Mario Monicelli: L’Achille del Ciak
Mario Monicelli si è suicidato ma non è morto. Aveva 95 anni e, davanti alla notizia, non vogliamo credere. Ci ha abituato, non ci “aveva”abituato, a considerarlo immortale. Senza alcun tallone traditore. Mario era l’Achille del ciak, mai morto come si dice quando si parla di un campione che non si rassegna e non si
Mario Monicelli si è suicidato ma non è morto. Aveva 95 anni e, davanti alla notizia, non vogliamo credere. Ci ha abituato, non ci “aveva”abituato, a considerarlo immortale. Senza alcun tallone traditore. Mario era l’Achille del ciak, mai morto come si dice quando si parla di un campione che non si rassegna e non si piega al destino che porta via le persone quando vuole.
Coraggioso, abile, scaltro. Mario, il grande regista, la lingua e gli occhi più acuti e spiritosi del cinema italiano, ha deciso di decidere lui, di farla finita, ma non ci riuscirà. Per noi che lo abbiamo conosciuto prima nella pellicola in cui si è incamminato, lasciando perle indimenticabili e che lo abbiamo frequentato quando aveva compiuto gran parte del suo cammino, sarà sempre Mario la freccia della satira e del cuore.
Nei suoi film, nelle interviste e in tutte le sue apparizioni, in tv, sui palcoscenici, nelle arene estive, nelle piazze non sbagliava un colpo. Ascoltava quasi con fastidio gli elogi a cascata. Prendeva con cipiglio cortese ma severo i tanti premi che lo coprivano di diffidenza più che di gloria. Diffidenza per il gioco semiserio della vita: troppo lunga per essere sopportata; troppo felice e quindi sempre sul filo della precarietà della falce che sibila e che si avvicina. Diffidenza per lo splendido gioco del cinema, un gioco fatto di finzione e di verità, verità come finzione, e finzione come prova di verità.
Mario aveva cominciato nel 1935 con un mediometraggio I ragazzi della via Paal, aveva scritto come sceneggiatore e aveva aiutato registi che imparavano da lui. Uno di questi fu Steno, il padre di Enrico e Carlo Vanzina. Fecero insieme otto film con Totò, l’imperatore di Capri e del set, tra cui Vita da cani e Guardie e ladri imparando da Totò che la vita può non essere da cani e che il vecchio passatempo adolescenziale di fare le guardie e i ladri non finisce, e anzi si arricchisce in un meraviglioso scambio dei ruoli.
Salutato l’amico Steno, Mario si cimentò da solo. Lavorò con Sordi in Un eroe dei nostri tempi, 1955: lezione di come gli eroi più amati in Italia possono essere i farabutti. Convertì il classico Vittorio Gassman, che faceva nelle tragedie greche in teatro la ribalta quattro salti in bella energia, a fare il comico aprendogli una carriera senza fine: I soliti ignoti. Un salto di classe che si rafforzò, in coppia con l’Albertone cinico e baro, in La grande guerra, Leone d’oro a Venezia nel 1959.
Altri eroi per caso e per celia, più resistenti dei monumenti di bronzo. Seguirono I compagni con Mastroianni fresco di “Dolce vita”: da giornalistucolo in coppia con i paparazzi a propugnatore della lotta di classe; e La ragazza con la pistola in cui Monica Vitti, abbandonate le rarefazioni di Antonioni (“L’avventura”, “L’eclisse”, “La notte”, “Deserto rosso”), scoprì la sua vera vena: quella comica. Mario era un lettore di coscienze e svelava agli attori i risvolti peggiori, si fa per dire: il gusto del travestimento, la smorfia, lo sberleffo, il canto balordo.
Cosa sono L’armata Brancaleone (1966) e il meno fortunato, ma godibile, Brancaleone alle crociate se non una dichiarazione d’infamia grottesca di un Medioevo capace di scatenare eros a manciate e ridicola violenza di cavalieri di una apocalisse da dilettanti? Gli piacevano i dilettanti a Monicelli. Prima del “Borghese piccolo piccolo” con Sordi ,1977, che si fa giustizia da sé, il mai morto Mario aveva fatto Amici miei con Tognazzi, Noiret, Celi, Moschin, una allegra brigata di puttanieri che conquistarono un successo tale da creare un genere, quello dei puttanieri goliardici e prendingiro che calcano ancora la scena e le retrovie della politica.
Ci saranno ancora per Mario, negli anni Ottanta e Novanta, soddisfazioni e premi per “Speriamo che sia femmina”, in cui si mimetizzò nel femminismo, ovvero nel maschilismo intenerito da donne sapienti; e “Parenti serpenti”. Infine, in coda a tutto, ma non già titoli di coda della vita, Le rose del deserto, tratto dal libro di Tobino, sulla guerra italiana nell’Africa del Nord: noci di cocco, capezzoli al vento, fucili e pallottole di stoppa, e fegato da uomini finti duri in “Le rose del deserto”.
Ecco, caro Mario, te ne sei voluto andare con il tuo talento, il sarcasmo, la saggezza che hai regalato al tuo pubblico. Peggio per te. Sarai con noi, nel tuo popoloso cinema, anti-deserto, rose con molte spine e molti sorrisi, molte risate, molta saggezza.