascoltando musica. Amiamo anche Adele, potrebbe ispirarci per un altro film…

JW: Tra le varie fonti d’inspirazione aggiungerei Marketa Lazarová, il capolavoro del cinema ceco, Theo Angelopoulos, la musica tradizionale armena, le serate di danza country nel nostro quartiere, la reale scomparsa delle api ovunque nel mondo, l’abuso di fertilizzanti tossici, la crisi del latte. E per quanto riguarda i dialoghi, sono stati gli stessi attori a suggerire molte delle battute durante le prove.

PB: E poi c’è la grandiosa frase di Werner Herzog: “Cosa abbiamo fatto ai nostri paesaggi? Li abbiamo messi in imbarazzo!”

La quinta stagione

Note di Produzione – Diario dell’anno della peste

C’era una volta, forse l’ultima, in un piccolo borgo agricolo situato alla fine del mondo, in una campagna solcata da valli che ricorda le nostre fiabe dell’infanzia con la sua scacchiera di campi e boschi, una comunità che si accingeva a seppellire l’inverno con un rito che risale alla notte dei tempi. Quand’ecco che per il più grande dei misteri, la natura si inalbera e si ribella: l’inverno non vuole morire e la primavera non può arrivare. Ecco che tutto, assolutamente tutto, poco a poco si sfalda, si deteriora, cade in abbandono – il calore e la tenerezza, l’umanità e la solidarietà. Ecco che il “vivere insieme” si disgrega e il mondo, ancora una volta, va verso la sua perdizione, scivola nella barbarie, fa risorgere i miti e permette all’efferatezza di regnare di nuovo. Ogni cosa sfocia in un dolore incommensurabile, nella pura disperazione e in inutili, benché illuminanti, sacrifici espiatori. Un destino al tempo stesso tragico, implacabile e
ineluttabile.
Cronaca della sparizione, il terzo lungometraggio di Peter Brosens e Jessica Woodworth declina le quattro stagioni attraverso quelli che potremmo chiamare “quadri di una espirazione”. Quadri soffocanti di grande bellezza visiva che ci accompagnano verso le porte dell’inferno, tratteggiati come le stazioni di una via crucis pagana che conduce al Calvario della fine del mondo. Quadri che raggelano il sangue e ossessionano. I film di fantascienza amano proiettare le loro storie avveniristiche in un futuro indeterminato dove gli abitati della Terra hanno abbandonato il loro pianeta, divenuto ormai invivibile, dopo essere stati costretti, a causa di secoli di guerre, di sopravvivenza economica o di sconvolgimenti climatici, a migrare
nelle galassie in un esilio senza speranza di ritorno.
La quinta stagione prefigura questa mutazione senza menzionarla. È un film di prefantascienza dunque? Forse. Di sicuro è un inquietante film collettivo, fuori dal tempo, ma contemporaneo. Indubbiamente viviamo in un momento di drammatizzazione eccessiva e allarmista, ma è pur vero che siamo in un’epoca in cui eminenti scienziati temono l’estinzione di varie specie e la distruzione massiccia degli ecosistemi ad opera dell’uomo. Forse è per #uesto che il terzo lungometraggio di Peter Brosens e Jessica Woodworth risuona in noi come le ripetute grida della sirena da nebbia di una nave. Ben lungi dal voler predire alcunché e scevro da qualunque intento moralistico, La quinta stagione ci propone uno scenario del disastro annunciato, in sintonia con i nostri incubi.
Una simile parabola esce dai sentieri battuti e spiazza il pubblico sfidando le aspettative per un tipo di cinema dove la psicologia e l’empatia verso i personaggi occupano un posto di primo piano. Ma la distanza è forse l’unico modo di filmare la vita di ciascun individuo che va a rotoli e un mondo che si ritrova capovolto. Anziché addentrarsi nel terreno dell’emozione diretta, individualizzata, se non addirittura compassionevole, come farebbe qualsiasi film catastrofista, Peter Brosens e Jessica Woodworth, determinati e
creativi, hanno preferito suscitare negli spettatori, in modo più discreto e intimo, sensazioni profonde, violente, durature. Decidendo di raffigurare una serie di minacce collettive crescenti, hanno reso La quinta stagione un film agghiacciante che, nel suo sviluppo e nella sua estetica, ci mette alla prova, ci scuote e ci folgora. È questo che ci sbalordisce di più: un film più dantesco che alla Rimbaud, scomodo, disturbante, affilato come un diamante grezzo, dove la speranza poggia sulle spalle di due giovani superstiti – futuri rifugiati climatici? – che alla fine si avviano verso lo sfondo lattiginoso del paesaggio come per cancellarsi in esso. Ma è ancora possibile salvarsi quando sopraggiunge il tempo degli struzzi dallo sguardo
indecifrabile?

Diana Elbaum & Sébastien Delloye
Joop van Wijk & JB Macrander
Philippe Avril

Via | NomadfilmFacebook