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Salvo: Cineblog intervista i registi del film vincitore alla Semaine de la Critique di Cannes

Dopo il successo in quel della Croisette, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza portano anche in Italia il loro Salvo, vincitore a Cannes del Grand Prix Nespresso e del France 4 Visionary Award. Cineblog li ha intervistati per voi

pubblicato 28 Giugno 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 12:44

Un bel sogno divenuto realtà. Questo è anzitutto il bilancio della meravigliosa esperienza sino a qui vissuta da Fabio Grassadonia ed Antonio Piazza. Nati a Palermo, i due registi raccontano in breve quali sono state le loro reazioni al successo di Salvo a Cannes (qui la nostra recensione), e quali le loro considerazioni sul contesto che ci riguarda più da vicino. Senza chiaramente fare a meno di discutere del film e sul film, grazie al quale possono già permettersi di pensare al secondo, senza fretta però. Di seguito ecco quanto è emerso dalla tavola rotonda tenutasi a seguito della proiezione milanese del film riservata alla stampa.

Che ne pensate della vostra accoglienza a Cannes?

Beh, il travagliato processo del film, che ha una storia lunga, passante attraverso vari laboratori di più Festival, tra cui il Torino Film Lab, ha sempre avuto un ottimo riscontro all’estero. Un percorso che avuto sempre un grande consenso, un grande riconoscimento, per lo più all’estero. Soprattutto in Francia è stato mostrato un amore particolare. Dall’altra parte abbiamo dovuto registrare una sostanziale indifferenza degli interlocutori italiani ai quali si rivolgevano i nostri produttori. Quest’ultimi, al contrario, ci hanno consentito una libertà artistica assoluta, anche nella scelta del cast.

Per quanto riguarda l’Italia invece? Quale la condizione del nostro cinema secondo voi, a tutti i livelli?

Beh, ci sono dei tentativi, degli autori interessanti. Gente che ha in comune con noi una certa idea di cinema… che se poi condividi alcune esperienze emerge sempre quanto il tutto sia estremamente faticoso, quanto sia difficile trovare un interlocutore. E se proprio lo trovi, per fare il film devi attenerti non al budget minimo ma al di sotto della soglia minima del budget previsto. Allora in queste condizioni diventa molto difficile lavorare. Per esempio, mentre stavamo ottenendo le prime risposte, estremamente positive, dalla Semaine e dalla Quinzaine, avevamo già cominciato a mostrare il film a qualche distributore qui in Italia e le reazioni erano di segno opposto. Quindi in generale non sapremmo; ciò che sappiamo è che, per quanto riguarda noi, quanto ci sta accadendo ci consentirà senz’altro di girare un secondo film e pensiamo sempre che sarà una co-produzione importante. Nonostante questo rimane la determinazione di girare film profondamente italiani, con storie e persone di qui. Se poi mi chiedi se tutto questo avrà delle ripercussioni sul cinema nostro tutto, sinceramente ti dico che non credo che ciò possa accadere: l’andazzo questo è e questo rimane. Ogni tanto può venir fuori qualcuno che nonostante tutto riesce a fare qualcosa di dignitoso, ma più di questo per ora non si può chiedere. […] Per esempio, dopo il Festival è uscito su un giornale francese un titolo che recitava «Il cinema italiano è Salvo», che è un bellissimo titolo, ma non pensiamo sia così. Prevediamo percorsi alternativi per chi vuole girare qualcosa che non sia per forza la commedia immediatamente riconoscibile e identica a tutte le altre che l’hanno preceduta.

Quindi il problema resta anzitutto distributivo…

Sì perché comunque oramai non basta che tu sia presente a Cannes, Venezia, Berlino o chi per loro; devi proprio vincere! Altrimenti non puoi sperare che il tuo film abbia vita qui. Quindi, insomma, è un po’ una situazione deprimente. A Cannes sembrava che facessimo polemica riguardo al non avere un distributore, quando noi invece, a domanda precisa («avete un distributore?»), rispondevamo semplicemente di no, perché era vero. Nel frattempo c’era un distributore francese che era entrato nel progetto già in sceneggiatura, quindi ancora prima di vedere il girato. Senza contare che ancora prima dei premi il film era stato comprato in Brasile, negli USA, in Inghilterra, in Australia. Tutte le istanze di rinnovamento che si sono espresse a livello politico negli ultimi tempi si dovrebbero esprimere anche nel mondo del cinema: come vengono concessi i finanziamenti pubblici; come vengono concessi finanziamenti della televisione pubblica; come si costruisce una distribuzione che possa aiutare anche quei film che non appartengano per forza alla commedia, o con attori famosi; come si riesce ad arrivare alle sale di provincia; come ci si può servire di internet, e non vedere nel web un nemico bensì una risorsa. Tutto questo è argomento di discussione altrove (Francia, Inghilterra, Stati Uniti), mentre qui ancora non si sa. Fai conto che noi siamo stati a Cinecittà per la post-produzione, ed è surreale assistere a come si abbia davanti un luogo in totale dismissione, abbandono. Spesso eravamo da soli a vagare per lo studio perché eravamo gli unici ad avere un film in post-produzione. Sono cose inimmaginabili, che possono accadere solo qui in Italia. Allora bisogna capire chi sta gestendo Cinecittà, con quale finalità. Perché se ho bisogno di un teatro di posa a Cinecittà mi costa cento volte che da altre parti? Qual è la politica culturale che c’è dietro un patrimonio nostro come questo?

Tornando al film. Se fosse stato più aderente ai film classici di mafia, sarebbe stato più facile distribuirlo?

Guarda, forse a quel punto ti avrebbero chiesto di trasformarlo in un film per la TV. Ad ogni modo, sarebbe stato comunque difficile, perché il problema era anche che si sarebbero domandati «chi sono questi due Carneadi?». Avremmo anche potuto optare per una storia un po’ più tradizionale, ma non sappiamo fino a che punto sarebbe servito. E soprattutto non sappiamo fino a che punto sarebbe stato rispettoso per noi e per due produttori come Massimo e Fabrizio che sono comunque due produttori piccoli, indipendenti, sempre a caccia di cose più particolari. Ma a parte tutte queste valutazioni, è stata proprio l’atipicità di quest’opera a consentirci di ritagliarci un nostro bacino, specie in Francia, nel trovare un distributore francese. Perché lì, per esempio, il discorso è esattamente opposto: loro cercano qualcosa di particolare proprio perché è questo che consente loro di venderlo, di presentarlo al pubblico. Infatti quanti sono i film italiani che alla fine vengono venduti nel mondo? Sono veramente pochi. Perché facciamo film tutti uguali. Ad un certo punto ci fecero un complimento, dicendoci che il nostro non sembrava nemmeno un film italiano; al che ci rimani anche male perché il nostro è un film profondamente italiano, a tutti i livelli. È anche vero, però, che dopo che ti presenti in giro con cose un po’ imbarazzanti non stupisce una simile reazione.

In Salvo avete mescolato più generi, misura che tende ad ancorare il film ad un contesto in qualche modo fittizio, se vogliamo. Ecco, in che misura, dunque, volevate restituire attraverso il grande schermo quel mondo, quella cornice, quella realtà?

L’ambizione era esattamente questa: torniamo in Sicilia e raccontiamo una storia “quintessenzialmente” siciliana. Però lo dobbiamo fare sbarazzandoci di tutti gli stereotipi. Dobbiamo cercare di restituire quel mondo, la visione di quel mondo, lasciando quello stesso mondo fuori campo il più possibile. Questo è stato il principio base di costruzione già a partire dal copione. Infatti all’inizio il copione era un copione nettamente più grasso; poi, sfilettatura dopo sfilettatura, siamo riusciti a costruire questo equilibrio tra ciò che ti mettiamo in campo – che è sempre minimo – e quello che ti lasciamo fuori campo. E proprio quest’ultima componente crediamo che si riesca comunque abbastanza bene a capire, ad assorbire. Linea guida che ovviamente si è ripercossa anche sulla messa in scena. Per esempio, Palermo è lì, ma non la vedi. Vedi dei capannelli di gente che fa cose strane, lasciandoti supporre il resto. Dopodiché hai questo strano animale ospitato da due strani individui; allora ti rendi conto, proprio per ricollegarmi alla tua domanda sui generi, che c’è un rimando alla commedia nera, proprio perché sono questi personaggi a trascinarsela d’appresso. Chi sono? Cosa incarnano? Quale spirito della palermitanità, della sicilianità incarnano questi due nel loro relazionarsi col potere? Si trattava allora di ridurre all’osso i personaggi, le loro situazioni, ed esplorarle il più profondamente possibile. È un film dove non ti puoi distrarre un attimo perché molto del senso passa da ciò che non vedi immediatamente ma che tu devi costantemente interrogare: suoni, rumori e tutto quello che lasciamo fuori campo. La Sicilia è un luogo che si presta molto alla narrazione, solo che tra commissari e cose varie ultimamente la nostra realtà è stata in qualche modo anestetizzata. Il nostro tentativo era dunque quello di riportare in vita cose che esistono, ma che si possono senz’altro raccontare in maniera diversa rispetto a quelle con cui ci stanno ammorbando da tempo.

Ma in sostanza, per voi Salvo è un eroe?

(Ci riflettono, ndr.) Salvo è un eroe… Sì, Salvo è un eroe. Un eroe della redenzione di sé stesso. Ti dico, anche all’inizio ha una qualità che il mondo attorno a lui non ha. Inizialmente ci rendiamo conto non solo del fatto che sia un killer e che sia anche estremamente bravo in ciò che fa, ma soprattutto molto coerente con ciò che fa. Vive sino in fondo dapprima il suo essere un killer di mafia, poi nel cambiamento va incontro ad un nuovo destino. Il mondo attorno a lui è invece un mondo fatto di compromessi, di paure, di blocchi, di ambiguità. Salvo in fondo anche all’inizio, nel suo essere una figura negativa, non è mai ambiguo: è quella cosa lì e lo è in sommo grado, poi cambia e diventa altro.

Com’è stato lavorare con Ciprì?

Una bellissima esperienza, sotto tutti i punti di vista, sia umano che professionale. Per esempio, chiedevi prima dei generi: proprio tale aspetto è ciò che lo ha appassionato moltissimo, e crediamo che questa scintilla che abbiamo creato in lui si riveli nella fotografia del film. Questa idea del noir, nella costruzione della casa di Rita, che è una casa di ombre ed è qualcosa su cui abbiamo lavorato insieme: un lavoro molto difficile ma al tempo stesso molto appagante. Poi quando ci siamo ritrovati in questa campagna, tra Caltanissetta ed Enna, questa Sicilia dell’entroterra, con paesaggi epici; lì basta accendere la macchina da presa e gli spaghetti western ci sono già, devi fare veramente pochissimo. Tra l’altro lui stesso è un autore, e per di più condivide con noi un’idea radicale di Palermo… anzi, decisamente più radicale della nostra (ridono, ndr.). Dunque nella fuga dagli stereotipi di cui parlavamo prima non potevamo che trovare un complice in Daniele. Peraltro è una figura molto diversa da noi. Mentre noi ci approcciamo al lavoro in maniera un po’ più intellettuale, lui invece è pura energia su quel set, puro talento, anche con le persone che compongono il set. Specie in condizioni di lavoro non ottimali come quelle in cui abbiamo girato, lui è riuscito a convogliare attorno a sé una passione, un rispetto ed una generosità incredibili. Ha portato con sé persone che lavorano abitualmente con lui e si tratta di gente che per lui si getterebbe nel fuoco senza pensarci. Insomma, una figura fondamentale, insieme anche ad altri collaboratori. Per esempio lo scenografo, Marco Dentici, di Messina. Noi, a conti fatti, abbiamo tre location, ma che sono tutte ricostruite, anche se si partiva dal vero, ma rielaborato attraverso la nostra e la sua immaginazione. Il lavoro sul suono è stato importantissimo. Abbiamo avuto un fonico di presa diretta che è francese e che ha lavorato, per esempio, negli ultimi film di Haneke. La nostra è stata una troupe siculo-francese, con qualche innesto romano, ma al 70% siciliani. Ma anche il lavoro di post-produzione sul suono è stato importante; è lì si è trattato quasi di una costruzione di una partitura musicale ma attraverso i suoni.

Salvo è attualmente in programmazione presso le nostre sale cinematografiche.

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