Ultracorpo: recensione e trailer dell’ultimo cortometraggio di Michele Pastrello
Il caro, vecchio horror americano. Si è sempre detto, su queste pagine e altrove, che Michele Pastrello si porta sempre dietro in ogni suo lavoro, e non potrebbe essere altrimenti, tutto il suo bagaglio culturale di cinefilo. Il suo ultimo Ultracorpo non è da meno, e come il precedente 32 ritrova il respiro politico del
Il caro, vecchio horror americano. Si è sempre detto, su queste pagine e altrove, che Michele Pastrello si porta sempre dietro in ogni suo lavoro, e non potrebbe essere altrimenti, tutto il suo bagaglio culturale di cinefilo. Il suo ultimo Ultracorpo non è da meno, e come il precedente 32 ritrova il respiro politico del genere.
Ma qui si va ancora oltre, ad iniziare dal riferimento primo del cortometraggio, ovvero L’invasione degli Ultracorpi di Don Siegel. Falsariga semplice ma efficace per costruire la storia e la psicologia di un uomo, Umberto, che passa le sue giornate a cercare piccoli lavoretti in nero e a spendere i pochi soldi che ha guadagnato con una prostituta.
Quando un giorno è costretto ad andare in una casa popolare per sistemare il rubinetto nell’appartamento “di un frocio”, come lo chiama l’uomo che trova il lavoro al protagonista, Umberto si trova a dover fare i conti con questa figura “diversa”, che lo inquieta e forse attrae. A suo modo, un alieno.
Lì dove c’era la paura del contagio comunista, oggi c’è la paura del contagio omosessuale. Dal maccartismo all’omofobia, la caccia alle streghe è aperta, e dall’America di ieri si crea il ponte per descrivere l’Italia di oggi. Con una singolare variante: ovvero che la storia è vista dal punto di vista del personaggio “negativo”.
La paura che striscia sotto la pelle di Umberto viene restituita allo spettatore da Pastrello con tutta la forza stilistica e la tecnica che abbiamo sempre apprezzato nel giovane cinesta veneto, fatta di echi lynchani e rimandi più o meno velati. Come non notare una delle prime scritte del film, che rimanda al Cruising di Friedkin (We’re everywhere…)? E c’è anche un certo parallelismo tra il percorso intrapreso da Umberto e lo Steve Burns di Al Pacino.
Quando Umberto incontra il ragazzo gay la prima volta, c’è qualcosa che richiama alla mente anche il momento in cui Marcus Daly incontra il ragazzo di Carlo sulla porta in Profondo Rosso. Sarà per l’ambiguità fisica di Felice C. Ferrara, che interpreta il ragazzo omosessuale, piastrato e truccato: comunque è una scelta che potrebbe far discutere.
Siamo in un territorio caldo, “pericoloso”, un territorio in cui gli stereotipi sono difficili da evitare. Ma se anche qualcuno ne trovasse in Ultracorpo, è bene rimandare tutto alla scelta di base di Pastrello: quella del punto di vista del suo personaggio, con le vicende filtrate attraverso i suoi (e di conseguenza i nostri) occhi, con le vicende (ri)vissute nella sua mente. Come dimostra anche la metafora della corsa da bambino fra i prati con tanto di richiamo/rimprovero della madre…
Come si diceva, è vero che il tema in Italia è di estrema attualità, e questo è probabilmente un modo incisivo per dire la propria sulla questione dal punto di vista cinematografico. Manca forse qualcosa ad Ultracorpo? Mah: ha un protagonista che si cala perfettamente nella parte (Diego Pagotto, già molto apprezzato in Fuga dal call center e L’uomo che verrà), un gusto per inquadrature e atmosfere unico, una stupenda fotografia (ancora dell’ottimo Marco Sgarzi), un intento nobilissimo.
Ed è qui che Ultracorpo potrebbe però crollare: perché rischia di essere un film a tesi. Lo era a suo modo anche 32, al contrario di molti – per chi scrive – ancora il lavoro più convincente di questo regista che comunque ha uno tra gli sguardi più personali e coraggiosi che si possano trovare in Italia: ma l’impressione è che lì, al contrario di quello che accade in Ultracorpo, ci fosse una vera urgenza nel raccontare quella storia. Fatta tra l’altro di pochissimi dialoghi, punto debole delle opere di Pastrello.
Non si può comunque negare al regista il coraggio di metter su un’opera che in 30 minuti gioca con l’idea dell’ultracorpo e la figura dell’omosessuale, rischiando grosso e vincendo la scommessa. Rispetto alla particolarità e al respiro internazionale che si riusciva a dare ad una storia tutta italiana, forse è qui che Ultracorpo risulta paradossalmente meno potente.
Al di là di tutto, Ultracorpo resta un’opera che si distingue e riflette esattamente ciò che ci si aspetta dal suo autore: uno sguardo e una potenza tecnica che, seppur ricavati dai pochi mezzi, sfidano e vincono produzioni mainstream che al confronto ne escono sempre e comunque con le ossa rotte… Discutiamo pure sull’utilità dell’oggetto in questione: sarebbe un dibattito stimolante. Quello che troppo spesso manca nel cinema italiano che si accontenta e gode di nulla.