Torino 2011: Sion Sono – Rapporto confidenziale, recensioni e trailer dei film visti al TFF 2011
Rapida panoramica dell’opera del regista giapponese Sion Sono, protagonista della sezione Rapporto Confidenziale del Torino Film Festival 2011
La sezione Rapporto Confidenziale del Torino Film Festival, che lo scorso anno era dedicata all’horror contemporaneo e due anni fa ha portato all’attenzione del pubblico le opere di Nicolas Winding Refn (poi vincitore della Palma d’Oro per la regia a Cannes 2011 con Drive), quest’anno è dedicata al regista giapponese Sion Sono, le cui opere sono per lo più inedite in Italia, se escludiamo il passaggio in concorso a Venezia di Himizu.
Ed è proprio Sion Sono, per quanto mi riguarda, la vera sorpresa di un festival che si è chiuso ieri (ecco i premi assegnati) e che come ogni anno ha regalato agli spettatori film stupendi, film orribili e film interessanti, ma (quasi) sempre dotati comunque di quello spirito libero e indipendente che rende quello di Torino, secondo me, il miglior festival d’Italia (ammetto che c’è una grossa componente emotiva in questo giudizio).
Ma veniamo all’autore giapponese. Nato a Toyokawa nel 1961, Sion Sono si muove all’inizio nel campo della poesia, scrivendo le sue opere anche in forma di graffiti sui muri della città. Mentre fotografava questi graffiti, racconta il regista stesso nell’intervista raccolta all’interno del catalogo del festival, si chiese cosa sarebbe successo se ci avesse aggiunto il movimento. Approda così al cinema con una serie di film sperimentali e d’avanguardia, il primo dei quali, intitolato significativamente I am Sion Sono! (Ore wa Sono Sion da!, 1985, 37′) lo fa notare al PIA Film Festival.
Seguono tutta una serie di corti e mediometraggi sperimentali, che si affermano in diversi festival e la cui realizzazione si accompagna alle altre attività del regista, che lavora, oltre che come poeta, anche come attore e musicista, fino a giungere al film che secondo Sion Sono (e trovo la cosa molto divertente) segna il suo esordio nel cinema “commerciale”: Suicide Club (a volte riportato come Suicide circle, Jisatsu Saakuru, del 2002). Ovviamente, il concetto di “commerciale” è molto lato e si limita al fatto che la pellicola è un vero e proprio film, condotto sui binari del thriller (molto) visionario e destinato alle sale cinematografiche, dove effettivamente ottiene un buon successo.
Da qui in avanti, la carriere di Sion Sono si concentra prevalentemente sul cinema, sfornando una serie di capolavori estremi, eccessivi e inclassificabili che vanno da Noriko’s Dinner Table a Love Exposure, da Strange Circus a Be Sure to share, fino ai più recenti Cold Fish, Guilty of romance e Himizu, purtroppo assente dal programma del TFF.
Raccontare a parole cosa siano i film di Sion Sono è pressoché impossibile. Ognuno di essi è un viaggio vorticoso e senza freni nei recessi più reconditi degli incubi umani. Violentissimi graficamente e psicologicamente, ma questo è solo il più superficiale e immediato degli aspetti, quello che colpisce il muro della nostra attenzione per far penetrare nel nostro inconscio le immagini e le riflessioni dell’autore sull’essere umano, la sua condizione, la costruzione della sua identità e l’alienazione di una società come quella giapponese (ma che per molti versi può essere anche la nostra).
Dare un quadro di un’opera così ricca all’interno di un unico post è quanto mai riduttivo, tutte le pellicole del regista sono complesse, stratificate, spesso aperte, ma accomunate da uno sguardo molto consapevole (condivisibile o meno), dall’uso rutilante, forsennato e generalmente raffinato più o meno di ogni tecnica cinematografica conosciuta (cosa che porta a una ricchezza espressiva ipnotica), da alcune situazioni comuni, personaggi che portano gli stessi nomi (come Mitsuko e Taeko, come fossero sempre aspetti diversi della stessa persona, maschere a cui assegnare di volta in volta i ruoli dei personaggi della storia) e da alcune tematiche comuni.
In primo luogo, spicca il tema dell’identità, i ruoli e il rapporto con gli altri. Quasi tutti i suoi personaggi si trovano infatti in situazioni in cui sono costretti a cambiare identità (in genere anche nome) e di conseguenza ruolo (spesso da vittima a carnefice o viceversa, ma anche madre/figlia, per fare un altro esempio) per fuggire da una condizione precedente (fisica o emotiva) e lanciarsi in un nuovo mondo, generalmente specchio delle proprie più indicibili pulsioni.
Quello che colpisce in molti film di Sion Sono è, nonostante tutto, la passività dei suoi protagonisti, che sembrano quasi in balia dei mostri che loro stessi hanno risvegliato dal profondo e che generalmente si concretizzano in mentori folli che li trascinano nelle avventure più oscene e incredibili. Una passività e una remissività che rispecchia ancora il controllo con cui per tutta la vita precedente hanno soffocato le loro vere aspirazioni ed emozioni (penso ad esempio alla protagonista di Guilty of Romance).
Altro tema centrale è quello della famiglia, quasi esclusivamente disfunzionale e culla delle peggiori perversioni, violenze e imposizioni sull’individuo e dalla quale deflagrano spesso vendette e odi furiosi. Famiglia che sembra poter funzionare solo se “in affitto”, se rappresentata da sconosciuti che recitano il copione desiderato dal cliente, come messo in scena in uno dei tanti capolavori del regista Noriko’s dinner table.
E anche quando rappresentata in toni più intimisti e realistici, come in Be sure to share, la famiglia è pur sempre luogo di rapporti complessi e problematici, dove ancora una volta, il non detto, il trattenuto, il mascherato dietro un’apparenza di ritualità serena, cova una frustrazione che non può che sfogarsi in malattia. Malattia che, come esperienza estrema, spinge i personaggi a liberarsi dai vincoli e cercare di comunicare e condividere le proprie paure e i propri sentimenti.
Sopratutto per quel che riguarda le giovani generazioni, perché se c’è una speranza (e in genere non c’è o è distorta) nei film di Sion Sono, questa può essere riposta solo nei giovani, bambini e ragazzini, la cui ribellione al mondo degli adulti con il quale non riescono ad avere una comunicazione reale, assume spesso i contorni di una fuga, di una liberazione, che per lo più sfocia in violenza o nell’autolesionismo.
Ed è proprio la comunicazione un altro tema centrale dell’opera di Sion Sono (ribadita nelle ossessive domande poste dal bambino di Suicide Club e poi in Noriko’s Dinner table: “sei connesso con te stesso?” “sei connesso con la tua famiglia?” o apertamente esplicitata dalla fidanzata del protagonista in Be sure to share, quando gli dice: “Cercherò di comunicarti tutto il mio amore.”), intesa come comunicazione tra gli esseri umani, irraggiungibile ma necessaria connessione di anime e intimità.
Ecco una rapida panoramica su una selezione di film visti al Torino Film Festival 2011:
Suicide Club (aka Suicide Circle – Jisatsu saakuru, Giappone – 2002 – 99′),
Cinquantaquattro studentesse di Tokyo si suicidano insieme gettandosi sotto la metropolitana. Mentre la polizia indaga sull’accaduto (anche per via del ritrovamento sul posto di una borsa contenente un rotolo fatto di brandelli di pelle umana), in città si diffonde una vera e propria epidemia di suicidi, come una moda o una forza immanente più forte della volontà dei singoli. Una ragazza hacker che si fa chiamare The Bat informa la polizia di uno strano sito in cui prima di ogni suicidio compare un corrispondente pallino per ogni vittima, in un conteggio inquietante e preciso. Intanto la tv è invasa dalle performance di un gruppo musicale di ragazzine chiamate Dessert, che fa impazzire gli adolescenti e un serial killer megalomane (che sembra la versione manga e psicotica di Frank-N-Furter) rapisce le persone e le rinchiude in lenzuoli bianchi in una pista da bowling abbandonata, dove sono sottoposti a ogni genere di abuso.
Trama intricata e difficile da raccontare per questo film che, come detto, segna secondo il suo stesso autore l’ingresso nel cinema “commerciale”. In qualche modo catalogabile come thriller, nel senso che il filo conduttore è l’indagine sugli inspiegabili suicidi che si svolgono in città, è un’opera visionaria, che cambia spesso registro (mantenendo sempre comunque l’atmosfera di inquietudine e ossessione) dall’incredibile e sanguinosissima scena iniziale del suicidio collettivo (che per quanto mi riguarda vince il premio per il miglior incipit di questo Torino Film Festival: potete vederla qui, giudicate voi se non è un capolavoro di costruzione cinematografica), a momenti che sembrano performance teatrali, spunti di videoarte, fino a una vera e propria sequenza videoclip/musical/horror.
E’ un’opera stratificata, complessa e aperta a diversi significati, che inquieta e suggerisce dove guardare più che spiegare come farlo, ma che può anche essere semplicemente fruita come un thriller (anche se sarebbe un po’ riduttivo) e in questo forse è effettivamente, in qualche modo astruso, commerciale.
Tra le tante letture possibili, sono propenso a leggere il film come una rappresentazione della mancanza di comunicazione tra le generazioni, in cui gli adulti non riescono a capire un universo (in primo luogo emotivo) giovanile, che finisce per sfogarsi come può, all’interno di una società chiusa e conformista, incapace, per usare le parole del film, di connettersi con se stessa. Ma è una lettura parziale di un film ricchissimo.
Voto Fulvio: 9
Noriko’s dinner table (Noriko no shokutaku, Giappone – 2005 – 158′)
Noriko, un’adolescente che vive in provincia, approfitta di un blackout per fuggire da una famiglia dalla quale non si sente compresa, e approdare a Tokyo, dove potrà incontrare un’amica conosciuta su internet con il nome di Ueno Station 54, che si rivela essere a sua volta una ragazza, di nome Kumiko, a capo di un’organizzazione che potremmo definire di “prostituzione familiare”, o più candidamente, che offre famiglie in affitto. Nel senso che i clienti prenotano una visita da parte di veri e propri attori, che fingono, per il tempo acquistato, di esserne i familiari, madri, padri, figli, nonni e quant’altro. Delle famiglie perfette, quanto false. Noriko trova in questa situazione la sua condizione ideale e cambia il suo nome in Mitsuko.
Dopo il suicidio collettivo di cinquantaquattro studentesse sotto la metropolitana di Tokyo, la sorella minore di Noriko, temendo un suo coinvolgimento, scappa anch’ella da casa alla volta di Tokyo, per cercarla. La madre delle due ragazze, Taeko, non regge allo schock e si suicida, mentre il padre, Tetsuzo, parte alla ricerca delle figlie, fino ad arrivare all’organizzazione di Kumiko e al cosiddetto club dei suicidi (che forse esiste e forse no o comunque non è come sembra).
Film collegato a Suicide Club, di cui è allo stesso tempo prequel e sequel, dal momento che gli eventi narrati iniziano prima, procedono parallelamente e poi finiscono dopo.
Ancora più stratificato e complesso del precedente, per alcuni è il capolavoro di Sion Sono, ma secondo me è leggermente inferiore a Suicide Club perché fin troppo cervellotico e ipnotico, per via dell’onnipresente voce fuori campo che racconta gli eventi, di volta in volta, dal punto di vista dei diversi personaggi. Detto questo resta un film meraviglioso, ancora incentrato sui concetti di identità, famiglia e comunicazione. Le vicende delle “famiglie in prestito”, racconta il regista presentando il film al festival, si ispirano a fatti reali, di cui è venuto a conoscenza in alcuni club a luci rosse dove avrebbe conosciuto una ragazza che viene pagata per interpretare il ruolo della figlia di un padre solo. Questa materia umana incredibile, diventa all’interno del suo film un perfetto meccanismo per costruire questa storia dagli echi pirandelliani, in cui c’è un continuo scambio di identità e ruoli, realtà e finzione che smonta le relazioni umane alla base della società. Persone che nella realtà hanno fallito nel loro ruolo di padri e mariti o che hanno perso troppo presto i loro cari, cercano di rivivere l’esperienza di una famiglia felice attraverso una finzione acquistata con il denaro.
Questo carosello di ruoli e identità serve a trovare se stessi o ad accondiscendere alle aspettative dell’altro? Accondiscendere alle aspettative dell’altro e aderire a un ruolo pre-impostato serve a svuotare se stessi per avviare il processo di autocoscienza? Ci si può connettere con se stessi attraverso il proprio annullamento e la recita di una parte? O forse recitare una pluralità di vite serve a costruire un passato a chi non ne ha o a chi vuole fuggire dal proprio e quindi costruire una nuova identità? Insomma, ci possono essere una tale e complessa varietà di letture e interpretazioni legate alle suggestioni del film da far girare la testa. E alla fine di tutto questo si arriva anche a una certa qual spiegazione di cosa sia il club dei suicidi e come si sia effettivamente svolto l’evento di apertura del film precedente.
Voto Fulvio: 8,5
Strange circus (Kimyōna sākasu, Giappone – 2005 – 108′)
Una bambina viene invitata a partecipare alla rappresentazione di un’esecuzione per mezzo di una ghigliottina sul palco di un circo veramente strano e guidato da una sorta di Divine nipponica. E’ solo un sogno. Ma la realtà della vita della bambina, il cui nome, come in quasi tutti i film del regista, è Mitsuko, è un incubo ben peggiore, che si consuma tra gli abusi allucinanti del padre (che la costringe a vedere i suoi rapporti sessuali con la madre, così come costringe la madre a vedere gli abusi sulla figlia) e la gelosia folle della madre.
Ma forse tutto questo è solo il romanzo che sta scrivendo Taeko, una donna su una sedia a rotelle. Un romanzo autobiografico, le chiede il suo nuovo, efebico assistente? O forse la distorsione di una realtà ancora peggiore?
Aperto da una citazione grandguignolesca tratta da Controcorrente, di Huysmans, questo è, a mio parere, il capolavoro di Sion Sono e il film più bello visto a quest’ultimo Torino Film Festival.
Un incubo di cui è impossibile, inutile e riduttivo cercare di raccontare la trama, perché è una vera e propria opera d’arte di rara crudeltà, che scava nella mente dello spettatore facendo leva sugli orrori peggiori che si possano immaginare (incentrati sulla famiglia più disfunzionale in assoluto di tutta la filmografia di Sion Sono) e arrivando dritto a colpire l’inconscio più profondo. Ammetto di avere avuto problemi a sopportare la sequenza finale, non tanto per l’aspetto gore (consistente, ma nella norma), quanto per quello psicologico. Non è certo un film per tutti, ci sono forse le cose più disturbanti che si possano immaginare, ma è Cinema altissimo, visionario, onirico e surreale.
L’autore dice di aver preso tutte le sue passioni cinematografiche, in primis David Lynch e David Cronenberg, e averle frullate insieme. Il risultato è un vero e proprio circo degli orrori coloratissimo e implacabile, di una perfezione formale ed estetica impressionante, con idee e metafore a non finire, in un continuo rincorrersi tra realtà, sogno e letteratura che diventano inestricabili e autogenerantesi. Una struttura che si potrebbe paragonare forse a una matrioska messa in mezzo a un gioco di specchi all’interno di un incubo.
Ci sono tutte le tematiche care al regista di cui abbiamo parlato finora, ma portate alle estreme conseguenze, soprattutto per quel che riguarda la cancellazione dell’io e il mescolarsi dei ruoli, che arrivano al loro apice in quello tra madre e figlia, due personalità annientate dalla violenza perversa del marito/padre e dalla costrizione alla visione delle violenze subite dall’altra.
Astenersi assolutamente anime candide, deboli di stomaco e di nervi. Per tutti gli altri è una visione necessaria.
Voto Fulvio: 10
Exte – Hair extension (Ekusute, Giappone – 2007 – 113′)
La polizia ritrova il cadavere di una ragazza a cui sono stati asportati tutti gli organi interni dentro un container che contiene extension. L’addetto dell’obitorio che prende in consegna il corpo, Gunji, è un feticista dei capelli, che, invaghitosi di quelli del cadavere, lo trafuga e lo porta a casa, dove scopre con enorme gioia che continuano a crescere anche dopo la morte non solo sulla testa, ma anche attraverso le ferite del corpo.
Parallelamente si svolge la storia di Yuko, apprendista hair stylist alle prese con la cura della nipotina Mami, maltrattata continuamente dalla madre (sua sorella Kiyomi) e quindi introversa e remissiva.
Gunji ricava intanto delle extension dai capelli della ragazza morta e comincia a venderle proprio nel salone di bellezza in cui lavora Yuko. Ma queste extension sono dotate di vita propria, molto arrabbiate con il mondo ed estremamente vendicative.
Vero e proprio horror, con eccessi visivi e surreali tipici dello stile di Sion Sono, ma comunque abbastanza fedele alle strutture del genere. I temi a lui cari compaiono quasi tutti, senza che il film aggiunga altro a quanto detto negli altri.
Divertente e molto tamarro, per certi versi anche parodia di alcuni stilemi del j-horror (come appunto i capelli lunghi e neri di tanti spettri visti in pellicole come Ringu e Ju-on). Niente di eccezionale, all’interno della fimografia dell’autore, ma resta un horror godibile con momenti surreali e grotteschi.
Voto Fulvio: 7
Be sure to share (Chanto tsutaeru, Giappone – 2009 – 109′)
Shiro cerca di ricostruire un rapporto col padre, un tempo rigido insegnante di educazione fisica e oggi malato terminale di cancro. Quando scopre di essere a sua volta in fin di vita per la stessa malattia del genitore, decide di non dire niente a nessuno e continuare a cercare di riavvicinarsi alla sua famiglia e mantenere la promessa fatta al padre di andare a pescare insieme, fino a capire l’importanza di condividere le proprie emozioni reali e comunicare in modo costante e continuo, come fanno le cicale.
E’ il film più anomalo all’interno della filmografia dell’autore, un po’ l’equivalente di Una storia vera per David Lynch. Intimista, delicatissimo e contenuto in tutto (si concede giusto il paradosso dell’assunto iniziale, padre e figlio contemporaneamente ammalati dello stesso tumore, e un tocco di macabra poesia nel finale), Sion Sono rallenta il suo solito ritmo per raccontare una storia, per quanto drammatica, “normale”, che necessita dei suoi tempi e del suo andamento dolce. E’ un po’ come il padre del protagonista, che, energico e abituato a correre sempre, scopre il piacere della quiete della pesca.
Anche se si racconta di una famiglia normale, in sottofondo strisciano problematiche simili a quelle affrontate negli altri film, riportate però a una dimensione più quotidiana. C’è quindi la mancanza di comunicazione all’interno della famiglia e l’incapacità di condividere i propri sentimenti più profondi. Sarà la malattia a spingere il protagonista Shiro ad avvicinarsi al padre (fino ad ammalarsi dello stesso male), ma anche qui, al di là della liricità di quanto vediamo svolgersi sullo schermo e delle immagini stupende e leggere di Sion Sono, tutto è agitato da una problematicità di fondo irrisolvibile, forse perché connessa inestricabilmente all’esistenza stessa dei rapporti umani. Condividere può essere forse una soluzione, ma è comunque temporanea, perché è la condizione umana ad essere tragica.
Voto Fulvio: 9
Cold fish (Tsumetai nettaigyo, Giappone – 2010 – 144′)
La vita familiare di Shamoto, della moglie Taeko e della figlia adolescente (ovviamente problematica) Mitsuko si trascina tra incomprensioni, recriminazioni e routine all’interno del loro piccolo negozio di pesci, fino a che non incontrano Murata, eccentrico proprietario di un negozio molto più grande e ricco. Murata assume la figlia di Shamoto al suo negozio e si porta a letto sua moglie Taeko, ma travolge definitivamente la sua vita quando lo coinvolge nei suoi strani affari e, soprattutto, nei suoi efferati omicidi, plagiandolo e rendendolo, suo malgrado, complice.
Fa un po’ ridere parlare di “normalizzazione” per un film come Cold fish, splatter, cinico e pessimista come poche altre cose viste di recente, ma non si può non notare, rispetto alla precedente filmografia dell’autore, una maggior aderenza a una narrazione più lineare e al genere thriller-noir. Non so per quale analogia della memoria, ma mi ha riportato alla mente suggestioni (rese eccessive e deliranti) del romanzo Aprile è il più crudele dei mesi, di Derek Raymond, per lo meno nel modo in cui Murata fa sparire i corpi delle sue vittime.
Anche qui abbiamo famiglie disfunzionali (quella di Shamoto, ma anche quella di Murata, la cui moglie ha la sua buona dose di follia) e un protagonista remissivo, abituato a incassare colpi, incredibilmente inerte di fronte agli eventi che lo travolgono, come se si trovasse in balia di forze più grandi di lui, che sono forse i moti interni del suo essere, visto che accumula umiliazioni e frustrazioni fino a scoppiare.
Finale senza alcuna nota di speranza, che più nero e cinico non si potrebbe. L’autore stesso, d’altronde, dice a proposito del film che rispecchia la sua condizione di quel periodo, in cui non gli è rimasto più amore, ma solo tristezza, disperazione e oscurità. E una rabbia paurosa, aggiungerei io, a giudicare dal film.
Voto Fulvio: 8
Guilty of romance (Koi no tsumi, Giappone – 2011 – 144′)
La polizia ritrova, in un appartamento del quartiere a luci rosse, il cadavere di una donna alla quale sono state asportate la testa e gli organi genitali e i cui resti sono stati assemblati a due manichini. L’indagine della polizia è condotta da un detective donna insoddisfatta della sua vita familiare e che porta avanti una relazione erotica con un altro uomo. Parallelamente seguiamo la storia di Izumi, sposata con un famoso scrittore di romanzi passionali, ma a sua volta insoddisfatta di una vita di coppia che ormai si trascina in meccaniche ripetizioni di gesti formali e freddi. La donna inizia a lavorare come modella, ma presto le viene chiesto di essere ripresa nuda mentre mima un atto sessuale con un altro attore e lei accetta. In qualche modo liberata da quest’esperienza, Izumi inizierà un percorso nei meandri delle sue pulsioni sessuali più recondite, che la porterà ad affiancarsi a una professoressa universitaria che di notte si trasforma in prostituta. Tutte le storie saranno naturalmente destinate a incrociarsi.
Thrillerone erotico girato con grande eleganza (bellissima la fotografia, che crea veri e propri quadri macabri ed erotici), che cita Il castello di Kafka e richiama ovviamente Velluto blu, di David Lynch, e Alice nel paese delle meraviglie, ma porta tutto all’estremo, come nello stile di Sion Sono. Che qui in realtà, per i suoi standard, si contiene e cerca comunque di procedere su binari un po’ più convenzionali, se non a volte persino un po’ prevedibili, ma comunque sempre interessanti, per lo meno da un punto di vista estetico.
E’ forse il film dove più degli altri la protagonista, Imizu, sembra travolta dagli stessi eventi da lei scatenati e, in origine, ricercati, accettando passivamente ogni esperienza a cui viene sottoposta dalla sua mentore e guida nel mondo del sesso, la professoressa/prostituta, ancora una volta chiamata Mitsuko.
E’ formalmente tra i film più eleganti di Sion Sono, ma, in qualche modo, anche tra quelli più “prevedibili” (se così si può dire), restando pur sempre un ottimo prodotto.
Voto Fulvio: 8
I film di Sion Sono sono ancora inediti in Italia, ma è possibile recuperarne le versioni inglesi e tedesche in DVD, attraverso i più diffusi canali di vendita on-line.