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Thermae Romae: Recensione in Anteprima del film tratto dal manga omonimo

Roma antica e Giappone contemporaneo si fondono in questa surreale disamina culturale che non disdegna il grottesco, spingendosi anche oltre. Dopo il successo in suolo nipponico, Thermae Romae, tratto dall’omonimo manga di Mari Yamazaki, non può che approdare anche in Italia

pubblicato 9 Giugno 2014 aggiornato 31 Luglio 2020 00:59

Antica Roma, II secolo d.C. Sotto l’Impero di Adriano, l’architetto Lucius Modestus è avvilito da ciò che l’un tempo gloriosa civiltà romana sta diventando. Le terme, luogo d’incontro, di riflessione e quindi di rinvigorimento sia fisico che spirituale, adesso è un covo di invertebrati proni al deboscio, che di quella meravigliosa istituzione ne hanno fatto un circo (nell’accezione negativamente moderna del termine). Roso dall’esigenza di dare vita a qualcosa di grandioso, che ripristini i fasti di un tempo, Lucius cerca di escogitare la qualsiasi; ma la sua ambizione è frustrata dalla mancata ispirazione, oltre che dalle commesse che vanno sempre più scarseggiando.

Finché un giorno, mentre cerca ristoro proprio presso le terme, uno strano pertugio in fondo alla vasca lo risucchia catapultandolo nel Giappone di quasi duemila anni dopo. Da qui in avanti bastano pochi minuti e qualche sequenza per cogliere quella che grossomodo è l’idea alla base di Thermae Romae. Un film decisamente eccentrico, un modo atipico di portare avanti un discorso che deve inevitabilmente molto al fumetto omonimo da cui è tratto. Perché se è vero che la commedia, quella vera, è quasi sempre denuncia (anche involontariamente), è altrettanto vero che qui l’indole nipponica s’impone a tal punto da far pendere l’ago della bilancia in un verso anziché in un altro.

I toni sono infatti quelli da operazione spiccatamente grottesca, intrisi di quello humor nipponico marcato, che gioca molto sull’alternanza del serio e del faceto, entrambi estremizzati. Un’operazione che in tal senso non solo ha un suo perché, ma dispone pure di una sua incisività. A partire da Lucius, per cui si è scelto il giapponesissimo Hiroshi Abe invece che puntare su un attore occidentale – scelta d’altra parte in linea con le premesse. L’architetto romano, uomo d’animo nobile, è totalmente dedito alla causa di Roma; costantemente serioso, lo vediamo struggersi per trovare quel quid che consenta alle terme, epicentro della vita romana, di operare lo step successivo.

Hideki Takeuchi riesce a destreggiarsi abbastanza bene all’interno di questo scenario, conferendo non solo al personaggio di Lucius ma all’intera situazione, ossia l’inspiegabile avanti e indietro nel tempo tra Roma Antica e Giappone contemporaneo, una sua “credibilità”. Credibilità tutta internamente narrativa, s’intende, perché chi ha familiarità con certa cinematografia nipponica sa che non di rado certi registi riescono molto facilmente a farsi prendere la mano (il buon Miike ne sa qualcosa). Mentre a ‘sto giro Takeuchi appronta un discorso che resta surreale dall’inizio alla fine, ma il cui spaesamento si attenua gradualmente, una volta entrati in quell’illogico meccanismo di salti temporali. Viaggi da cui ogni volta Lucius porta con sé qualcosa, visto che sistematicamente, almeno fino a un certo punto della storia, si risveglia in delle terme giapponesi, non plus ultra per un esperto e appassionato come lui.

Abe bilancia discretamente la vena di ironico nonsense con una certa tenerezza: colto da stupore per ogni cosa, il suo personaggio è concepito quale corpo totalmente estraneo in un mondo in cui tutto per lui è nuovo, meravigliosamente inedito. Un rubinetto, un secchio, delle tovaglie, fino all’apice del milkshake alla frutta, momento di estasi mistica durante la quale a Lucius non resta che versare una lacrima. Altra aspetto relativo alla sensibilità nipponica di intendere il comico, ovvero la ripetizione, ché volendo è un po’ una misura universale. Sì, solo che da quella parte del mondo il concetto è rielaborato a tal punto che tale misura assume una duplice valenza, non solo in termini comici bensì anche narrativi. Un altro momento di estasi, per esempio, Lucius lo raggiunge sedendosi su un gabinetto che, a fatto compiuto, si atteggia a bidet, tergendo le natiche con un rigenerante zampillo d’acqua.

Apparentemente meno interessato, invece, Takeuchi lo sembra sul lato relazioni. Come si comporterebbero dei giapponesi qualora si trovassero di fronte un romano di due millenni fa? E come quest’ultimo? Anche in questo caso rileva l’indole nipponica, che in questo caso vira su un certo disincanto, assecondando quella «cultura del possibile» per cui, certo, discutere con un uomo del passato è senz’altro una stranezza, ma alla quale in fondo si fa presto ad abituarsi. La bella Manami (Aya Ueto), figlia dei proprietari delle terme in cui compare lo stravagante ospite, non si pone troppe domande: spinta dalla curiosità, oltre che dall’averlo visto nudo, vuole conoscere Lucius. Legame, il loro, che assume un senso nel corso della storia e che in fondo verte su discorsi a prima vista banali come l’inseguire i propri sogni e via discorrendo; salvo poi dover prendere atto che c’è qualcosina di più.

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In apertura si è alluso infatti alla denuncia. E tra le pieghe di questo sregolato racconto si scorge infatti una critica, seppur pacata, a quelle generazioni che hanno forse dimenticato o accantonato la valenza della piazza, del relazionarsi, come momento essenziale di una determinata civiltà. In questo senso, infatti, le terme assurgono a metafora, partendo da un presupposto, fondato o meno che sia: come a Roma Antica, anche in Giappone le terme rappresentano un’istituzione, parte integrante della vita dei giapponesi. La domanda è: tale importanza è ancora percepita tra i più giovani? Lucius si ritrova infatti circondato da vecchi, anziani nella migliore delle ipotesi. Specie alla luce dell’ultima parte del film, si trae questa sorta di nostalgica “lezione” su un Giappone che forse non c’è nemmeno più: quando Lucius osserva gli «occhi allungati» (li chiama così i giapponesi), il loro approccio al lavoro – altro aspetto pregnante – e trae delle conclusioni che già Joseph Campbell evidenziava, vertenti tutte sulle differenze tra la cultura orientale, tendente ad una sorta di collettivismo, e quella occidentale, storicamente più ripiegata sull’individuo.

Stiamo facendo il passo più lungo della gamba? Non esattamente. Perché Thermae Romae vive senza dubbio della sua connaturata propensione all’assurdo, di cui il film è intriso per intero. Ma al tempo stesso, tra una stramberia e l’altra, tenta di soffermarsi su certi tipi e topoi. Pur contrassegnato da una certa predilezione verso il ridicolo, che non è certo nelle corde di tutti, qua e là dissemina minuscole schegge su cui è possibile e forse pure auspicabile soffermarsi. Senza rinunciare all’ilarità tutta nipponica che oramai, a questo punto del nostro scritto, dovrebbe essere assodata quale elemento essenziale. Facendo anche leva su cliché e affini, tra un brano di Verdi e delle uova consumate in vasca. Insomma, prendere o lasciare. Qualora però si arrivasse in qualche modo a percepire ciò a cui si va incontro, qualche sana risata non mancherà, infarcito com’è questo film di intuizioni che al passaggio dalle pagine del manga al grande schermo perdono qualcosa, ma che in certi casi continuano a funzionare. Nota a margine: Thermae Romae II esiste già, ed è uscito in Giappone ad Aprile, oltre ad essere stato proiettato nel corso dell’ultimo Far East Film Festival.

Voto di Antonio: 6

Thermae Romae (Giappone, 2012) di Hideki Takeuchi. Con Hiroshi Abe, Aya Ueto, Kazuki Kitamura, Riki Takeuchi, Kai Shishido, Takashi Sasano, Masachika Ichimura e Midoriko Kimura. Nelle nostre sale da giovedì 26 giugno.