Home Festival di Venezia Venezia 2011: a terra ferma, purtroppo, è il cinema italiano, quello americano si castra

Venezia 2011: a terra ferma, purtroppo, è il cinema italiano, quello americano si castra

Italo Moscati racconta Terraferma di Crialese

pubblicato 4 Settembre 2011 aggiornato 1 Agosto 2020 08:46


Non faccio lo snob. Ma l’unica vera scena valida che ricordo sul tema della immigrazione che ci riguarda è quella girata da Gianni Amelio per Lamerica: la gente è al porto di Valona e trepida per salire su una carretta del mare per raggiungere le coste italiane. Li vedremo, questi uomini e donne anonimi, aggrappati a tutto- alla speranza per prima- nella carretta; sono talmente tanti che il posto libero si crea quando uno lo buttano a mare perché è morto. Sul pontile di Valona la gente è felice, fa festa, la festa per un abbandono di un paese che li ha sfiancati e per il miraggio che vorrebbero fosse realtà. Gridano: “Italia Italia tu sei il mondo”.

Noi sappiamo che non è così. Sappiamo in realtà che siamo, agli occhi degli albanesi e dei delusi sulle coste del Mediterraneo, soprattutto ciò che essi vedono dalla nostre televisioni, piovre sulle loro teste. Luci, paillettes, nudi, balli, stilisti, calciatori. Quando arrivano, a stento, la mazzata è forte. Per questo, per la delusione forse, alcuni di loro ricorrono alle maniere forti. Del resto, gli italiani diventarono gangster sotto la Statua della Libertà.

Queste righe le scrivo dopo aver visto Terraferma di Emanuele Crialese, il regista di “Respiro” e di “Un mondo nuovo”. Credo di sapere perché questo autore italiano, emigrato a New York dove ha fatto il cameriere ed è riuscito a frequentare la Columbia University, insista sul tema delle emigrazioni.


/Shame_Cinema

Questa volta ha preso al volo il tema degli arrivi dalla Libia e da altri paesi africani, barconi colmi di disperati di ogni età e sesso; barconi che si rovesciano, i disperati che nuotano poco o non nuotano finiscono sul fondo; e quando arrivano li prendono e li restituiscono al mittente che non c’è.

“Terratrema” è fatto con sensibilità e semplicità, non manca di tenerezza nel raccontare il rapporto di una famiglia di pescatori con una famiglia di disperati (una madre, due figli, nessun padre). Eppure convince solo in parte. E’ prigioniero dell’attualità. I telegiornali, gli speciali, i contenitori ce l’hanno raccontata: lacrime, pietà, sensi di colpa, fatti e personaggi venuti a nuoto che entrano in contatto con la nodosa realtà dei respingimenti. Quando il cinema italiano tocca certi argomenti sembra davvero terraferma, e fa venire un leggero mal di mare. Occorreva fare qualche sforzo in più, sulla storia, con la sceneggiatura, il disegno dei personaggi. Il cinema italiano non è il mondo. Peccato.

Peccato, peggio ancora, anche per la New York che di propone Shame di Steve McQueen (inglese,omonimo del bravo attore che non c’è più). Ricordate “Manhattan” di Woody Allen? Dimenticatelo, anche se “Shame” ve lo rammeterà citando la canzone “New York New York” che era in quel film, raffinato, sentimentale, ironico.

Quello di McQueen aspira invece ad un gretto maledettismo di luoghi comuni all’ennesima potenza. Il protagonista lavora in una grande azienda e ha un problema non da poco. Guarda giorno e notte, anche in ufficio, scene porno (il film fornisce l’elenco), si masturba a go go, punta la prima e pure la decima ragazza che incontra; fa cilecca una volta sola nel film, ma dalla cilecca si riprende con una notte brava. Una notte in cui , dopo aver avuto rapporti omosessuali in un regno di gay, bussa alla porta di una casa di appuntamento e rimedia alla cilecca con bionde, more, americane o stranger women.

Ammucchiate dolorose ed esaltanti. Poi torna a casa e trova la sorella- di cui è geloso, e ha cantato facendolo piangere la canzone di cui sopra- che si è tagliata le vene. Intanto il cinema americano si castra, in questo film, per la insensatezza esasperata con le sue mani, nella grande città dei grattacieli.

Un’osservazione. Il protagonista, erotomane dalla psiche terremotata, si chiama Michael Fassbender. Che, in A Dangerous Method di Cronenberg, presentato qualche ora prima a Venezia, interpreta il ruolo di Jung, lo psicanalista che nel film di Cronenberg all’inizio della carriera “cura” una giovane russa con complessi problemi sessuali. Un accostamento geniale, per la sua casualità voluta dalle direzione della Mostra. Perfetto. Lo stesso attore messo in scena per un terapista e un paziente: l’eclettico Fassbender. Peccato che non si siano incontrati. Li abbiamo incontrati noi. Magia di Venezia, città delle maschere.

(Nelle foto: la locandina di Terraferma e una scena di Shame

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