The Zero Theorem: Recensione in Anteprima del film di Terry Gilliam
Distopia amarissima per Terry Gilliam su vocazione personale e dintorni. Il cupo e stimolante The Zero Theorem porta al Lido un carico di grottesco nonsense. Leggete la nostra recensione in anteprima
Un uomo nudo contempla sullo schermo una sorta di buco galattico che risucchia tutto ciò che gli si avvicina, come un vortice. Squilli assordanti di telefono si avvicendano con pedante ripetitività, mentre l’uomo non riesce mai a capire chi c’è dall’altra parte della cornetta. Questa prima sequenza di The Zero Theorem, in nuce, è una buona sintesi di tutto ciò che Terry Gilliam sembra proporsi con questo suo ultimo lavoro.
Distopia amarissima per Terry Gilliam su vocazione personale e dintorni. Il cupo e stimolante The Zero Theorem porta a Lido un carico di grottesco nonsense. Leggete la nostra recensione in anteprima
Immaginate per un secondo un futuro che non sapreste proprio come collocare, e non, banalmente, solo perché non lo si conosce ancora. Quello di Gilliam è un contesto popolato da personaggi e situazioni sopra le righe, per nulla organici bensì totalmente asserviti all’esigenza primaria di veicolare messaggi, di incarnare concetti. Per un film che a più riprese rischia di incartarsi su sé stesso, ma che sorprendentemente rimane piuttosto compatto, concedendosi qualche pericoloso allungo là dove serve.
Qohen Leth (un Cristoph Waltz da Coppa Volpi, o quantomeno serio pretendente) sta attraversando un lungo periodo di crisi esistenziale, in spasmodica ricerca di un senso, anzi, del senso. La sua dimora è una vecchia chiesa oramai dismessa, adibita a spazioso e disordinato monolocale alla bell’e meglio: l’acqua santiera diventa il lavandino su cui poggia una bacinella; sotto una statua della Santissima Vergine viene collocato un divano di pelle o simile color rosa sgargiante. Fuori da quelle mura dall’arredamento così discordante e tutt’altro che funzionale, la situazione non pare essere migliore. Dagli schermi posti un po’ dovunque lungo i muri, ogni sorta di imbonitore aggredisce i passanti incalzandoli con ciò di cui hanno bisogno, in primis diventare ricchi. Uno di questi maxischermi sponsorizza la setta del “Batman Redentore“, mentre luci variopinte illuminano strade-contenitore, dove la gente semplicemente passa, non cammina. A fatica ci si accorge di non essere i soli in quelle vie, con macchine monoposto che sfrecciano incuranti dei pedoni e pedoni svagati ignari di tutto ciò che li circonda.
L’occupazione di Qohen orbita attorno ai dati ed alla loro collocazione. In ciò che fà è davvero bravo, anche se in lui qualcosa non va come dovrebbe. Adopera il plurale maiestatis, non sopporta essere toccato, si trova a disagio in compagnia di chiunque; un tipo particolare insomma, che in un contesto così fuori dalla norma riesce in ogni caso a distinguersi. Una personalità ambigua, davvero difficile da inquadrare: da un lato la sua abilità con i numeri, le formule e quant’altro, dall’altro lato la sua fede cieca nella chiamata. Sì è questa la sua ossessione, ossia che qualcuno lo chiami al telefono di casa (e solo a quello) per informarlo circa il senso della sua vita. In tutti i modi cerca quindi di riuscire a trovare una scappatoia, finché non gli si para dinanzi la possibilità di lavorare sul cosiddetto Teorema Zero, ossia quello che dovrebbe spiegare tutto, a partire dalle nostre origini per finire con il nostro scopo ultimo.
Questo nuovo incarico, peraltro, gli consente di stare a casa, offrendogli l’opportunità di continuare a coltivare in santa pace la sua speranza. Qui il paradosso, uno dei tanti: ciò che ansiosamente aspetta Qohen è un intervento dall’esterno, quel quid che lo desti dal torpore in cui soggiorna stabilmente; tuttavia ritiene che il modo migliore sia quello di isolarsi, precludendosi ogni contatto. Come abbiamo detto, un paradosso, non l’unico né il più rilevante. Qohen conosce il problema meglio di tanti altri, ma anziché agire si è beato della sua contemplazione, come inghiottito da quel buco nero in apertura. In altre parole, il nostro protagonista è inibito. Saldamente aggrappato agli angoli bui della sua esistenza, non fa altro che ripetere che la sua morte avverrà a breve e che in vita sua ha saputo solo deludere gli altri. Un depresso, direbbe qualcuno, ma c’è molto di più. La sua è una patologia nuova, inedita se vogliamo: trattasi di quel mal di vivere prettamente contemporaneo, acuito da quella cosa che siamo soliti chiamare comunicazione, ma che è il suo esatto contrario. Qohen non comunica perché sa che nella sua epoca tale pratica non comporta la cementificazione di legami, pianeta oramai a sé state ed irrangiungibile.
Finché non incontra Bainsley (Mélanie Thierry), una provocante signorina che prende a cuore da subito il caso del povero disgraziato. In fondo la struttura ed il dipanarsi della trama di The Zero Theorem non è poi così complesso; ciò che lo rende meno immediato è quella spessa scorza di nonsense che copre per intero il contenuto. Ma a conti fatti è da lì che, più che altrove, emerge la mano di Gilliam, il quale conferisce uno stile visivo e formale unico, giocando con più e più componenti. La sua è una giostra di scelte stravanganti, fortemente simboliche e pressoché mai fini a sé stesse. Su questa falsa riga ci si potrebbe soffermare a lungo. L’uso asimmetrico di certe inquadrature ci restituisce la condizione del nostro confuso protagonista, che non riesce più ad accostarsi alla realtà in maniera sana. Da qui il ripiego su quella virtuale, realtà alternativa che, in quanto tale, altro non è che menzogna. Menzogna che, nella misura in cui lenisce i traumi di una realtà che non risponde come Qohen vorrebbe, viene da quest’ultimo abbracciata ed idealizzata a tal punto da accettarla come nuova casa. Finché anche questa non si “ribella” al suo volere, al che viene a sua volta cestinata, confinata in quello sgabuzzino di cianfrusaglie di cui non avverte più il bisogno, o con cui si è fatto male.
Da notare che il mondo in cui realmente vive ed opera il genio informatico in questione è ben più grottesco di quello ricostruito, a conferma di quel vecchio adagio che vuole la realtà ben più strana della finzione. Ci si domanda allora se la deriva a cui è approdata la società in cui vive non sia effetto collaterale più che prodotto, di un’umanità che ha smarrito il senso di ciò a cui era chiamata, e che oramai, per amara obsolescenza, non riesce più a recuperare. Questa è la fonte principale delle sofferenze di Qohen, totalmente in balia della consapevolezza di non essere più in grado, con le sue sole forze, di far fronte ad una disfatta universale di tale portata.
Inevitabile perciò l’approdo sui lidi della sfera spirituale. D’altronde il suo nome risulta già abbastanza eloquente ai fini di questa traccia: Qohen Leth, che ricorda il Qoelet biblico (anche detto Ecclesiaste). Libro che, per intenderci, comincia con la celeberrima esclamazione «Vanità, vanità, tutto è vanità», ed in cui l’autore appronta una riflessione amara circa il senso dell’esistenza ed il continuo, scoraggiante, avvicendarsi dell’uomo in ogni luogo e in ogni tempo. E dove risiede Qohen? Appunto, in una chiesa, in cui vengono continuamente inquadrate statue e dipinti, dalla già citata Vergine all’affresco di San Sebastiano, passando per un Cristo sulla Croce a cui è stato asportato il capo e sostituito con una mini-telecamera.
La fondatezza di quanto appena rilevato si lega ad uno scambio di battute avuto con un genietto di quindici anni che si chiama Bob. Il giovane saputello, nella sua apparente incredulità, illustra l’ennesimo paradosso; dopodiché invita il ben più anziano collega a considerare la possibilità di disporre di un’anima, cui segue l’imprescindibile necessità di doversela fabbricare col proprio, inalienabile operato. Un messaggio forte, che tanto risente di quella spiritualità russa che tanto imperversava in quell’epoca d’oro per la speculazione teologica ortodossa che furono i primi decenni del XX secolo, tra un Berdjaev e un Florenskij. Ma come abbiamo maturato nel corso degli eventi che precedono questo illuminante dialogo, è oramai troppo tardi per Qohen. La sua è una chiusura irredimibile, segnata da un malessere talmente diffuso e profondo che nessuna amputazione potrebbe giovare.
Un malessere accompagnato e fomentato da uno scenario in cui si è costantemente sotto osservazione, in quel mondo pieno zeppo di telecamere che riprendono ogni singolo istante della vita di ciascuno; non si sa fino a che punto per osservare o per sorvegliare. Ed in una società in cui non si sa più a cosa serve comunicare, come si può dare voce a tale disagio, ossia quello di essere perpetuamente sott’occhio, connessi a qualcosa eppure così radicalmente soli?
Il pluricitato McLuhan aveva previsto una deriva simile, in cui l’uomo avrebbe fatto ricorso alla tecnologia per rimpiazzare le sue facoltà primarie; staccata la spina, per lui è un po’ come morire. E così si sente il protagonista, che anziché vivere viene vissuto da tutto ciò che lo circonda, da tutte quelle cose che non gli servono e che eppure lascia entrare. Così, quando The Zero Theorem ripiega su una svolta timidamente romantica, lui è l’unico a non capire che dall’altra parte non c’è una semplice interfaccia, bensì una donna vera che cerca di stabilire un contatto altrettanto concreto. A questo punto serrare ogni porta non è più una scelta ma il destino di un uomo che davanti a sé ha sempre un vuoto cosmico, quello a cui nessuno può avvicinarsi senza venirne malamente risucchiato.
Così procede il film, che per indorare la pillola si appella a quell’innata propensione dell’ex Monty Python per il bizzaro, per il grottesco spinto; componente che al tempo stesso corre il rischio di appesantire oltremodo il tutto per gli stomaci di coloro che a fatica digeriscono la prosa farsesca e spensierata di Gilliam. Eppure quest’ultimo dosa bene gli elementi, bilanciando l’assurdità di certe situazioni con una cupezza generale che affonda i denti in quell’asprissimo finale. Quando, per l’ultima volta, il regista britannico gioca con la regia e suscita l’ultimo, definitvo corto circuito, sottoponendoci un’immagine efficace, che alla luce di tutto ciò che l’ha preceduta è terribile per cinismo, ma al tempo stesso beffardamente onesta e sincera.
Voto di Antonio: 7
Voto di Gabriele: 6
The Zero Theorem (USA/UK, 2013), di Terry Gilliam. Con Matt Damon, Christoph Waltz, David Thewlis, Peter Stormare, Tilda Swinton, Ben Whishaw, Melanie Thierry, Sanjeev Bhaskar, Tudor Istodor, Emil Hostina, George Remes, Lucas Hedges, Dana Rogoz, Radu Andrei Micu, Olivia Nita, Naomi Everson e Madison Lygo.