Dom Hemingway: Recensione in Anteprima
Un Jude Law smodato, decisamente sopra le righe, conduce in maniera travolgente questa piccola dark comedy come solo lui può fare. Dom Hemingway potrebbe costituire una delle sue migliori prove da attore davanti alla macchina da presa. Siete avvisati
Ora, chiedetevi quanti film avete visto in cui il protagonista, nudo, con le braccia spalancate, apre la prima scena con un’ode al suo pene; per poi approssimarsi alla conclusione disteso e piangente sulla bara di un suo caro, mentre qualche istante dopo si dà a battute piacione sul colore della pelle.
Fatto? Noi osiamo: non ne avete trovato manco uno. Fino ad oggi. O meglio, fino a che non vedrete Dom Hemingway, rocambolesco, scorretto e per certi aspetti vacuo affresco di un personaggio talmente deprecabile da essere amabile. Pure troppo, amabile. Protagonista un trascinante Jude Law, anima e corpo in un progetto che lo vede indiscusso mattatore. Ed infatti l’ex-belloccio londinese carica su di sé il film dalla prima all’ultima sequenza.
Domingo Hemingway, anche detto Dom, ha appena finito di scontare dodici anni di carcere. Un lungo periodo in cui ha tenuto la bocca tappata, evitando così di compromettere mister Fontaine, pericolosissimo criminale russo che oramai vive in Francia. Dom è un tipo con un problema. Cioè, con tanti problemi, ma uno in particolare: non riesce a gestire la rabbia. In un eccesso di sincerità nonché odio per formalismi e convenzioni di vario tipo, se Dom ha una cosa da dire (ma soprattutto, da fare) la dice (la fa). Si potrebbe sospettare che sia l’alcool ad incidere sulla sua volontà, ma chi lo pensa evidentemente non conosce Dom Hemingway.
Sì lo stesso della forbita ode al pene di cui sopra, che appena esce di prigione il suo primo pensiero è andare a deturpare il volto del compagno della sua defunta moglie, reo di essersi occupata di quest’ultima in assenza dell’ex-marito finito in gattabuia. Dopodiché, ancora a terra e con le mani insanguinate, si accende una sigaretta e scambia due chiacchiere con i non troppo increduli colleghi della vittima.
Dom Hemingway altro non è che un collage di stranezze e nonsense i cui pezzi sono appiccicati con un certo stile e non poco sarcasmo. L’humor prevalentemente britannico del regista americano Richard Shepard cosparge una serie di episodi che stanno a malapena in piedi; ma che non importa perché a in realtà ciò che più conta è fino a che punto sia capace di spingersi il protagonista di questa sgangherata commedia. Abbiamo scritto sgangherata, ma non per questo superflua o, peggio ancora, pretestuosa. Anzi, in barba al politicamente corretto, inanella una serie di uscite di siffatto tenore, anche col rischio di scadere nel banale, nel già detto.
Fatto di giochi di parole, dialoghi surreali e passeggiate a petto e sedere nudi per orti o frutteti che siano, senza di tanto in tanto disdegnare la tenerezza di un sorriso, di una stretta di mano, di un pugno ben assestato nella bocca dello stomaco o di uno sguardo fisso nel vuoto in compagnia di un nuovo, piccolo amico. Dom Hemingway va preso così per com’è, nel bene o nel male, ossia mai troppo sul serio. Vive di momenti, legati sì ad una storia tutto sommato scorrevole, ma al tempo stessa del tutto secondaria e senz’altro subordinata alla descrizione di questo strambo ma non meno affascinante individuo.
In un contesto dove non mancano i cliché, siano essi interni o esterni al cinema stesso, dove mancano buoni o cattivi forse, ma di certo non gli stronzi, tra cui magari lo stesso protagonista. Che però, come abbiamo già avvertito, è anche amabile, di un’amabilità che non lascia indifferenti e che crea empatia. Come sia possibile empatizzare con un ex-detenuto, ladro orgoglioso, puttaniere e cocainomane è un altro paio di maniche. Dom certe domande non se le porrebbe nemmeno. E forse nemmeno Jude Law, che qui è chiamato a calarsi in uno dei ruoli a lui più congeniali di sempre. Per noi è un complimento.
Voto di Antonio: 7,5
Dom Hemingway (Regno Unito, 2013) di Richard Shepard. Con Jude Law, Emilia Clarke, Richard E. Grant, Demiàn Bichir, Madalina Ghenea e Jumayn Hunter.