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Nobi (Fires on the Plain): Recensione in Anteprima del film di Shinya Tsukamoto

Con Nobi (Fires on the Plain) Shinya Tsukamoto opta per il film di guerra a tinte horror e vince la sua personale scommessa

pubblicato 2 Settembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 22:38

Le ultime cose che mi ricordavo erano le gocce di pioggia sul fucile.

Siamo sul finire della Seconda Guerra Mondiale. Le truppe giapponesi si trovano in un’isola delle Filippine, abbandonati a sé stessi. Il soldato Tamura, affetto da tubercolosi, si ritrova solo, abbandonato dal suo plotone. Viene raccolto da un’altra squadra di soldati giapponesi, la cui condotta è alquanto sospetta. La foresta in cui si trovano ha un che di spettrale, inquietante. Il nemico perde ogni forma, mescolandosi e confondendosi con un’ambiente ostile e minaccioso.

Insomma. Tetsuya Tsukamoto opta per il film di guerra a tinte horror, basandosi su Nobi, omonimo romanzo del 1951 scritto da Sh?hei ?oka – da cui era già stato tratto un film, che risale al 1959, diretto da Kon Ichikawa. Il regista di Tetsuo punta al coinvolgimento a 360 gradi, strutturando la sua versione di Fires on the Plain più come un’esperienza; farci essere fisicamente sul posto, in mezzo a quella miseria, sembra essere lo scopo principale che Tsukamoto si è prefisso.

Dopo i primi venti minuti si sarebbe tentati dal pensiero di un La sottile linea rossa in salsa nipponica, anche se magari meno incline a certe derive paesaggistiche e di stampo ermeticamente filosofico. Tuttavia la tensione della prima parte volge lo sguardo a tali istanze, perché non ci vuole molto per immaginare Nobi piuttosto come una sorta di Cuore di tenebra lato Giappone, ma anche un simile paragone finirebbe con lo sviare – specie se poi si finisce col parlare di Apocalypse Now, ed allora ciaobuonanotte.

No, Fires on the Plain mantiene una sua specificità, forte com’è di un racconto raccapricciante, che Tsukamoto traspone in modo brillante. E ci riesce lasciandoci in sospeso, in balia di quella foresta che sembra celare qualcosa, anche se non si sa bene cosa. L’ansia dovuta all’indefinibile, il nascosto, il misterioso, percepibile però attraverso gli influssi che genera su chi ne è vittima. Il soldato Tamura, per esempio, è senz’altro una brava persona; senza didascalie o semplificazioni, lo vediamo in più occasioni prodursi in atti di gentilezza di per sé banali, ma che a posteriori assumono un significato. In un primo momento bisogna infatti evidenziare certe distinzioni tra chi quel luogo lo bazzica da un po’ di tempo e chi, invece, non ha ancora compreso in che situazione si trova, restando di stucco dinanzi a come certi suoi compagni riescano a perdere la testa per un tubero da niente. Eppure il seppur surreale Tsukamoto qui si autodisciplina, imponendosi dei limiti che mai, nemmeno in un caso, oltrepassa nel corso del film.

Più che all’onirico si fa non poca leva sulla verosimiglianza di quanto sta accadendo, perché, ricordiamolo, Nobi non riuscirebbe nel suo intento qualora faticasse a trasmettere l’orrore e l’angoscia di coloro che si trascinano, sudici come bestie, lungo quei sentieri accidentati. Ogni incontro di Tamura con altri soldati che ciclicamente ritornano, o abitanti del posto, non fanno che accrescere il senso di smarrimento. Lato survival, il condividere la scena con altri personaggi smorza un po’ quel tipo d’atmosfera; che però ne guadagna in intensità tutte le volte che una mitragliatrice nemica apre teste o mozza arti, con conseguente, copiosa fuoriuscita di sangue. Non vengono infatti lesinate scene crude o anche solo cruente, di cadaveri ammassati, corpi smembrati e via discorrendo, in una pellicola che non indulge troppo sullo splatter ma accumula le sue buone scene in tal senso, dando a Cesare ciò che di Cesare.

Nobi è un film forte, che ricrea un contesto non solo attraverso delle immagini tutto sommato nella norma, ma soprattutto servendosi del sonoro. Sotto tale aspetto la qualità del lavoro è eccelsa: il regista nipponico aggiunge ed amplifica effetti sonori di ogni tipo, purché attinenti alla situazione. Ciò che ne viene fuori (specie in una sala come la Darsena, adibita di tutto punto) è uno spettacolo notevole, a più riprese trascinante. Si aggrappa a qualunque cosa Tsukamoto, tra numerose soggettive, inquadrature traballanti, stacchi spiazzanti etc. Ecco perché si può tranquillamente affermare che uno dei punti di forza del film sta proprio nell’abile montaggio, che oltre ad una tenuta di livello nell’insieme, manifesta alcune intuizioni di tutto rispetto, come uno stacco in dissolvenza da un fiore, ripreso con un appena percettibile restringimento dell’inquadratura, a un pezzo di braccio maciullato. Perché sì, di dritto o di rovescio al cannibalismo ci si approda, ma a riguardo non vi diciamo assolutamente nulla, consapevoli che la vostra curiosità saprà ben guidarvi.

A questo punto, con sempre meno titoli in cartellone, tocca cominciare a farsi un’idea di chi potrebbe andare avanti e chi invece restare indietro. Non sappiamo come la pensa la Giuria, ma tra le nostre preferenze questo accattivante ancorché respingente, disturbante Nobi (Fires on the Plain) occupa una posizione piuttosto alta. Perché quello di Tsukamoto è un film potente, senza alcun dubbio epidermico, ma che se aggancia non molla la presa fino all’ultima scena. Pure perché capace di affrontare discorsi non poco scabrosi con una certa efficacia, andando dritto al sodo pur scavando nei lati più oscuri dell’animo umano. Quelle zone dove è buio pesto, e dalle quali mai si riemerge, se succede, alle stesse condizioni di quando la discesa doveva ancora cominciare. Così, giusto per concludere in toni maldestramente evocativi.

Voto di Antonio: 8,5
Voto di Federico: 8

Fires on the Plain (Nobi, Giappone, 2014) di Shinya Tsukamoto. Con Rirî Furankî, Tatsuya Nakamura, Yûko Nakamura e Shinya Tsukamoto.