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Torino 2013, sabato 30 novembre: previsioni e toto-premi, si chiude con il thriller Grand Piano

Torino Film Festival 2013: si chiude con Grand Piano, l’atteso thriller “alla De Palma” con Elijah Wood. Ma chi vincerà il concorso principale? Ecco le previsioni sui premi e i film favoriti da Cineblog.

pubblicato 30 Novembre 2013 aggiornato 31 Luglio 2020 07:10

Le ultime ore del 31. Torino Film Festival si vivono fra ultime proiezioni, recuperi dell’ultimo momento e discorsi sui possibili vincitori. Chi merita di più? Chi proprio non deve vincere nulla, ma potrebbe a sorpresa piacere alla giuria capitanata da Guillermo Arriaga?

Capire però chi vincerà il concorso, composto sempre da opere prime, seconde e massimo terze, è un terno al lotto. Fosse per me si deve puntare su quattro film che si giocano i premi principali: Club Sándwich, Blue Ruin, Pelo Malo e Le démantèlement.

Cerco di capire i perché queste opere potrebbero non vincere. Club Sándwich è messicano, e una sua vittoria potrebbe far pensare a molti che Arriaga abbia voluto far vincere un film del proprio paese. Blue Ruin potrebbe scontare la sua natura di “genere”, snobbata dalle giurie in favore di film autoriali.

Pelo Malo ha alle spalle già la Concha de Oro di San Sebastian, quindi la giuria potrebbe pensare che un ulteriore premio maggiore sia superfluo. A questo punto mi viene da pensare che Le démantèlement abbia buone chance, ma credo che Gabriel Arcand abbia già prenotato il premio come miglior attore.

Degli altri film non credo siano in molti a poter puntare sul premio come miglior film o per il Premio speciale della Giuria. Però non escluderei a priori qualche riconoscimento ai tre film francesi: 2 automnes 3 hivers, Vandal e soprattutto La bataille de Solférino, quello che secondo me ha più chance di vittoria fra i tre.

Per quel che riguarda invece i titoli italiani non vedo grandi possibilità per La mafia uccide solo d’estate di Pif e Il treno va a Mosca: agli occhi di uno straniero il primo può sembrare addirittura “debitore” de Il Divo, mentre il secondo sconta la sua natura di “collage” di home movies.

Allo stesso modo dubito che uno dei tre titoli orientali possa ambire al premio maggiore: Red Family è troppo scombinato, Karaoke Girl può destare interesse ma non è da massimo riconoscimento, A Woman and War è troppo sconvolgente e pieno di violenza. C.O.G. mi pare fuori da qualsiasi gioco (però Groff…), mentre forse La Plaga può ambire ad un Premio speciale della Giuria per il suo sguardo non privo di interessi sulla marginalità.

I miei vincitori:

Miglior film: Club Sándwich – Fernando Eimbcke
Premio speciale della Giuria: Blue Ruin – Jeremy Saulnier
Premio per la Miglior Attrice: Samantha Castillo in Pelo Malo
Premio per il Miglior Attore: Gabriel Arcand in Le démantèlement

Passiamo a due film che ho visto e che devo assolutamente segnalare, perché sono tra le punte di un festival che di punte ne ha già avute davvero parecchio (ricordo solo Frances Ha, Inside Llewyn Davis, Only Lovers Left Alive, Ida…). L’Image Manquante è uno dei titoli più importanti dell’anno. Vincitore dell’Un Certain Regard a Cannes 2013 e candidato rappresentante della Cambogia agli Oscar 2014, il film di Rithy Panh è un “documento” imperdibile.

Panh ha vissuto da bambino sulla sua pelle il periodo tra il 1975 e il 1979, quando i Khmer rossi governavano la Cambogia. La deriva dell’ideologia del comunismo aveva portato a conseguenze aberranti e sofferenze inenarrabili. L’autore racconta che per anni ha cercato invano una fotografia che potesse testimoniare quella barbarie. Non avendola trovata, la ricostruisce in prima persona attraverso piccoli pupazzi d’argilla creati a mano. Il risultato è un’opera straordinaria che inventa un linguaggio per ridare senso alla memoria storica e alla funzione del cinema.

Altro documentario, altro risultato entusiasmante e decisamente particolare. Ho amato Stop the Pounding Heart (in concorso TffDoc/Internazionale.doc) del nostro Roberto Minervini, da anni residente negli Stati Uniti. Minervini è un autore che si sta affermando con forza sul piano internazionale: questo suo ultimo lavoro è stato presentato a Cannes, raccogliendo tra l’altro pareri favorevoli. Pareri favoreli del tutto giustificati, visto che Stop the Pounding Heart è davvero un’opera meravigliosa.

Poco dopo aver finito di girare Low Tide (presentato a Venezia 2012), Minervini s’instaura in una famiglia di allevatori di capre texani. I genitori hanno educato personalmente i figli facendoli studiare a casa seguendo i precetti della Bibbia. Tra questi c’è Sara, la vera protagonista del film. Con un girato proveniente da 52 giorni, il regista ha poi scritto una sceneggiatura ed ha creato un “film osservazionale” assieme alla sua montatrice, focalizzandosi sui tumulti e i dubbi della giovane Sara.

Stop the Pounding Heart racconta in modo laico e vivo l’innocenza di un luogo che ai nostri occhi pare uscire da un’altra epoca. Un’America periferica e rurale in cui non c’è alcuna parvenza di device tecnologici, dove ci sono ancora rimasugli della cultura “cowboy”, e in cui alla donna viene insegnato che sottomettersi all’uomo in fondo non è così male (Eva è stata creata da Adamo)…

Con una regia da una parte attaccata ai volti di Sara e degli altri personaggi e dall’altra meravigliata di fronte al paesaggio malickiano, Minervini porta a casa un film che richiede una certa pazienza allo spettatore. Però si viene ripagati da un’esperienza visiva, pura e mai giudicante che regala emozioni e bellezza. Davvero uno dei film dell’anno.

Oggi il 31. TFF si chiude con il thriller “alla De Palma” Grand Piano, diretto da Eugenio Mira, con Elijah Wood pianista che sta per tenere un concerto ed è costantemente “minacciato” da un cecchino nascosto nel teatro.

E così si il nostro diario giornaliero dal festival si chiude qui, in attesa dell’annuncio dei premi principali. Stay tuned.

29 novembre: Club Sandwich è da premio, è il giorno del naufrago Redford di All Is Lost


Il 2013 è stato un anno di persone sole, letteralmente sole, costrette a combattere per sopravvivere: Sandra Bullock nello spazio profondo di Gravity, addirittura Tom Hardy costretto a districarsi tra mille problemi nel suo viaggio in autostrada di Locke, e poi anche l’avventura poco piacevole vissuta da Robert Redford in All Is Lost.

Opera seconda di J.C. Chandor, presentata fuori concorso a Cannes ed oggi in Festa Mobile al 31. Torino Film Festival, All Is Lost è la più semplice e terrificante delle lotte per la sopravvivenza: quella dell’uomo contro la furia inarrestabile della natura. Un uomo si trova nelle acque dell’Oceano Indiano a bordo del suo yacht. In seguito alla collisione con un container abbandonato tra le acque, le attrezzature di bordo risultano fuori uso, lasciandolo abbandonato a sé stesso.

All Is Lost conferma la passione del suo regista per le sfide, dopo l’opera d’esordio Margin Call. In quel caso provava a raccontare l’inizio della crisi finanziaria seguendo la giornata cruciale di alcune persone che lavoravano in una importante banca di New York, mentre col suo secondo film decide di fare un film con un soggettino come quello che vi abbiamo raccontato prima…

Film “fisico”, senza dialoghi, che sfrutta un sonoro di una potenza inquietante straordinaria, All Is Lost sembra venir fuori dalla miglior Hollywood di un tempo. E per quel che riguarda la pazzesca prova di Robert Redford già a Cannes avevamo sentito profumo di nomination agli Oscar:

Redford non solo tiene testa ai 100 e passa minuti di pellicola trascinandola perfettamente con un’interpretazione sentita, una prova fisica potente, ma riesce a farci pensare davvero che potrebbe avere addirittura una nomination agli Oscar con un ruolo praticamente muto. Non ci sono altri attori nel film, né in flashback né in postille finali. Non c’é nessuno con cui possa confrontarsi. La lettura della lettera ad inizio film e un paio di fuck urlati per disperazione sono le uniche cose che dice. Ma a certi attori bastano la professionalità e il carisma.

Prima di passare ai titoli della competizione, dedico un paio di righe per segnalarvi un film molto interessante: This is Martin Bonner di Chad Hartigan. Si tratta della storia di due uomini soli e agli antipodi (uno ha una formazione cattolica e teologica, l’altro è appena uscito dal carcere, e non sopporta gli estremismi religiosi pur credendo in Dio), ma più simili di quel che pensano.

Il progetto ha iniziato la sua produzione nel 2011 con una campagna su Kickstarter. Alla fine, dopo aver raccolto un budget di 42.000 dollari, il prodotto finale è arrivato al Sundance 2013, dove ha vinto il premio del pubblico della sezione Best of Next!. Pochi giorni fa è stato candidato al John Cassavetes Award degli Independent Spirit Awards.

Oggi si chiude ufficialmente il concorso con gli ultimi due titoli in gara: il messicano Club Sándwich e il francese Vandal. Li abbiamo già visti, ma in attesa delle nostre recensioni in anteprima vi diamo un’anticipazione: il secondo è un film discretamente riuscito, con regia dagli ottimi spunti e musica fantastica, ma il primo è da premio.

Si tratta della conferma di Fernando Eimbcke, regista di Sul lago Tahoe, che con tre attori principali, praticamente una sola location (un resort per le vacanze) e poco altro ci regala il rapporto madre-figlio più tenero e disarmante possibile. Personalmente non riesco ancora a togliermi dalla testa le ultime due inquadrature…

Oggi vedrò anche due “document(ar)i” tra i più attesi del festival: The Missing Picture, candidato agli Oscar come rappresentante della Cambogia, e Stop the Pounding Heart di Roberto Monervini, passato con successo fuori concorso sulla Croisette.

A domani con le nostre previsioni finali, il toto-premi, e ancora commenti e giudizi sui film visti.

28 novembre: shock A Woman and War, arrivano i vampiri di Only Lovers Left Alive


Come si fa a resistere infatti alla coppia formata da Tom Hiddleston e Tilda Swinton? Ce lo chiedevamo già a Cannes, e oggi ce lo richiediamo. Perché forse sono loro la coppia più bella del 2013, con buona pace di tutti gli altri, eroi da film per teenager compresi. Only Lovers Left Alive segna il ritorno di Jim Jarmusch dopo quattro anni di stanza da The Limits of Control.

Tocca proprio a Jarmusch svecchiare per davvero il mito del vampiro, regalandogli nuove affascinanti sfumature. L’autore torna su rotte più controllate e accessibili rispetto al suo film precedente e firma il film d’autore “di mezzanotte” ideale. Adam ed Eve (ebbeh!) sono dandy, raffinati, coltissimi, non violenti, e la loro storia d’amore dura ovviamente da anni. Irresistibili. Dalla Croisette ne abbiamo scritto così:

Jarmusch ripesca quello spirito indie e rilassato delle sue opere anni 80 e firma un film notturno – anche per forza di cose -, e a tratti molto divertente. Aiutato da una colonna sonora di indubbia presa e che a tratti ricorda Dead Man, firmata dal collaboratore Jozef Van Wissem, il regista descrive un mondo di zombie e fantasmi – Detroit è in piena crisi e non si vede in giro anima viva, e a Tangeri le cose non vanno meglio – e tira a segno anche qualche bella frecciatina. Come nel momento in cui Adam dice che Los Angeles, città dove vive Ava (una convincente Mia Wasikowska), è la “culla degli zombie”.

Continuiamo a parlare di film fuori concorso con Wrong Cops e The Grand Seduction. Personalmente mi piace e non poco Quentin Dupieux: ammetto di ridere come un cretino con i suoi film, e di trovarlo spesso e volentieri al limite del geniale. L’altr’anno a Torino avevamo proprio visto Wrong, rilettura surreale, demenziale e nonsense di un film che potrebbe aver diretto Lynch.

Wrong Cops è invece in pratica una rilettura surreale, demenziale e nonsense di un poliziesco. C’è un gruppo di poliziotti che si comportano in tutte le maniere negative possibili: c’è chi spaccia marijuana nascondendola dentro topi morti, c’è chi ha un passato porno gay, c’è chi spara per sbaglio alle persone e le nasconde nel bagagliaio, e c’è chi invece di lavorare si chiude in casa e compone musica elettronica.

Come in tutto il suo cinema, Dupieux va avanti di sketch in sketch, di trovata in trovata. In questo caso, poi, si sbizzarrisce non a caso con l’elettronica: esilarante il momento in cui il personaggio di Marilyn Manson è costretto ad ascoltarla. Però, se devo proprio essere onesto, trovo Wrong Cops meno ispirato del precedente, come se le gag fossero assai meno inserite nel tessuto narrativo e un po’ buttate lì. Però ecco, chi ha voglia si diverte, e io non mi sono di certo annoiato.

The Grand Seduction è il remake (canadese) di La grande seduzione, il film (canadese) diretto nel 2003 da Jean-François Pouliot. Una comunità di pescatori di Terranova si sta spopolando a causa dell’industria ittica che è crollata. Quando un fabbricante di oggetti in plastica mostra interesse a impiantarsi là, il villaggio si scatena per trovare un medico che prenda la residenza (come richiede il contratto).

Si tratta di un crowdpleaser a orologeria, che si sgonfia purtroppo negli ultimi minuti a causa di una certa frettolosità nel voler chiudere baracca, burattini e percorsi dei personaggi. Però tutto il resto è esilarante e non c’è un attimo di cedimento che sia uno. Fantastici tutti gli interpreti, capitanati dal solito grande Brendan Gleeson e da un più che funzionale Taylor Kitsch.

Il concorso è poi continuato con lo shockante A Woman and War, diretto da un pupillo di Wakamatsu. Le numerose scene di stupro hanno scatenato ad un certo punto un consistente fuggi fuggi dalla sala, ed effettivamente stiamo parlando di uno fra i film più agghiaccianti degli ultimi anni. Più “poesia” grazie al secondo titolo italiano, Il treno va a Mosca, viaggio nell’ideologia, nell’utopia e nella disillusione alla fine degli anni 50 in Italia.

Mancano ormai solo quattro film del concorso ufficiale. Oggi è il turno del catalano La Plaga e del francese La bataille de Solférino, inserito tra i Cahiers tra i 10 film migliori del 2013.

27 novembre: divide e disturba Canìbal, oggi è il giorno di Inside Llewyn Davis


Eccolo, il film che disturba, divide, regala perplessità. Lo aspettavo un film del genere, ci speravo davvero, ed eccomi accontentato: perché, nel mezzo delle ovvie perplessità generali (c’è chi ha gridato al film più brutto del festival), trovo che Canìbal – nella sezione After Hours – sia davvero bellissimo.

Protagonista del film di Manuel Martín Cuenca è Carlos, un bravo, solitario e ovviamente elegantissimo sarto di Granada che, in privato, di notte, è un serial killer. Un serial killer cannibale, che uccide le sue vittime (ragazze) e poi le mangia. Un giorno una ragazza arrivata dalla Romania si trasferisce nell’appartamento vicino al suo, poi scompare. La sorella inizia a cercarla e si trasferisce a sua volta nell’appartamento.

La storia sembra a tratti venir dritta da un film di Claire Denis, mentre lo stile ha alcuni momenti del Pablo Larrìn di Post Mortem. Canìbal è un film d’autore dalla tensione sottilissima, dallo svolgimento a passo lento e dallo stile raffinato e impeccabile. Ha un’apertura di estrema eleganza, con un’inquadratura fissa che si scopre soggettiva nel momento in cui diventa mobile: pare quasi Maniac.

Ha poi al suo interno una delle migliori scene viste fino ad oggi al 31. Torino Film Festival: il totale sulla spiaggia, in cui Carlos spia e poi assedia una coppia di fidanzatini. Una scena secca e crudele, con un lavoro sul sonoro di una potenza incredibile. Disturbante e perturbante, sono sicuro che Canìbal troverà i suoi estimatori che sapranno andare al di là della “noia” o dell’argomento delicato: provate a farlo voi un film d’autore con una trama così e a non sconfinare mai nel ridicolo…

Convince anche il bellissimo, toccante e rigorosissimo Ida, il film di Paweł Pawlikowski che ha vinto al Festival di Londra. Siamo in Polonia, nel 1962. La diciottenne Anna sta per prendere i voti, quando scopre di avere una zia ancora in vita (è orfana ed è stata cresciuta in convento tutta la vita). Si tratta di Wanda, ex pubblico ministero comunista, responsabile di numerose condanne a morte nei confronti di religiosi e colpevole di nascondere da sempre le sue origini ebraiche.

Ida riesce ad essere molte cose assieme convincendo su tutti i fronti: è una specie di road movie di (ri)formazione, esplorazione del mondo femminile, ragionamento sui dubbi della fede e dell’ideologia… Poi, a livello stilistico, sembra venir fuori da un’altra epoca (bianco e nero, 4:3…), così come Historia de la Meva Mort di Serra. Quanto è bello vedere che ci possono essere ancora opere d’autore belle, radicali, cinefile e non vendute a nessuna regola di mercato… Non perdetelo quando uscirà al cinema distribuito da Parthénos.

In concorso mi ha convinto Pelo Malo, meno Karaoke Girl, mentre ritengo che Lunchbox – sviluppato grazie a TorinoFilmLab – avrà un discreto successo anche in Italia grazie ad un passaparola tra il pubblico d’essai che dovrebbe aiutarlo. Oggi in concorso tocca al tostissimo film giapponese sulle orme di Wakamatsu e Oshima A Woman and War, e poi al secondo italiano, Il treno va a Mosca.

Ma soprattutto oggi è la giornata dell’attesissimo e meraviglioso Inside Llewyn Davis dei Coen. Da Cannes ne scrissi in modo entusiastico:

Vi diranno che Inside Llewyn Davis è un film bellissimo anche se “minore” nella filmografia dei Coen. Si giustificheranno dicendo che non c’è nulla di male: i fratelli di Minneapolis spesso tirano fuori dal cilindro le loro opere più belle proprio con i titoli più piccoli. No, ci sbilanciamo: altro che film piccolo, altro che film “minore”. Inside Llewyn Davis è un’opera straordinaria che racchiude tutto il cinema dei suoi autori.

Se siete a Torino sapete ovviamente già quale film non bisogna perdere per nulla al mondo.

26 novembre: convince l’esordio di Pif, è il giorno di Prince Avalanche e Pelo Malo


Devo ammettere di avere un po’ riso all’ultima Mostra del cinema di Venezia quando ho letto i pareri altrui riguardo Joe, presentato in concorso. Perché molti dicevano che “questo David Gordon Green si sta davvero formando”, o cose del genere. Insomma: praticamente si sta formando un regista in attività dal 2000 e autore almeno di tre o quattro grandi film (ma per chi scrive ad oggi sono sei i suoi film notevoli).

Di David Gordon Green ne ho scritto parecchio qui su Cineblog, e mi sembra pazzesco che oggi stiamo parlando del ritorno in forma di un autore che ancora a gennaio davamo per morto. Perché, dopo aver “fondato” l’estetica (e non solo) del nuovo cinema indipendente contemporaneo, il regista ha quasi dato di matto, si è “svenduto” al miglior offerente ed ha diretto della commediacce che non ci si crede.

Però David è vivo e lotta insieme a noi, e il 2013 è stato davvero il suo anno, prima grazie a Prince Avalanche, selezionato al Sundance e poi vincitore del premio della regia a Berlino, poi con Joe, che ha regalato a Tye Sheridan il Premio Mastroianni. Curiosamente, Prince Avalanche è il remake del bel film islandese Either Way, vincitore del TFF nel 2011. Qualcuno vi dirà che questo è uguale all’originale ma con ambientazione diversa: non stateli a sentire.

L’idea di fondo di entrambi i film è molto semplice: due uomini vengono messi a lavorare su una strada deserta per dipingerne la segnaletica orizzontale. Either Way ovviamente si svolge in Islanda, Prince Avalanche in Texas, negli anni 80, dopo un gravissimo incendio. La solitudine forzata fra i due personaggi, interpretati da Paul Rudd ed Emile Hirsch, dà il via prima ad uno scontro e poi ad un’amicizia.

Curioso e metaforico (e metafisico?) buddy movie, Prince Avalanche ha il tono leggero di chi sa effettivamente dosare i toni della commedia quando vuole, ed ha alcuni momenti profondi che richiamano i film migliori del regista. Ascoltate il monologo di Hirsch quando è di ritorno dal primo weekend: dice tanto delle insicurezze dell’uomo (inteso come maschio) e fa quasi venire le lacrime agli occhi. David Gordon Green è tornato, ragazzi. Non perdetevi poi quando ne avrete l’occasione anche Joe, che l’autore ha descritto proprio come il “fratello dark” di Prince Avalanche.

Il TFF è ormai giunto a metà percorso, e sono arrivati i dati del primo weekend. Dati pazzeschi, che segnano un 30% in più di presenze rispetto all’anno scorso, che già era in crescita (ma negli ultimi anni il TFF è mai calato di presenze?). Colpa della bellezza del festival in sé, accogliente, rilassante e metropolitano, e soprattutto del programma. Qualcuno si lamenta un po’ dicendo che ci sono molte opere medie, senza cose orribili ma nemmeno col “gran film”.

Dissentiamo, anche solo perché la presenza di Frances Ha smentisce quest’idea. Vero anche che ci sono un sacco di operine carine sparse dappertutto e poche brutture (per chi scrive giusto il film di Mazzacurati e qualche altro titolo). Giusto oggi ho visto dei film che mi hanno lasciato piuttosto perplesso, devo ammettere. Il primo è Red Family, il film coreano in concorso scritto e protto da Kim Ki-duk: che, al contrario del film di Pif, mi lascia più di un dubbio.

Mi piace Bruce McDoland, l’autore canadese di The Tracy Fragments e Pontypool, ma The Husband mi pare un’opera minore, di certo non brutta ma nemmeno indimenticabile. Lo svedese LFO di Antonio Tublén, che aveva delle affinità con Berberian Sound Studio, è invece un fallimento: parte da uno spunto curioso e poi s’inceppa e va avanti per inerzia. Colpa di una sceneggiatura acerba, di una sola idea sfruttata all’infinito e una regia troppo chirurgica.

Di Molière in bicicletta, commedia campione d’incassi in Francia, avremo modo di parlare a breve con la nostra recensione in anteprima, e lo stesso faremo con C’era una volta un’estate. Il concorso continua oggi con il thailandese Karaoke Girl e l’attesissimo venezuelano Pelo Malo, vincitore della Concha de Oro al Festival di San Sebastian 2013.

25 novembre: Tarantino fa bene ad amare Big Bad Wolves, oggi è il giorno di Pif


Tarantino aveva ragione stavolta: Big Bad Wolves è un gran film. Un revenge movie israeliano nerissimo, teso e persino molto divertente. La storia è quella di tre personaggi legati dalla sparizione e uccisione di una bambina: c’è il detective che sospetta di un professore, a sua volta inseguito dal padre della piccola vittima.

Aharon Keshales e Navot Papushado non hanno paura di niente, né di abbondare in stile né di sporcarsi le mani nel sangue. Già, perché Big Bad Wolves ha un lato da torture porn piuttosto notevole, in cui si rompono dita, si strappano unghie e si brucia la pelle con la fiamma ossidrica. Roba per stomaci forti e preparati.

Tutto è però scritto benissimo, con dialoghi che sprizzano humour e originalità: si capisce perché il regista de Le Iene ha amato il film. La scena iniziale, tutta al rallenti e con toni non a caso fiabeschi e inquietanti, è memorabile, e la colonna sonora enfatizza al punto giusto le emozioni di un’opera mai avida di sensazioni.

Ha scatenato invece più dubbi Computer Chess, che effettivamente non è proprio il tipo di film che ci aspettavamo. Però è un bel film lo stesso. Comincia come un mockumentary sul gioco degli scacchi attraverso software di computer anni 80, e nella prima parte tutto è più o meno come ci si aspetta.

Andrew Bujalski, il vero padre del Mumblecore (il suo Funny Ha Ha è del 2005), parte come doveva cominciare, e si prende tutto il suo tempo per carburare, con lunghi dialoghi e discussioni. Poi Computer Chess diventa un nerd-gasmo vero e proprio che ribalta l’operazione-nostalgia alla base del progetto e prova a ragionare con toni surreali e folli su un periodo in cui l’uomo sognava di trovare un’anima ai computer.

Operazione ancora più rischiosa è quella del belga Vincent Lannoo (in concorso nel 2011 con lo stravagante Vampires), che con Au Nom du Fils sfreccia un attacco duro e grottesco all’istituzione della Chiesa. Tra preti pedofili e madri vendicative, questo è una specie di delirante Kill Bill anti-clericale con alcuni momenti decisamente feroci. Però mi sfugge un po’ il senso dell’operazione.

Il concorso ricomincia con il coreano Red Family, scritto e protto da Kim Ki-duk, e soprattutto con l’attesissimo La mafia uccide solo d’estate di Pif. Oggi vedremo anche C’era una volta d’estate, opera prima degli sceneggiatori di Paradiso amaro.

24 novembre: Francis Ha incanta, Casanova incontra Dracula in Historia de la Meva Mort


La perfezione esiste, e si chiama Frances Ha. Noah Baumbach firma il suo capolavoro, una commedia leggera come il miglior Woody Allen eppure nerissima come solo la vita può essere. Baumbach ridà un senso al cinema character driven in cui il protagonista cerca un posto nel mondo. Ancorando il percorso di Frances a New York, l’autore descrive follie, contraddizioni e sogni infranti di un personaggio e di una città con una lucidità semplice e diretta.

Abbiamo già avuto modo di parlare di quanto i “ragazzi del Mumblecore” siano cresciuti e maturati (vedi Drinking Buddies o Computer Chess, presentato tra ieri e oggi): ma in realtà Greta Gerwig, musa del “movimento” che fu, è una conferma. Dopo Greenberg il regista sceglie la giovane attrice nata coi film indie super low budget e le regala il primo, grande ruolo della carriera.

Nell’interpretare questa ventisettenne che non ha (ancora) una casa, ama la danza ma non è una ballerina e si muove tra diverse amicizie – tra cui quella con la migliore amica Sophie – la Gerwig conferma una freschezza disarmante. Date solo un’occhiata al suo sguardo nel momento in cui lascia Sacramento, città dove ha passato le vacanze di Natale coi suoi (uno dei momenti più belli e “chiarificatori” del film)…

Certo, Frances può dare la sensazione di essere pure un po’ sfigata, ma la sceneggiatura (scritta a quattro mani da regista e interprete) lavora come un orologio svizzero e dà un senso ad ogni minimo dettaglio e ad ogni svolta narrativa. Certo, poi il film è divertente, con un bianco e nero perfetto e delle scelte musicali a tratti geniali, ma acquista vera forza grazie a sfumature che danno un senso all’operazione. Solo così si può capire che forse c’è un posto nel mondo anche per Frances, c’è, anche se è piccolo e stretto…

Se Frances Ha è ad oggi il capolavoro del festival, come sta andando questo 31. Torino Film Festival? Sale piene, biglietti esauriti, tantissima gente, twitter preso d’assalto con l’hashtag #TFF31, e soprattutto già tanti film di qualità fra cui pescare subito un film del cuore. Sono passati solo due giorni e questo è il 31. TFF: un festival come lo voleva Paolo Virzì, pop. Che unisce la passione cinefila e autoriale al divertimento di massa, senza escludere nulla.

Ad un ingarbugliatissimo e divertente noir indiano come Ugly viene affiancato, per dire, un Història de la Meva Mort, prima proiezione di Onde, la sezione più audace e sperimentale del festival. Il film popolare di genere e il film autoriale ed estremo per pochi. Il primo ha di sicuro molti difetti (la sceneggiatura è davvero troppo piena di twist, e alcune scene non hanno una direzione chiara) ma descrive bene come tutti – buoni e cattivi, polizia e criminali – facciano parte dello stesso mondo. Che è brutto, come suggerisce il titolo.

Il secondo è il film che ha vinto il Pardo d’oro all’ultimo Festival di Locarno. Si tratta di una specie di passaggio di testimone fra un Casanova invecchiato e un Dracula più simile a certi ritratti antichi che ai bei vampiri di Coppola o Badham, con tanto di barbona. Albert Serra, alla sua opera terza (paradossalmente quella più “vendibile”, grazie ai dialoghi e al colore: ma parliamo comunque di un film per cinefili preparati…), è come se mettesse in scena il passaggio di testimone tra Illuminismo e Romanticismo.

Casanova e Dracula, in fondo, non sono due personaggi così diversi: si “nutrono” dei corpi altrui. Il primo riceve linfa vitale dai rapporti con le donne, il secondo dal loro sangue. Però Dracula letteralmente vampirizza la sua preda. E dopo il suo arrivo, che arriva ben dopo la metà (il film dura 150 minuti che si sentono tutti), il buio e le pulsioni del Romanticismo coprono i lumi della ragione dell’Illuminismo.

Història de la Meva Mort sembra uscito fuori da un’altra epoca. Come se Fellini e Sokurov s’incontrassero e dirigessero un film a quattro mani. Il risultato è dal punto di visto emotivo aridissimo e da quello dell’intrattenimento pari a zero, ma c’è molto di cui godere. Perché quello di Serra è un film che potrebbe regalare fascino e cinema-cinema a palate. Basta vedere con che gusto mette in scena dal punto di vista scenografico e fotografico l’Illuminismo: forse non era mai stato visto così prima d’ora.

Curioso infine constatare come tra due film sullo stesso argomento, l’addio al celibato, sia stato scelto come film d’apertura il più debole. Le motivazioni però ci sono, e pure belle evidenti. Last Vegas è un prodotto americano, e partire col logo Universal non fa male. Il cast poi fa paura (Michael Douglas, Robert De Niro, Morgan Freeman, Kevin Kline…). The Stag è invece uno sconosciuto (per ora) film irlandese senza star.

Il pubblico ha reagito molto bene in entrambi i casi, quindi il calcolo è facile. Però insomma, ecco: si poteva puntare anche sullo sconosciuto e far scoprire ancora di più qualcosa di nuovo. Ribadisco: The Stag non ha nulla di nuovo, e dice cose già dette e da quello che han fatto altri. Però a livello di divertimento e tutto il resto personalmente lo preferisco di gran lunga a Last Vegas.

Oggi il concorso continua con 2 automnes 3 hivers e C.O.G., ma si vedrà anche La sedia della felicità di Mazzacurati, che verrà premiato col Gran Premio Torino.

23 novembre: sorpresa Blue Ruin, James Gandolfini “ritorna” in Enough Said


“Attenzione: sgomberare la sala!”. I giornalisti erano increduli quando, appena seduti sulle poltrone del Massimo 2 in attesa della primissima proiezione stampa (quella di Le démantèlement, in concorso), si sono sentite queste parole subito dopo un acutissimo allarme. Nessuno scherzo: semplicemente… un falso allarme!

È partito in modo “pepato” per la stampa questo 31. TFF, ma anche nel migliore dei modi, con una prima giornata niente male. Se noi di Cineblog vedremo oggi Last Vegas e ve lo recensiremo al più presto (sapete, è l’unica proiezione, serata di gala/apertura di ieri esclusa…), abbiamo già avuto modo di vedere i due film in concorso che passano oggi in proiezione ufficiale.

Due bei film, per inciso, come potete leggere dalle nostre recensioni in anteprima. Se il film di Pilote conferma le qualità e la sensibilità dell’autore di Le vendeur, Blue Ruin è un indie americano sorprendente. Un ufo che farà parecchio discutere ma che si prepara facilmente a diventare un cult. Un bagno di sangue e humour nero che rilegge il revenge movie, riuscendo anche a parlare di una nazione.

Due film hanno poi divertito pubblico e stampa, entrambi in Festa Mobile. Di Drinking Buddies, il film più maturo di Joe Swanberg, ne ho scritto a sufficienza nella recensione in anteprima. Di The Stag spendo invece ora due parole. Si tratta di una commedia irlandese su un particolare addio al celibato di due giorni in montagna fra cinque amici e un intruso, il fratello rompiballe e pazzo della futura sposa…

Tutto già visto e tutto già detto, da A Few Best Men a The Hangover: ma credo sia scientificamente impossibile non divertirsi e non ridere a più non posso in almeno quattro o cinque scene. Forse il finale può sembrare troppo ruffiano (ci sono di mezzo un’auto-patpat nei confronti dell’Irlanda e le canzoni degli U2), ma il resto è roba che nel suo funziona in modo efficace.

Oggi è infine la giornata di due film attesissimi in Festa Mobile: Non dico altro (Enough Said) e Frances Ha. Del secondo ne parlerò meglio domani sempre in questo diario (mi sbilancio perché ho già avuto modo di vederlo: capolavoro!). Il primo ci riporta invece sul grande schermo James Gandolfini, scomparso lo scorso 20 giugno. La magia del cinema ce lo regalerà ancora una volta, quell’attore gigantesco in tutti i sensi.

22 novembre: si parte con Last Vegas


La versione per anziani di Una notte da leoni? Staremo a vedere: fatto sta che, come l’anno scorso, si parte con un cast non propriamente giovanissimo. Però se questi leoni non proprio di primo pelo si chiamano Michael Douglas, Robert De Niro, Morgan Freeman e Kevin Kline c’è solo che da togliersi il cappello.

Quattro vecchi amici decidono di organizzare un addio al celibato a Las Vegas per l’unico di loro che è rimasto single e che si accinge ad impalmare un donna molto più giovane: Last Vegas, diretto da Jon Turteltaub, apre ufficialmente oggi le danze del 31. Torino Film Festival (qui i nostri consigli). Si apre tra le risate con un film popolare, in un festival che si preannuncia sì molto pop ma anche assai cinefilo. Come sempre.

Se l’apertura ufficiale sarà alle 21.30 all’Auditorium del Lingotto, con la cerimonia presentata da Luciana Litizzetto, i film cominciano ad essere proiettati già dal pomeriggio. Si parte alle 17 al Massimo 1 con Au Nom Du Fils, nuova opera del regista di Vampires (in concorso al TFF nel 2010), mentre alle 17.15 al Massimo 3 c’è Traffic Department, successo stratosferico al box office in Polonia.

E tra un The Conspiracy (19.00, M1) e un Drinking Buddies (19.30, M3), spunta fuori alle 21.00 la prima proiezione della retrospettiva sulla New Hollywood con un documentario fondamentale: Woodstock. Tre ore che ci riportano dritti al leggendario concerto del 1969, tra il 15 al 18 agosto, per tre giorni di pace, amore e musica. Un documento sulla cultura hippie, manifesto di un’epoca raccontato da Michael Wadleigh (e dal suo assistente Martin Scorsese).

Domani comincia infine il concorso ufficiale con i primi due titoli: il canadese Le démantèlement di Sébastien Pilote, regista del bel Le Vendeur (in concorso nel 2011), e l’attesissimo Blue Ruin, il revenge movie di Jeremy Saulnier. Occhi puntati anche su due grandi film fuori concorso: Non dico altro (Enough Said), con l’ultima interpretazione di James Gandolfini, e Frances Ha, l’ultimo film di Noah Baumbach con Greta Gerwig.

Come già fatto a Cannes, Venezia e Roma, Cineblog seguirà il festival per voi con recensioni in anteprima e soprattutto con questo “diario” che aggiorneremo giorno dopo giorno: stay tuned!

Torino Film Festival