Manglehorn: Recensione in Anteprima del film con Al Pacino
David Gordon Green ci parla ancora di uomini in grado di voltare pagina attraverso la loro personale risalita. In Manglehorn un eccezionale Al Pacino interpreta un “mago” che ha smarrito la sua arte ma non il suo tocco
Angelo Manglehorn (Al Pacino) possiede una ferramenta la cui specialità sono le chiavi. Ci lavora da solo ma se capita accetta anche di allontanarrsi per un intervento in loco. Abitudinario come non di rado si diventa oltrepassata una certa soglia d’età, l’esistenza di Manglehorn procede senza exploit alcuno: vive con la sua adorata gatta in un appartamento spoglio, abbandonato a sé stesso. Lo vediamo entrare in una stanza per poi chiudere la porta alle sue spalle, come se quella fosse un’ala a parte della casa. Capiremo.
David Gordon Green la scorsa edizione portò a Venezia un film meraviglioso, Joe. Se non si può certo parlare di analogie, esistono comunque dei fili conduttori, per quanto sottili, tra le premesse dei due film. Entrambi si muovono in direzione della ricostruzione di un rapporto, o meglio, di una riappacificazione tra l’eroe ed il mondo che lo circonda. Non a caso c’è già tutto nei due titoli: Joe e Manglehorn. Due tipi, tra le miriadi possibili, che cercano di restare a galla laddove tutto li attrae verso il basso. E che in tanti, troppi casi rischiano di cedere al richiamo dell’abisso.
Basta, il confronto finisce qui. Sì perché questa volta Green si rapporta ad un personaggio ancora più ordinario, tanto che le sue vicende quasi “annoiano” per quanto sono radicate nella quotidianità. Quasi. Anzi no, non annoiano per nulla. Al Pacino infonde nel suo Manglehorn la cifra stilistica che lo contraddistingue, senza però soverchiarlo o anche solo sovrapporsi, da quel fenomenale attore che è e che questa Mostra ha rilanciato alla grande. Perché il suo alter-ego qui non è un ex-criminale (sebbene la sinossi avverta che sia un ex-pregiudicato, nel film si coglie poco o nulla in tal senso), un invasato, o che so io… è semplicemente «un uomo rabbioso, molto rabbioso».
Ammettiamo che ad un certo punto c’è il rischio di manifestare una certa insofferenza per tutto quel carico di situazioni senza particolare mordente, cassando lo sviluppo del film col più becero dei “non succede nulla” (sic). Ed invece qualcosa, e pure di più, accade, nonostante solo a posteriori sia possibile collocare per bene ogni tassello – gli anglofoni parlerebbero di slow-burn. Non che Green esiga chissà cosa o quanto dallo spettatore, che però deve avere un minimo di pazienza, perché una storia come quella di Manglehorn, questa è l’impressione, andava raccontata così, quasi con discrezione. Insomma, tanto chiede e tanto dà. Nessuno spazio, perciò, per ingombranti didascalie, solo la pura azione o i meri dialoghi; ma va bene pure il flusso di coscienza, che contraddistingue una specifica sezione del film, non troppo lunga ma girata con criterio, tra dissolvenze, sovrapposizioni e voice-over.
L’anziano protagonista si trascina un dolore che lo rode da tempo, inducendolo a sbarrare ogni porta, lasciando fuori sostanzialmente la vita, con tutto ciò che vi si trova al proprio interno. E lo ammette apertamente, senza tanti giri di parole, in occasione di un pranzo col figlio: «avevo immaginato che le cose sarebbero andate diversamente». Alla base della sofferenza di Angelo vi è dunque il rimpiato per qualcosa di cui molto probabilmente si sente responsabile. Un vecchio amore forse, basti pensare alle continue lettere che scrive a Clara. La sua Clara.
Per tenere in vita il suo ricordo, Manglehorn ha da tempo stabilito che bisogna eliminare tutto il resto; così totalizzante è il pensiero di Clara. Il film di Green diventa dunque la cronaca di una risalita, a tratti disincatata, cinica e pure un po’ monotona (sì pure), tanto che in alcuni frangenti si cerca di compensare alla bassa intensità con il ricorso a racconti, frammenti di ricordi del passato. Espediente, questo, che risulta molto funzionale in particolar modo per approfondire la personalità del protagonista, il cui retaggio rimane per lo più avvolto da fitte nubi. Ma è bene che sia così, ovvero che a ciascuno di noi venga data l’opportunità di colmare questi spazi vuoti, immaginandoci Angelo nei modi più disparati.
Quel che è certo è che il vecchio è stato un mago, di quelli che però hanno smarrito la propria arte; non il suo tocco, che a conti fatti lascia aperto lo spiraglio ad ogni possibile cambiamento. Concedendosi pure qualche simbolismo, perché il film di Green altro non è che una fiaba contemporanea, un archetipo che vuole l’eroe scendere negli abissi per affrontare una serie di prove, in ultimo il nemico più minaccioso di tutti; per poi godersi la risalita, sebbene a seguito di molte e ragguardevoli sofferenze. Basti pensare alla stanza “segreta” nella sua abitazione o alla barca riempita di tutta quella zavorra inutilizzabile; ma finanche al nome della donna dalla quale passa inevitabilmente la rinascita di Manglehorn, ovvero Dawn (alba).
Sempre attento a non perdere di vista la storia, così come coloro che ne fanno parte, David Gordon Green tiene fede alla sua capacità, condivisa con altri cineasti indipendenti americani, di tirare fuori il più possibile da una qualunque vicenda, andando al cuore della stessa. Senza false ipocrisie o aggiustamenti di sorta, intervenendo in maniera più “invasiva” della realtà proposta solo nel finale. Magico, com’è giusto che fosse.
Voto di Antonio: 8
Voto di Federico: 7
Voto di Gabriele: 4
Manglehorn (USA, 2014) di David Gordon Green. Con Al Pacino, Holly Hunter, Chris Messina, Harmony Korine, Natalie Wilemon, Kristin Miller White, Aj Wilson McPhaul, Edrick Browne, Rebecca Franchione, Nina Madore-Mitchell, Louis Moncivias e Luis Olmeda.