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Torino 2011: le recensioni di Way Home e A Confession

Un disabile curato dalla moglie e un anziano tormentato dal passato. Ecco i film Way Home e A Confession

pubblicato 29 Novembre 2011 aggiornato 28 Agosto 2020 15:19

Way Home (Vergiss dein ende – Germania 2011 – drammatico 94′) regia di Andreas Kannengießer con Renate Krößner, Dieter Mann, Hermann Beyer.

Klaus è disabile e dipende in tutto dalla moglie Hannelore che ogni giorno si prende cura di lui senza sosta. La donna, logorata da questo rapporto di totale dipendenza, decide un giorno di partire verso il mar Baltico approfittando dell’ospitalità di Günther, un vicino di casa. Suo figlio Heiko, senza alcuna idea di dove possa essere la madre, si trova così a occuparsi da solo del padre per la prima volta. Intanto, Hannelore sta affrontando i suoi drammi interiori sostenuta da Günther: è tempo per lei di iniziare una nuova vita.

Opera seconda del tedesco Andreas Kannengießer, dopo Planet Carlos del 2008, Way Home è uno di quei film che iniziano alla grande. Si entra in pochi minuti dentro la storia, grazie alla capacità del giovane regista di farci immedesimare con i protagonisti, in quella che apparentemente è una dolorosa storia corale. Padre, madre, figlio e vicino di casa: vite legate tra di loro da dolori e da relazioni.

Way Home ha infatti una prima mezz’ora in cui è palpabile una grande sensazione di disagio, ed anche un po’ di smarrimento, perché si vuol subito capire chi siano i protagonisti e quali i dolori che li hanno portati dove li vediamo. Eppure l’opera seconda di Kannengießer non gira a dovere, e si sgonfia sempre più man mano che va avanti. Cosa può essere successo?

Innanzitutto: si è parlato di film corale. Il tutto gira in realtà attorno soprattutto al personaggio di Hannelore. Così, gli altri personaggi restano “satelliti” con suggestioni di problematiche che paiono assai secondarie rispetto a quella primaria della “protagonista”. La storia del figlio, con le sue difficoltà quotidiane in seguito alla scomparsa della madre nell’amministrare anche la vita del padre malato di Alzheimer, è buttata ad esempio un po’ buttata alle ortiche.

Anche la tenera e triste storia del vicino di casa, anziano omosessuale che ha appena perso il compagno, risulta pretestuosa. E quindi Way Home non riesce più a ritrovare il pathos della prima mezz’ora nonostante il regista infili nell’ultima mezz’ora, ovviamente risolutiva, tanta musica toccante. Non un brutto film, quindi, ma irrisolto: e che quindi lascia ancora di più l’amaro in bocca per ciò che poteva essere.

Voto Gabriele: 5.5

A_CONFESSION_FILM

A Confession (Ganjeung – Corea del Sud 2010 – Thriller 96′) regia di Park Su-min. In Concorso.

Park Duk-joon è un uomo solo e anziano. Perseguitato dall’insonnia, ogni notte è costretto a rivivere i momenti oscuri del suo passato: un tormento a cui neanche la preghiera e la religione sono di alcun sollievo. Un giorno, la sua unica amica, la signora Lee, invita Duk-joon ad ascoltare una testimonianza in chiesa e l’uomo accetta con riluttanza. Sarà invece l’occasione per un incontro del tutto inaspettato: quello con Lim Gwang-han, il suo superiore di trent’anni prima, quando entrambi lavoravano nella polizia, specializzati negli interrogatori…

Classe 1981, il coreano Park Soo-min è con A Confession alla sua opera prima. E il ragazzo punta davvero in alto, mettendo tanta di quella carne al fuoco che in realtà, vista anche la selezione in concorso, fa sperare in un esordio con i fiocchi. La delusione però è tantissima, perché Park non solo si rivela inadatto ad affrontare le tematiche che vuole trattare, ma si scotta pure.

Ripensandoci a freddo, non si sa neanche cosa dire di “corretto” sul film, se non almeno una cosa: il regista è decisamente acerbo, e la sua mancanza di gavetta forse grava sulla sua capacità di amministrare il tutto. Va benissimo che un giovane ragazzo decida di portare sul grande schermo una storia ben radicata nel contesto storico del suo paese e decida di trattare questioni e tematiche alte, altissime. Ben venga.

Il problema è che bisogna avere o una sceneggiatura di ferro o una visione lucidissima di ciò che si vuole raccontare. Park non ha nessuna delle due cose dalla sua, e il risultato casca purtroppo al suolo e si schianta. A Confession è un film discontinuo non tanto perché per un’oretta, prima del “confronto” tra Park Duk-joon è il giovane assassino, non si sa dove vada a parare: il regista ha deciso che l’ultima parte doveva sciogliere i nodi, e ribadiamo che non c’è nulla di male, e neanche di così ermetico (A Confession si fa seguire senza lasciare dubbi eterni, per dire).

Ma è il materiale alla base a non convincere per niente. Rimorsi, esistenza di Dio o meno, sensi di colpa, corruzione, religione, illusione, politica: Park non ci risparmia nulla in quello che sembra più che altro un continuo botta e risposta tra due persone che hanno idee diverse sulle tematiche appena citate, e discutono solamente a suon di stereotipi e frasi fatte.

Salta fuori sicuramente una visione assolutamente pessimistica di un paese e di un’umanità devastata dal dolore e dal tormento. Lo spettatore, tuttavia, non può che star fuori da tutte queste riflessioni, ed avere il ruolo di semplice spettatore passivo. Chiedendosi poi, nel contesto torinese, se a volte il fatto che un giovane regista orientale esordisca alla regia con un film che punta in alto sia davvero già abbastanza per essere ammesso ad un concorso internazionale.

Voto Gabriele: 4.5

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