Oculus: recensione in anteprima
Uno specchio che ti fa vedere cose terrorizzanti e fare cose orribili. Ma “Oculus” è soprattutto l’autodistruzione di una famiglia in un interno. Da un suo corto di successo, Mike Flanagan trae un lungometraggio intelligente e persino “politico”.
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Non è che di horror “belli” ne manchino, in giro. Non si può manco prendere come metro di paragone ciò che si vede in Italia, visto che la distribuzione del genere boccheggia e non poco (basta guardarsi in giro). E quello che arriva dall’America è sempre il solito, tra remake, sequel e nuovi franchise (a cui si è piegato pure James Wan).
Poi certo, c’è di che discutere, e ci sono pure i nomi (Rob Zombie, ovvio, anche se viene sbertucciato). Ma il genere ha un po’ smarrito la sua forza, mettendosi a ragionare su sé stesso prima che sul mondo (da Scream a Quella casa nel bosco). È per questo che un piccolo film come Oculus non dev’essere sottovalutato, piaccia o meno: perché mi pare un buon tentativo per recuperare la forza originale dell’horror.
La partenza è quella di un cortometraggio di enorme successo, girato da Mike Flanagan nel 2006: il protagonista era Tim, un uomo convinto che il padre non fosse l’assassino che tutti credono (aveva commesso delle atrocità anni prima), ma che sia stato invece “vittima” dei demoni di uno specchio che da anni colpisce le famiglie che lo hanno in casa.
Scoppiato come nuovo autore horror da tenere d’occhio nel 2011 con Absentia (ma aveva già girato tre lungometraggi, tra il 2000 e il 2003), Flanagan decide di sviluppare il suo corto del 2006 in un vero e proprio film. Il risultato è questo Oculus, in cui il regista decide di affiancare a Tim un nuovo personaggio: la sorella Kaylie.
Molti anni fa, la famiglia Russell è stata colpita da una terribile tragedia che ha segnato per sempre la vita dei piccoli Tim (Garrett Ryan) e Kaylie (Annalise Basso). Dieci anni dopo, Tim (Brenton Thwaites), che era stato accusato del brutale assassinio di entrambi i genitori, lascia il carcere con l’unico desiderio di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare. Kaylie (Karen Gillan) invece, ancora ossessionata da quella fatidica notte, è fortemente convinta che la morte dei suoi genitori sia stata causata da qualcos’altro.
Secondo la ragazza, una forza maligna risiederebbe in un antico specchio che si trovava nella casa di famiglia. Kaylie, determinata a provare l’innocenza del fratello, rintraccia lo specchio e scopre che nel corso dei secoli i diversi proprietari dell’oggetto sono stati tutti vittime di morti violente simili a quella dei suoi genitori. Ora che lo specchio è di nuovo nelle loro mani, Tim e Kaylie sono decisi a scoprire la verità.
Quello che era uno spunto da cortometraggio viene sviluppato da Flanagan in maniera molto intelligente. Già il fatto di aver inserito un’ulteriore protagonista gli permette di innescare un doppio binario nella storia: la versione e i ricordi della sorella, convinta che lo specchio sia maledetto, e la versione e i ricordi del fratello, convinto che la sorella non ricordi affatto bene come siano andate le cose anni prima. Con un montaggio elaboratissimo e che ad una seconda visione potrebbe rivelare dettagli e intuizioni sorprendenti.
Lontano dall’horror da multisala, Oculus funziona come uno slowburner. Flanagan si prende i suoi tempi, lavorando di atmosfera sul perturbante. Il suo film mette in scena la distruzione di una famiglia in un interno o la sua stessa autodistruzione? Comunque lo si legga e qualunque “versione” dei due fratelli lo spettatore sceglie di sposare, Oculus risulta comunque convincente. E una versione non esclude per forza l’altra.
Ha delle qualità decisamente anni 70-80, Oculus, innanzitutto perché porta in sé degli elementi che richiamano quel periodo. Si tirerà in ballo Shining, poi tutto il filone delle case infestate (ma la villetta non ricorda anche un po’ quelle di Halloween?). Kaylie poi vuole immortalare con delle videocamere gli effetti dello specchio sulle persone, e si chiude in casa con il fratello per vedere cosa succederà: per “sopravvivere” crea una serie di ingegnosità e trucchetti che manco Nancy nella parte finale di Nightmare, quando sta per tirare Freddy fuori dal sogno.
Ma se la pellicola ricorda certo cinema anni 70-80 non lo fa perché “copia” o rielabora, nemmeno perché lo cita o lo omaggia (come fa Stage Fright, pur scegliendo un registro al limite della parodia). Oculus ricorda quell’horror perché è (bello) come l’horror anni 70-80, che sapeva appassionare e disturbare perché dava l’impressione di voler parlare anche di altro, non solo imbastire uno spettacolo.
Paradossalmente, Oculus funziona meno quando tenta di usare lo spavento un po’ fine a sé stesso. Non che manchino i balzi sulla sedia, le attese e il gore (attenzione a unghie e denti). Con il suo procedere lentamente, e seminando disagio lungo la strada, il film riesce però ad appassionare proprio perché hai l’impressione che in ballo non ci sia solo uno specchio che ti fa vedere cose terrificanti e fare cose sadomasochiste a tua insaputa: di mezzo c’è una famiglia che letteralmente si disintegra e va a pezzi.
In questo, Oculus recupera a sorpresa una forza persino politica che il cinema horror di questi ultimi anni, soprattutto americano, aveva perso per strada. Flanagan ha poi il coraggio di andare fino in fondo, senza sconti per i suoi personaggi e senza per forza dover spiegare tutto, e una casa di produzione più grande alle spalle lo avrebbe forse costretto ad essere più esplicativo, disinnescando un po’ la forza del risultato finale.
Per questo Oculus è come l’horror anni 70-80: perché mette in scena un “trauma” che nasce nel nucleo fondante della società, la famiglia, e ricade sui singoli. Che il film sia praticamente tutto chiuso dentro alle quattro mura della stessa casa non è certo un caso. C’è chi ha tirato in ballo Lynch, visto il delirio della seconda parte: troppa grazia. Ma l’assunto di base forse è quello del suo cinema: la mente non cancella, semmai trasforma e rielabora i traumi e i demoni interiori…
Voto di Gabriele: 8
Voto di Antonio: 7
Voto di Federico: 7
Oculus (Oculus, USA 2013, horror 105′) di Mike Flanagan; con Karen Gillan, Katee Sackhoff, Brenton Thwaites, James Lafferty, Rory Cochrane. In sala dal 10 aprile 2014.