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Venezia 2011: recensioni di Crazy Horse, Love and bruises e ¡Vivan las Antipodas!

Cineblog a Venezia vi racconta il Festival attraverso i commenti sui film Crazy Horse, Love and bruises e ¡Vivan las Antipodas!

pubblicato 1 Settembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 08:50


Con Le Idi di Marzo si è aperta ufficialmente la 68. Mostra del cinema di Venezia. Al solito un po’ di disorganizzazione è all’ordine del giorno, ma mi sento soprattutto di segnalare una cosa che non mi va giù. Se alle proiezioni stampa c’è la sala mezza vuota, perché non riempirla con i famosi accrediti verdi-speranza, che fanno fila fuori a lungo aspettando fino all’ultimo di poter entrare? Ma parliamo dei film…

Crazy Horse – Frederick Wiseman (Giornate degli Autori)
Fondato nel 1951 da Alain Bernardin, il Crazy Horse è diventato col tempo una tappa obbligatoria per i turisti che vogliono assaggiare la vita notturna della capitale francese, quasi quanto la Torre Eiffel e il Louvre. La cinepresa di Wiseman ci fa entrare all’interno del locale per scoprire come funziona, tra eleganza, perfezionismo e una faticosa programmazione degli spettacoli (il locale è aperto 7 giorni su 7). Si vedono anche le prove e i backstage per un nuovo spettacolo, Désirs, fino al prodotto finale.

Il più grande documentarista americano torna in Francia per la terza volta dopo La Comédie-Française ou L’amour joué e La Danse – Le ballet de l’Opéra de Paris, e come quest’ultimo entra con la sua cinepresa all’interno di un celebre posto parigino dove la danza la fa da padrona. Così, dalla classica raffinatezza del balletto sulle punte, si passa al “nude chic” di uno dei locali più sexy del pianeta, il celebre locale di cabaret situato nella Avenue George V di Parigi famoso per i suoi spettacoli sexy e chic.

Al solito, per riuscire ad ambientarsi e a registrare tutto ciò di cui ha bisogno, il lavoro di Wiseman è lungo e puntiglioso. Il regista ha passato più di 10 settimane (all’Opéra erano tre mesi esatti) all’interno del cabaret, con in testa lo scopo che si prefissa con ogni suo documentario: quello di “mimetizzarsi” il più possibile all’interno dell’ambiente dove è fino a quel momento estraneo e riuscire così a coglierne la naturalezza. Teoria e pratica vanno da sempre a braccetto nel suo metodo di lavoro: il soggetto si deve abituare ad un occhio estraneo che potrebbe fissarlo 24 ore su 24, altrimenti il suo comportamento sarebbe diverso dal solito. E quindi si otterrebbe un documentario falsato.

Rispetto ad altri lavori del regista questo Crazy Horse fa forse un po’ più di fatica ad ingranare, ma ben presto l’occhio di Wiseman si rivela essere quello che è sempre stato, e ci regala un nuovo lavoro esemplare. Come spesso accade, il documentarista entra ovunque per scovare tutti i posti possibili in cui poter registrare qualcosa col suo cine-occhio. Non solo gli allenamenti o i provini delle nuove ballerine, ma anche la cabina di regia, la sala dove si stampano le fotografie scattate in precedenza ai clienti.

Si passa poi per la sala dove vengono create le parrucche, si fa la conoscenza della “particolarissima” (e preoccupata) costumista, si osservano tutti i mille giochi di luci che ridisegnano le forme e i corpi delle ballerine. E si ride come matti quando queste ultime guardano in tv una serie di “papere” di celebri ballerini di danza classica. Crazy Horse conferma ancora una volta la magia del tocco Wiseman. Si tratta davvero di magia, come conferma il finale con un gioco di ombre cinesi che richiama l’apertura del film: sulle note di Edward Mani di Forbice!

Voto Gabriele: 8

Love_and_BruisesLove and bruises – Lou Ye (Giornate degli Autori)
Hua è un’insegnante di Pechino che si è appena trasferita a Parigi. Mathieu è un giovane operaio che si innamora follemente di lei. Posseduto da un insaziabile desiderio del corpo di Hua, Mathieu la tratta in modo violento. È l’inizio di un’intensa relazione segnata da passione e abusi. Decisa a lasciarlo, Hua si rende conto di quanto sia forte la sua dipendenza da Mathieu, e del ruolo essenziale che l’uomo ha avuto nella sua vita…

Un paio di anni fa Lou Ye si trovava a lavorare ad una pellicola a tematica omosessuale, Spring Fever, accerchiato dalla censura cinese. Tre anni prima, a causa, di Summer Palace, gli fu infatti vietato di lavorare in patria sia per il cinema che per la tv. Spring Fever fu prodotto solo con capitali francesi e non passò ovviamente il vaglio del China’s Film Bureau: vinse però il premio della sceneggiatura a Cannes. Così, per il suo nuovo film, il regista lascia il suo paese e vola direttamente a Parigi.

Love and bruises, quindi. Personale adattamento del romanzo autobiografico di Jie Liu-Falin, è ancora una volta la storia di un amore folle, una passione sfrenata che inizia praticamente con un (quasi?)stupro. Premessa non da poco, si dirà. La relazione tra Hua e Mathieu è sofferta, intensissima, e Lou Ye si vede che è decisamente partecipe di questo amore unico e a tratti pericoloso. Ma il film, purtroppo, non convince e delude le attese.

Tra i due personaggi quello su cui il film si concentra di più è Hua, tanto che il film doveva intitolarsi in un primo momento The Bitch… Spesso la ragazza viene infatti giudicata dagli altri per il suo comportamento: quando stava con un ragazzo aveva un amante, e subito dopo si è trovata Mathieu. Quando farà ritorno a Shangai le voci sul suo conto saranno già state alimentate. Quello che però non convince in Love and bruises è l’andamento della storia, costruita su una serie di scene di sesso ripetute, seguite da momenti di gelosia.

Purtroppo quella che doveva essere una storia lacerante e terribile, e un esempio valido di come la gelosia possa uccidere una relazione, si trasforma in una storia a basso contenuto emotivo, in cui spiccano senz’altro i movimenti di macchina a spalla, molto naturali e parecchio convincenti soprattutto nei primi minuti del film, che ben si sposano alla fotografia di Yu Lik-wai. A chiamare a reggere i loro personaggi e il film sulle loro spalle troviamo la brava e bella esordiente Corinne Yam, e soprattutto lo straordinario Tahar Rahim, che abbiamo molto amato ne Il Profeta. Purtroppo neanche le loro belle performance bastano a reggere la baracca.

Voto Gabriele: 5

Vivan las Antipodas movie

¡Vivan las Antipodas! – Victor Kossakovsky (Fuori concorso)
Secondo il dizionario, la definizione esatta di antipodi è “abitanti del globo che vivono in parti della terra diametralmente opposte, che stanno, per così dire, piedi contro piedi”. Il nuovo documentario del regista russo Victor Kossakovsky nasce da un suo desiderio d’infanzia, ovvero da una di quelle domande all’apparenza sciocche e banali ma che immaginano con purezza qualcosa di molto grande: dove sbucheremmo se scavassimo una galleria che passa per il centro della Terra? Vivan las Antipodas! è la realizzazione per immagini di tutto questo.

Ha alla base un’idea molto affascinante, Vivan las Antipodas. Innanzitutto il documentario si rivela utile a livello istruttivo: visto che la maggior parte del pianeta è coperta d’acqua, ci sono in realtà pochissime zone sulla terra ad avere degli antipodi abitati. In pratica si tratta solo di quattro “coppie”: in linea di massima si tratta di Argentina – Cina, Cile – Russia, Spagna – Nuova Zelanda e Hawaii – Botswana. Kossakovsky parte alla ricerca delle “contraddizioni” e delle similitudini tra questi antipodi, e si diverte come un matto con il mezzo cinematografico.

Non molto distante da quel grandissimo lavoro che è Le quattro volte di Frammartino, almeno nel modo in cui si usano a volte i documenti, Vivan las antipodas non solo usa il montaggio concettuale ed emotivo come struttura portante del lavoro. Kossakovsky struttura anche l’inquadratura e la sfrutta fino all’ultimo: usa il grandangolo, la capovolge (straordinaria l’immagine del car travelling all’indietro sul traffico di Shangai… tutto capovolto!), la fa ruotare e la monta assieme ad un’altra.

Non è un cinema per tutti i gusti, ci teniamo a sottolinearlo. Ma Vivan las antipodas si prende il rischio di provare a fare un’operazione originale, portando spesso a casa il risultato. Non sempre è vincente, e l’idea alla base, pur se affascinante, forse è troppo poco per un lungometraggio di 100 minuti. Eppure alcuni momenti restano in testa, toccano cuore e cervello, e dopotutto non si ha l’impressione di aver sprecato affatto troppi minuti: la vista (e l’orecchio: attenzione all’uso del sonoro e della musica) ne è senza ombra di dubbio ripagata.

Voto Gabriele: 7

Festival di Venezia