Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza: Recensione in Anteprima
Paradossale finestra sul mondo, A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence di Roy Andersson si sofferma sulla trasversale assurdità della vita in 39 quadri da Leone d’Oro
Mi fa piacere sentire che le cose vanno bene. Sì, dico, mi fa piacere sentire che le cose vanno bene.
Tre incontri con la morte. Numero 1: un paffuto signore schiatta per infarto nel soggiorno di casa sua. Numero 2: un’anziana madre, costretta su un letto d’ospedale, vuole portare con sé in cielo la sua borsa coi gioielli. Numero 3: un cliente muore su una nave dopo aver pagato il conto al ristorante senza avere consumato. A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence è un film di zombie. I volti dei suoi inusuali personaggi denotano un bianco cadaverico strenuamente voluto; corpi che aspettano solo di decomporsi.
Roy Andersson conclude meravigliosamente la sua trilogia «sull’essere un essere umano», inaugurata da Songs from the Second Floor (2000), proseguita con You, the Living (2007) ed ora definitivamente archiviata con questa sua ultima fatica. Un film straordinario, nell’accezione più ampia del termine: personalissimo quanto allo stile, sebbene risenta di chiare influenze pittoriche (qualcuno ha suggerito Edward Hopper e Bruegel: quanto alla fotografia, noi scomodiamo invece Erwin Olaf), universale quanto ai concetti. Un’opera di spessore notevole, che va assorbita per intero, senza lasciarne fuori neanche un pezzo.
I personaggi entrano ed escono in continuazione. Andersson se ne serve e poi se ne disfa con disinvoltura, ponendoli in primo piano o lasciandoli sullo sfondo, sempre attivi, sempre pronti, con i loro gesti o le loro interazioni, a dirci qualcosa. All’interno di una struttura la cui apparente rigidità viene abilmente aggirata da una messa in scena pazzesca. Anzi, si tratta proprio di elevazione. Sono trentanove i quadri che compongono questo studio visuale sull’umano agire, tutti composti con geometria impeccabile, oltre che con un’economia che non è mai minimalismo bensì ottimizzazione degli elementi a fronte di una gestione ineccepibile rispetto a ciò che avviene all’interno di quella cornice.
Fin qui non sarebbe affatto fuori luogo l’idea che si tratti di una pellicola tendenzialmente noiosa, oltremodo esigente. Ma non è così. Affatto. A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence è opera impegnativa senza dubbio, non fosse altro per le sue lunghe inquadrature fisse. In 101 minuti si conta un solo movimento di camera, appena percettibile e sul medesimo asse della mdp. Tecnicismi superflui, a fronte di una rappresentazione costantemente compatta, in cui anche il più piccolo dettaglio contribuisce alla resa. Come in un dipinto, nulla è lì per caso, e Andersson dà modo di studiare l’architettura delle sue inquadrature, da cui riesce a trarre senso, significato. E ci riesce sempre, ogni singola scena. Ciò che lo rende ancora più irresistibile è però quell’ironia glaciale, incurante di etichette e quant’altro. Stimolante perché tocca i tasti giusti, punzecchiando in maniera talvolta pedante: tutto pur di smuovere, benché l’ultima delle aspirazioni sia quella di strappare una facile risata.
Quantunque certe dinamiche che osserva siano per lo più ordinarie, ad essere fuori dal comune sono i suoi attori. Due venditori che, a dir loro, operano «nel settore del divertimento», trafficano in oggetti come denti da vampiro finti, sacchetti-che-ridono e maschere da zio con dente solitario, «un classico». Lotte la Zoppa possiede una Taverna sita in Goteborg, dove nei lontani anni ’40 ai marinai che non avevano soldi per pagarsi uno sciortino di grappa la proprietaria accettava baci al posto dei danari, sulle note di Glory, Glory, Hallelujah, per quello che diventa un musical estemporaneo. Andersson non ha paura di nulla e non si preoccupa dunque di far entrare un soldato di Re Carlo XII in sella al proprio destriero dentro a un pub dei giorni nostri, fondendo due epoche che non si toccano nemmeno. Il pub si trova in un luogo di passaggio per le truppe vichinghe che si apprestano a combattere la Russia, ed il Re approfitta per una sosta con un bicchiere d’acqua frizzante. Oltre a volersi portare il giovane oste e tenerselo in tenda.
La stravaganza di quanto appena riportato non deve confondere, né scoraggiare. Il regista svedese adopera il registro dell’assurdo, dilatandolo all’inverosimile perché ciò che conta è arrivare a mostrare ciò che si vuole dire. L’humor gelido da cui è contraddistinto il film non costituisce un mero vezzo, costringendoci anzi a riconoscere che oggi è questo il filtro più efficace attraverso cui passare al setaccio la condizione umana. Che si tratti delle prove di un ballo di danza, oppure di una scimmia sottoposta a sperimentazione, Andersson non fa una piega. Nulla può né deve sorprenderci, perché tutte le estremizzazioni grottescamente riportate in A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence già esistono in potenza nel quotidiano di ciascuno di noi. Che i toni siano sovente sarcastici nella maniera in cui solo certa cultura nordica (specie scandinava) sa essere, è affare contingente. Quando in una delle scene appare un girarrosto gigante dentro il quale vengono cotte delle persone, presumibilmente schiave, mentre un gruppo di vecchi decrepiti ma facoltosi è intento a sorseggiare una coppa di champagne, ti accorgi che una scena del genere trascende non solo i confini ma addirittura qualsivoglia intento simbolista.
Nel film di Andersson c’è la vita per quello che è, o meglio, la realtà per come si presenta. Solo che, come avviene esclusivamente con la vera Arte, va colta tra le pieghe o le righe di un’opera che mastica ciò che ci circonda sublimandolo; per poi riconsegnarcelo differente nella forma ma integro nei contenuti. Anzi, osiamo di più: solo l’artista è in grado di leggere la realtà, poiché senza il suo intervento ne verremmo travolti, anche a nostra insaputa. Non a caso i personaggi che sfilano in questo paradossale teatrino risultano in totale balia delle circostanze, come alienati. Una fiera dell’assurdo che dà vertiginosamente su un baratro, mentre ciascuno di loro guarda dall’altra parte, come ci ricorda metaforicamente il tizio che va ripetendo di fare silenzio perché «domani la gente si alza presto».
Il ritmo placido rende ancora più angosciante un processo che invece sembra viaggiare alla velocità della luce, tanto da potersi permettere di prendersi gioco pure del tempo, sovrapponendolo o mescolandolo. Andando oltre persino alle categorie interne al mezzo, dato che A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence è una black-comedy nella misura in cui situazioni che puzzano di morto ci fanno ridere (e di gusto anche) anziché il contrario. Ma Andersson sa che la vita nei generi sta stretta, ed allora il suo film non è un film su qualcosa secondo i canoni di qualcos’altro. La vita è morte, malattia, lavoro, così com’è amore, gioia o divertimento. Mettere in ombra anche solo uno di questi aspetti comporta una mancata autenticità che è la stessa che ha reso il mondo uno sconfinato cimitero a cielo aperto. Nonostante tutto, però, per l’intero il film non si avverte nemmeno un accenno di gravità. Non ci credete? Beh, se solo sapeste a cosa pensa quel «piccione seduto su un ramo»…
Voto di Antonio: 10
Voto di Gabriele: 8
A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (En duva satt på en gren och funderade på tillvaron, Svezia, 2014) di Roy Andersson. Con Holger Andersson e Nisse Vestblom.