Jauja: Recensione in Anteprima del film di Lisandro Alonso presentato in Un Certain Regard a Cannes 2014
La folgorazione del Festival. Lisandro Alonso porta a Cannes Jauja, ritratto rigoroso e radicale di un’epopea al di là del tempo e delle spazio
Patagonia, 1882. In una terra vergine, apparentemente incontaminata, un avamposto militare è di stanza presso una spiaggia durante la campagna per la cosiddetta «Conquista del deserto». Immersi in un ambiente totalmente ostile, dove, parafrasando uno dei militari: «chi cavalca è un re». Il capitano Gunnar Dinesen e sua figlia Ingeborg si trovano anch’essi in questo luogo maledetto, a distanza siderale dalla natia Danimarca. Ma come avremo modo di scoprire di lì a poco, le distanze, così come il tempo, in Jauja non contano.
Un tempo che sin dalle primissime immagini sembra essersi congelato, immobile, in quel luogo in cui l’uomo appare davvero fuori posto, innaturalmente inserito in un contesto che non gli appartiene. Non solo. Uno di quelli che rischiano di schiacciarlo, avulso com’è dall’accogliere elementi estranei. C’è chi si masturba immerso in una pozza d’acqua, chi osserva il mare in orizzonte, chi vaga con un incedere lento. Tutto è sproporzionato in queste prime battute, surreale. La prima conversazione tra il capitano Dinesen e Pittaluga serve a contestualizzare la loro presenza, la loro missione. Stremati da una campagna che a quanto pare non ha ancora portato alcun frutto, se non cattivo, le speranze di avanzare nei propositi della vigilia resta alta.
L’unico impedimento è rappresentato da questa figura mitica che risponde al nome di Zuluaga: è lui che dissuade lo sparuto gruppo da ogni progresso. Ma chi è? Zuluaga può essere tutto e niente, ma di certo è una minaccia: un comandante che si traveste da donna, dice un soldato mandato in esplorazione. Al che gli viene chiesto: «ma tu l’hai visto?»; manco a dirlo, la risposta è no. Voci dei locali. Ed è paura, terrore dell’ignoto, come solo un nemico senza volto può suscitare.
Ai problemi che Dinensen è chiamato a far fronte, però, se ne aggiunge un altro. La quindicenne Ingeborg rappresenta una tentazione troppo forte per degli uomini che si stanno inselvaggendo, specialmente per Pittaluga, inquietante figura che oramai ha internamente ceduto all’idea di violare la giovane. La conversazione di cui sopra, non a caso, finisce col parare su tale questione: il soldato è addirittura risposto a regalare un cavallo in cambio della “compagnia” della ragazzina ad un’innocua festa. Un botta e risposta a quel punto tiratissimo, fatto di poche parole ma tanta tensione, con i due che si osservano studiandosi, ben sapendo che sciolta quell’assemblea niente sarà più come prima e l’uno dovrà guardarsi le spalle dall’altro d’ora in avanti.
Lo stile del regista Lisandro Alonso è asciutto e rigoroso all’inverosimile. L’intero Jauja è a conti fatti costituito da quadri, tableau vivant all’interno dei quali si muove la pacata azione, senza alcun exploit di ritmo fino alla fine. Scelta che, se da un lato mette alla prova anche lo spettatore più volenteroso, dall’altro rappresenta uno dei veri valori aggiunti di questo film; che non è infatti pensabile senza quel formato (4:3), senza quei rari movimenti di camera, senza quella progressione a tratti contemplativa. Come nella parte centrale del film, quando Dinensen si inoltra nel deserto per cercare la figlia rapita, sebbene consenziente.
In questa fase Alonso predispone tutto ciò che manca in vista dell’ultimo atto, quando il lungo vagabondare del capitano incappa in una meta non voluta, per certi aspetti non sperata. Gli echi à la Tarkovskij si avvertono e sono ben distinguibili; quella che comincia come un’opera a carattere storico si trasforma lentamente in un’epopea umana di ben altro spessore. Come in Solaris, che da film dalla fantascienza si trasforma in “altro”, dolcemente.
L’aura mistica che circonda Jauja atterrisce, forzando a riflessioni decisive. La severità estrema che fin lì costituisce la matrice comune su cui poggia ogni componente del film – dalla scrittura alla fotografia, passando per il montaggio – letteralmente esplodono senza distoglierci dalle immagini, in cui la quiete, come già accennato, continua a farla da padrone. E’ esattamente in questo punto, alla fine del viaggio di Daninsen, che Jauja si apre. Anzi, si spalanca.
L’ultima parte dà totalmente ragione di una scelta consapevole ma, come sempre in questi casi, rischiosa. Alonso mescola pressoché ogni piano – spaziale, temporale – consegnandoci una riflessione spietata, incisiva come poche. Ma soprattutto rispettosa dello spettatore, che è chiamato a “riempire” non i buchi (che non ci sono) bensì gli interstizi volutamente lasciati intatti alla meditazione di chi osserva il calmo avvicendarsi degli eventi.
Ma non si pensi che sia tutto qui, sebbene non sia affatto poco. Jauja va toccando anche altre corde, evocando questioni che ci incalzano in maniera sorprendente, a dispetto di un ritmo così rilassato. Veri e propri macigni che ci stimolano a mettere tutto costantemente in discussione. Quadri che bramano di essere interpretati, o quantomeno letti. Sintomo di una fiducia spropositata nel mezzo, che qui viene spinto al massimo.
Da poco in fuga con l’amante/rapitore, un episodio dall’alto tasso teatrale vede quest’ultimo ed Ingeborg seduti; lui è di spalle, mentre lei è dolcemente poggiata sulla schiena dell’uomo. I due si parlano, il che non avrebbe nulla di così clamoroso… se non fosse che lei parla solo in danese, lui in spagnolo. La loro non è una conversazione, visto che soltanto lo spettatore è nelle condizioni di capire cosa si stanno realmente dicendo. Eppure la scena è di una tenerezza unica, precedente di pochi istanti l’amplesso ma lontana anni luce da ogni forma di volgarità. Finché il padre, dopo alcune peripezie, non incappa nell’incontro definitivo, quello che forse non sancisce la fine di un percorso, ma senz’altro l’inizio di uno nuovo. Con maggiore consapevolezza, quella che fino a quel momento manca e che da quel momento in avanti andrà costruita un po’ alla volta, perché tanto c’è tutto il tempo del mondo. Anzi, c’è proprio un’eternità. Per poi consegnarsi al finale, altrettanto stordente ma oltremodo efficace, in linea con un discorso che Alonso chiude egregiamente, senza forzarne troppo il “significato” (!).
Una storia i cui eventi sono ridotti all’osso, essenziale sotto più aspetti, che si sofferma in maniera struggente ma meravigliosa sulla condizione dell’uomo, quello che non conosce tempo. E sul suo desiderio, croce e delizia del percorso di ciascuno di noi, sempre alle prese con questa facoltà, che è una benedizione e una maledizione al tempo stesso, ossia quella per l’appunto di desiderare. Oltre ogni speranza, oltre ogni riscontro con la realtà, che infatti in Jauja ha un’accezione amplificata, dilatata. E’ la volontà dell’uomo, quella che è sempre soggetta o quantomeno subordinata a “qualcosa”, quale che sia il nome che ci aggradi dargli. Probabilmente il migliore visto a Cannes quest’anno (al massimo insieme a Mommy), a dispetto di un trattamento ampiamente discutibile: relegato in Un Certain Regard e per nulla agevolato in termini di proiezioni. Senz’altro la vera sorpresa, il reale colpo di fulmine; quello che contribuisce in maniera determinante a dare un senso a tutto un Festival. L’ultimo giorno poi…
Voto di Antonio: 10
Voto di Gabriele: 10
Jauja (Danimarca, USA, Argentina, 2014) di Lisandro Alonso. Con Viggo Mortensen e Ghita Nørby.