Posh: Recensione in Anteprima
Da uno spettacolo teatrale di Laura Wade, Posh in versione cinematografica diventa un didascalico progetto pseudo-adolescenziale che muove da premesse da commedia per imbastire un discorso ben diverso
Oxford, istituzione britannica con una storia secolare. Luogo privilegiato di ricchi e facoltosi personaggi che affollano quel rinomato sottobosco da generazioni. È un po’ questo l’attacco di Posh, che parte come una commedia in fondo leggera, prendendo di mira uno dei fenomeni più quintessenzialmente legati al contesto accademico, ovvero quello delle confraternite.
Gli autori si precipitano a segnalare che di quel mondo, tra goliardia e tradizione, sanno poco o nulla: «Non trovi facilmente persone disposte a parlare apertamente di qualcosa, specie quando sanno che stai facendo una ricerca per scrivere uno spettacolo per quel qualcosa», dichiara Laura Wade, scrittrice dell’opera teatrale, che non ha mai frequentato né Oxford né Cambridge, «ma la cosa mi ha addirittura resa libera, avevo così la possibilità di mettere insieme la storia come la vedevo io».
Ma passiamo al film, che è quello che c’interessa. Il Riot Club è una confraternita storica, fondata addirittura nel 1776. Le prime battute di Posh c’introducono in questo particolare mondo dal clima ovattato, la cui pesante tradizione si avverte anche a distanza. Miles è un po’ l’alieno di turno, giunto ad Oxford presumibilmente per meriti, visto che non vanta parenti che hanno varcato quelle porte prima di lui. Personaggio chiave, se vogliamo, perché essenzialmente di congiuntura tra noi che assistiamo al film e gli altri protagonisti, tutti ricchi, viziati e sopra le righe.
Bastano cinque minuti per capire tra chi si consumerà la vera sfida, da quale incontro/scontro si ricaverà il senso di quest’opera, che un messaggio da veicolare ce l’ha ed è anche piuttosto ingombrante. Ma ogni cosa a suo tempo. Alistair è un ragazzo alquanto particolare, sulla cui figura grava l’onere della famiglia: il fratello è stato addirittura presidente del Riot Club. Nel film non si perde tempo, e già da subito viene imbastito un discorso che verrà portato avanti, identico, dall’inizio alla fine.
L’intera prima parte altro non è che un lungo preambolo, un po’ stanco, in funzione del vero centro che è la cena che si svolge nella seconda metà. In questa prima fase conosciamo, molto superficialmente, gli altri comprimari, prendendo familiarità con l’ambiente lato svago oxfordiano. Come accennato, una partenza lenta, che soprattutto alla luce dell’epilogo appare ancora più inconsistente. Finché non si arriva al punto che s’intende raccontare: ogni anno la confraternita inaugura la stagione accademica con una cena. Il Riot Club, però, tramanda un peculiare vezzo, che è quello di devastare il locale in cui è avviene il ritrovo per poi coprire interamente la spesa per i danni. Un atto goliardico, da ragazzini benestanti insomma.
Evitando di entrare in dettaglio, è qui che Posh esce allo scoperto, ossia quando il discorso, da leggero qual è, si sposta sul sociale. Non che avessimo prurito ad ascoltare certe disamine, ma la piega del film lascia alquanto perplessi nel momento in cui, quasi repentinamente, ciascuno dei ragazzi getta la maschera e si mostra per quel che è: borioso, arrogante, quasi inumano. E dire che la Wade prepara “a dovere” lo scoppio, seguendo per un po’, a partire da qualche scena precedente, il ristoratore e la figlia, due ottime persone, gran lavoratori nonché totalmente ignare del ciclone che sta per abbattersi sulle loro teste.
Ti rendi conto allora che tutto ciò che ha preceduto quelle sequenze è stato tutt’al più un panegirico, nemmeno troppo articolato, in vista dei sentenziosi eccessi di cui alla seconda parte. Tanto valeva dirlo subito che si trattava di dare addosso ai ricchi in quanto tali, un discorso talmente stantio da risultare anacronistico. La cena più e più volte menzionata diviene dunque la fiera della cattiveria, in cui vengono escogitate le misure più malevole, dunque banali, per dimostrare che questi figli di papà sono dei pessimi soggetti. E lo sono in quanto abbienti, per l’appunto.
Alistair a un certo punto prende la parola, ergendosi sui suoi compagni e producendosi in un’apologia della classe alla quale appartiene quale motore del mondo; ed è tutto un «noi che il mondo ve l’abbiamo dato in prestito», «ci siamo scusati per troppo tempo», oltre all’immancabile teoria della ricchezza quale marchio predestinante, deriva squisitamente anglosassone di rapportarsi al concetto di Grazia. Discorsi che hanno un loro fondamento, ma che in tale contesto ci vengono sbattuti con una foga oseremmo dire “liberatoria”, quasi che l’autore non aspettasse altro che inveire verso la tanto vituperata categoria.
Il discorso sviluppato dalla Wade sul grande schermo appare dunque l’ennesima operazione furba, sospettosamente ruffiana non solo nei contenuti; l’idea di mettere su un cast di soli ragazzi, tutti avvenenti, denota l’ulteriore interesse a coinvolgere un pubblico che forse – almeno nelle idee della produzione – certe argomentazioni le conosce poco, o meno dei ben più smaliziati “adulti”. Anche se in fondo la logica del povero buono/ricco cattivo è un evergreen da sempre; non per questo però ha acquisito punti col tempo, restando un imprudente assunto ora come allora. In più, volente o nolente, costringe chi del film ne parla a scendere sull’accidentato campo della morale, non fosse altro per mettere in guardia il potenziale spettatore riguardo a ciò che gli verrà proposto in sede di proiezione.
A questo punto sarebbe stato più sensato andare fino in fondo all’operazione, spingendo più sulla propensione alla commedia di questa vicenda, guardandosi bene dallo spingere troppo sulla svolta che poco sopra abbiamo definito ingombrante, ma che in questa fase ci tocca segnalare anche come centrale. Visto e considerato peraltro che, pur non brillando, la prima parte di Posh poteva essere senz’altro impreziosita da un clima ancora più goliardico, scanzonato. Ed invece il già incerto svolgimento si sgretola allorquando arrivano le divisioni, nette ed inequivocabili, come quando andavamo a scuola e la maestra insigniva l’alunno di turno a scrivere su un lato della lavagna i buoni, mentre sull’altro i cattivi. Pregi e virtù della didattica, che non a caso vorrebbe un po’ tutti più didascalici. Così è questo film; nell’accezione meno nobile del termine, s’intende.
Voto di Antonio: 4
Voto di Federico: 4½
Posh (The Riot Club, Regno Unito, 2014) di Lone Scherfig. Con Max Irons, Sam Claflin, Douglas Booth, Holliday Grainger, Freddie Fox, Natalie Dormer, Jessica Brown Findlay, Ben Schnetzer, Amanda Fairbank-Hynes, Jack Farthing, Sam Reid, Olly Alexander, Matthew Beard, Joey Batey, Tony Way, Michael Jibson, Xavier Atkins e Amber Anderson. Nelle nostre sale da giovedì 25 settembre.