Good Kill: Recensione in Anteprima del film di Andrew Niccol
La guerra coi droni per Andrew Niccol è un misto di ansia e riprovazione. Ottimi gli spunti, meno lo svolgimento in Good Kill, che chiude di fatto la Mostra quanto ai film in Concorso
La guerra è cambiata. Non solo quella di trincea. Grazie agli enormi progressi in campo tecnologico, come alcuni avevano previsto con almeno decenni di anticipo, anche la “guerra dall’alto” la si può tranquillamente combattere da casa – o da una base militare, che è la stessa cosa. Andrew Niccol si conferma un cineasta dall’ottimo intuito quando si tratta di scegliere un soggetto; se non altro uno che ha a cuore l’evoluzione in ambito scientifico-tecnologico, purché in relazione all’impatto che ha sull’uomo.
Stavolta opta per una tematica se non tabù quantomeno sensibile, ovvero i droni, quei dispositivi volanti che non appartengono più ad un incerto futuro bensì al presente. La vicenda prende piede nel 2010, snodandosi tra una base americana vicino Las Vegas e l’Afghanistan. Il maggiore Thomas Egan (Ethan Hawke) è un pilota dell’aeronautica assegnato ad un’unità che si occupa di monitorare alcuni bersagli considerati “prioritari” nell’ambito dell’interminabile lotta al terrorismo.
La procedura è questa: un gruppo di cinque persone riceve degli obiettivi che arrivano direttamente dalle alte sfere. Uno, gerarchicamente superiore, coordina le operazioni, due di questi si occupano invece di pilotare un drone che, dopo aver sorvolato la zona ed identificato il bersaglio, sgancia la bomba. A parte pilotare in concreto, il discorso è abbastanza semplice. Ciò che rende alienante l’intero processo è il fatto che la sera, dopo avere magari “eliminato” più obiettivi, gli esecutori tornano dalle loro famiglie come se niente fosse. L’Egan di Good Kill si trova già in uno stadio avanzato di quella inquietudine che lo rode da tempo: d’altronde passare dalla manopola di un F-16 ad un banale joystick rappresenta un passaggio alienante. Come tutto lo è nelle mansioni alle quali oramai è costretto.
La guerra come un videogioco è una provocazione che non è stato certo Niccol a lanciare per primo. Tuttavia di riferimenti a questa “teoria” ci sono, e neanche così sottili: si parla di lag, dispositivi concepiti basandosi su Xbox et similia. L’idea che gli USA, o chi per loro, possano condurre una guerra comodamente da casa è agghiacciante ed il regista neozelandese cerca di dimostrare proprio questo. Le prime magagne emergono allorché dal generale sposta l’attenzione sul particolare; Niccol non è evidentemente versato nella regia quanto lo è nella sceneggiatura, e le fasi in cui Egan e la moglie (January Jones) battibeccano a più riprese lasciano sinceramente interdetti: come se recitassero con in mano un copione, si tratta di scene qualitativamente troppo standard, quindi tutt’altro che interessanti. Eppure servirebbe un po’ di pathos in questi frangenti, perché il tormento interiore del maggiore passa principalmente da quanto avviene tra le mura di casa, specie con la moglie.
Finché non si ritorna alla base e parte un’altra sessione di uccisioni, magari sotto il comando ancora più diretto di alcuni politici, che ad un certo punto vengono messi in vivavoce scavalcando addirittura l’immediato superiore di Egan. Specie in questa parte emerge tutto un discorso che va addirittura oltre la guerra a distanza: Egan ed i suoi colleghi sono tenuti sotto stretta osservazione, diretti, ogni loro minimo movimento monitorato. A loro tocca solo premere un grilletto a comando; solo che tale pressione è ciò che separa la vita dalla morte, creando un abisso tra il prima e il dopo l’aver premuto quel maledetto tasto.
L’azione in queste fasi non è diretta in maniera impeccabile, nondimeno il messaggio filtra eccome, perché a suo modo Niccol è un maestro in questo genere di cose, evitando sempre e comunque qualsivoglia tecnicismo: la spia del vivavoce accesa è il massimo piacere geek che ci si concede, il che è tutto dire. Qui emerge il dramma, anche morale, di una storia che non ha nulla di moralistico, come sempre con Niccol. Sentirsi colpevoli di una guerra condotta in maniera così vigliacca incide sulla coscienza non solo dell’essere umano, costretto ad uccidere senza discernimento, ma anche del soldato, che ritiene tutto ciò contrario all’onore.
Alcuni storceranno infatti il naso dinanzi a questa sorta di velata celebrazione all’indirizzo di un militare, che è invece è ferocemente anti-militarista, più incline semmai ad una cavalleria d’altri tempi. Così come, se non di più, si resterà amareggiati come minimo da un finale invece sospettosamente familiarista; ché non è un difetto di per sé, se non fosse gestito con una fretta che sa troppo di approssimazione. Apprezzabile invece il ribaltamento di un certo romanticismo à la Top Gun, di cui questo film ne è il quasi perfetto contraltare – a circa trent’anni di distanza.
Peccato allora, perché Good Kill solleva dei quesiti decisamente attuali, e Niccol si dimostra ancora una volta sul pezzo (ai tempi di S1mone addirittura fu in qualche modo precursore). E più che tanti, tanto rilevanti sono i limiti di un progetto che si sperava più incisivo, anche alla luce dell’inaspettata ammissione in Concorso. Restano delle premesse urgenti, cui segue una realizzazione claudicante. E da Niccol stavolta si sperava in tutt’altro segnale.
Voto di Antonio: 5
Voto di Federico: 4,5
Good Kill (USA, 2014) di Andrew Niccol. Con January Jones, Ethan Hawke, Zoe Kravitz, Jake Abel ed Bruce Greenwood.