Venezia: Le anime candide dell’albergo del libero scambio a NY e le anime nere dai tentacoli criminali tra Sud e Nord
Aleggia su Venezia e la Laguna la tragedia politica per il Mose, acqua alta a volontà per la marea turgida della corruzione, e la Mostra offre un giorno tra brillante commedia e gangster nostrani di buona famiglia
Nel saggio palinsesto del direttore Alberto Barbera e dei suoi collaboratori, ecco una giornata che piace e dispiace (si vedrà poi il perché). Nella Sala Grande del Palazzo del cinema, un monumento carico di storie e anche un mausoleo per le avventure della Mostra stessa (quanti caduti nelle speranze di successo), sono stati messi uno dopo l’altro una bella commedia brillante e un film fosco e nero, a colori stinti.
Un respiro leggero e un calcio in bocca ben assestato. “She’s Funny That Way” di Peter Bogdanovich è un film delizioso che, come è già accaduto nella vecchia Hollywood, mette insieme la tradizione teatrale delle glorie europee con l’abilità tutta americana di oggi che consiste nel presentare la “sua” società, ma anche la “nostra” ormai, come una gran, fragorosa parodia tra amore e malamore, psicanalisi, investigatori privati, vari tipi di escort, prove di vita tra le scene di un teatro che si commemora e aggiorna, e un cinema che lo riprende con gli scatti del digitale, fluido e corale. Bogdanovich è un lupo di mare, nostromo tra miti di Hollywood e miti dell’America che non rinuncia a guardare a se stessa, nonostante che sappia molto bene che non è più tempo di illusioni. L’America degli emigrati, della vittoria della seconda guerra mondiale, della potenza in salute, è una bandiera che garrisce al vento, ce la mette tutta, ma Putin alza le spalle e tira avanti in Ucraina; il sogno di un nuovo impero torna dopo la caduta del Muro di Berlino del 1989. In questo film, dall’esile trama, e dal ritmo indiavolato siamo nel beato mondo delle “corna” nell’ambiente teatrale, con una giovane escort che racconta la bella vicenda di una carriera iniziata fra i letti di un regista, un attore, la moglie del regista, le amanti dell’attore, un vecchio magistrato infoiato, eccetera. L’atmosfera è quella dell’ “Albergo del Libero Scambio” , testo classico di Feydeau, quella della risata a tutti i costi, quadri di costume, specchietti sociali. Si corre da un letto all’altro, tra un continuo chiudere e aprire di porte. Un film che fa bene. Diverte. Gli attori sono tutti formidabili e Bogdanovioch sa a memoria come s’incanta il pubblico, anche quello frustrato di una Mostra e di un’America che fa i conti con Bollywood e Putin, oltre che con la nuova Cina. Avendo goduto un’ora e mezza con la riscossa del buon umore fatto a macchina e per disperazione, gioia di vivere da cassetta, nella Sala Grande il salto bel buio è pericoloso come saltare con gli elastici da un ponte e accorgersi che ci si è dimenticati degli elastici; quindi…
“Anime nere” è un film nero nero, diretto da Francesco Munzi, primo film italiano in concorso. Nero seppia. Si svolge tra Milano e la campagna calabrese.Antropologie a confronto. La gente spavalda, e labile, di Bogdanovich. E la gente cupa, ossessionata da rancori profondi, da realtà vissute come una condanna, da cui uscire criminali. Munzi è un regista risoluto. Niente fronzoli. Rapide scene tra il Sud, regno delle due Sicilie (mafia e n’drangheta) più il regno della Sacra Corona Unita in Puglia e più il regno di Napoli della camorra. L’aria è pesante. Fischiano le pallottole e gli odi, neanche tra le famiglie dove la separazione tra il bene e il male sembra essere dominata dai secoli esiste un tessuto di sentimenti capace di resistere. Le pacche sulla spalle e i sorrisi sono ghigni implacabili, promettono falsità e morte. In un primo momento il film, centrato sulla decisione di un giovane d’arruolarsi nelle partite d’affari con la droga, ci riporta al film italiani sui suddetti regni che hanno una politica estera e una interna, vanno oltre i confini della patria che non è mai stata una patria, la nostra, e tornano nella terra delle pecore e delle erbe secche (qui l’Aspromonte). Poi, il tono e i ghigni vanno oltre il ricordo, propongono un ritratto di disperazione e di squallore. Il film non scopre novità, picchia col martello della realtà squallida e dura sull’incudine rossa di sangue e di intenzioni di sangue.
Primo film italiano in concorso, inserito forse non a caso, per tirare su il livello dei temi, nella selezione che prevede i lavori su Pasolini e Leopardi. Due poeti, da soli, parevano forse troppo poco per parlare in un Paese come il nostro, buio, in cui la luce se c’è resiste come può alle trame del delitto, degli affari, dell’odio. Sarebbe stato troppo squilibrio nel programma.In una Venezia moscia di umidità e placcata dall’assalto delle corruzioni per il Mose. Depressione mal nascosta, in una città molto visitata da turisti, una città senza sindaco e molti squalificati politici.