Interstellar: Recensione in Anteprima del film di Christopher Nolan
In Interstellar il solito Christopher Nolan ci conduce lungo l’insolito viaggio attraverso le galassie, alla scoperta del vero mistero dell’esistenza
Ora siamo qui per i ricordi dei nostri figli.
1997. L’allora ventisettenne Christopher Nolan dirige un breve cortometraggio, questo. Sullo scadere dei tre minuti, Doodlebug mostra il protagonista che osserva sé stesso mentre si autodistrugge. Per capire a cosa ci riferiamo, dategli un’occhiata. Prendendo per buono che abbiate già provveduto, passiamo oltre. Diciassette anni dopo quel ragazzo londinese non ha più bisogno di fare fondo al proprio salario per pagarsi i suoi lavori, eppure, in qualche stranissimo modo, Interstellar c’era già all’epoca. E proprio in quel finale, che è un affacciarsi sul suo finale.
Un film che conferma il cinema di Nolan, le sue peculiarità, i suoi “limiti”, con la solita, ammaliante chiarezza. Intimo, come solo le sue opere sanno esserlo, perché in fondo il regista de Il cavaliere oscuro a ‘sto giro non fa altro che spostare il ditino che indica il cielo e portarselo all’altezza del petto: non tra le stelle bensì nel cuore dell’uomo, di ciascun uomo, si cela il vero mistero di ogni cosa.
Frasi che ci riportano a Sant’Agostino, giusto per dire quanto trasversale, anche stavolta, riesce ad essere il più astuto e consapevole cineasta della sua generazione. Uno legge che per scrivere la sceneggiatura di Interstellar ci sono voluti corsi intensivi di Fisica teorica, nonché l’ausilio di un esperto del settore, quel Kip Thorne che è anche uno dei produttori esecutivi, e s’immagina chissà cosa. Ma questo non è certo un film per chi è abituato a vederli con righello, calcolatrice e compasso in mano. Anzi, costoro sono i primi che dovrebbero tenersi alla larga da Interstellar.
La Terra versa in condizioni disastrose, e l’unica possibilità è quella di trovare un pianeta le cui condizioni siano altrettanto favorevoli alla vita dell’uomo, così da potervi trasferire l’intera umanità. Un’umanità per cui le risorse vanno sempre più scarseggiando, ed allora la NASA, o quel che ne è rimasto, escogita un piano che prevede un’esplorazione interstellare alla ricerca di un luogo adatto a diventare la nuova casa dell’uomo. L’idea si palesa a seguito dell’improvvisa comparsa di un wormhole, un buco nero, che permetterebbe di raggiungere altre galassie altrimenti irraggiungibili.
Per la missione viene scelto un ex-pilota di astronavi, Cooper (Matthew McConaughey), reimpiegatosi nel settore agricolo perché oramai di figure come la sua non c’è più bisogno. Solo attraversando quel misterioso buco a forma di sfera nello spazio si possono avere le risposte che l’uomo sta cercando, ma di cui ha soprattutto un disperato bisogno. Nondimeno, questa non è che una parte di Interstellar.
Perché di fianco a questa spedizione concepita per salvare l’umanità c’è la vicenda personale di Cooper e di sua figlia Murph, nonché di una promessa: quella di ritornare a casa. Perciò un film fortemente incentrato sui sentimenti, ma in maniera oltremodo intelligente. Nel tentativo di sondare l’infinito che sta fuori, Nolan s’industria con non meno impegno nel manifestare la sua meraviglia per ciò che ogni persona porta dentro. È su questo doppio binario che procede Interstellar, senza venire mai meno, fino a quegli immancabili trenta minuti (o giù di lì) finali, il cui picco emotivo registra un’assurda impennata, fino all’ultima inquadratura. Solo allora, infatti, dopo aver spremuto persino l’ultimo dei suoi quadri, lo schermo diventa nero e appare la scritta “Directed by Christopher Nolan”. Non prima.
Perché sia chiaro, Nolan è uno di quei registi che se gli si presenta l’opportunità di suscitare la più piccola delle emozioni, fosse pure un minuscolo brandello, non ci pensa due volte a sacrificare qualsivoglia “coerenza” o “credibilità” interna alla narrazione; da qui scorciatoie, presunti buchi di scrittura, che espongono le sue sceneggiature alle ire di molti. Ma per quanto ci riguarda si tratta di soppesare il solito costo/beneficio: ciò che s’intende ottenere ha un valore maggiore rispetto a quello a cui si rinuncia? Anche stavolta la risposta è un sonoro sì. Non si tratta del più classico dei «basta chiudere un occhio». Sfidiamo chiunque a trovare in circolazione un cineasta che a quei livelli, con quel budget, quelle pressioni e tutto ciò che ne consegue, riesce a sfornarti un film così personale e al tempo stesso stratificato, potente, per lo più nei tempi di lavorazione ristretti di un polpettone hollywoodiano.
Nolan manifesta ancora una volta una fiducia totale nelle sue storie, alle quali si consegna senza riserve, perché sa che, al netto di tutte le critiche (alcune delle quali persino fondate) che riceverà, la sua storia avrà ragione. E così è infatti, anche con Interstellar. A questo viene integrato un occhio la cui ispirazione è tanto più inusuale quanto efficace, con certe panoramiche che lasciano tramortiti. Ma in generale è l’armonia del tutto che è più della somma delle sue parti, per cui isolare una sola componente appare fuorviante. Nuovamente salteranno fuori quelli che «Hans Zimmer non se ne può più», quelli che «ha fatto di meglio», così come quegli altri che «tanto rumore per nulla».
Ed invece la dote encomiabile di Nolan è quella di riuscire a filtrare emozioni, sentimenti e quant’altro di analogo accostando a ragionamenti complessi frasi semplici, scene tutt’altro che elaborate, specie quando si arriva al punto di dover toccare i tasti giusti. Non a caso Interstellar è sorprendentemente semplice per una storia così complessa, ma è al tempo stesso un film sorprendentemente complesso per delle dinamiche relazionali così semplici. Tale abilità di tenere a bada una narrazione che potrebbe partire per la tangente e perdersi da un momento all’altro non può che essere espressione di una padronanza di linguaggio e di una conoscenza dei fini che non si prestano ad ambiguità. Perché Nolan sa esattamente ciò che vuole ottenere, e sa altrettanto bene come arrivare ad ottenerlo.
Relatività, quinta dimensione e speculazioni analoghe altro non sono che filosofia più che scienza, perciò a noi non resta che registrarle come ipotesi e nulla più, accontentandoci di comprendere fin dove possiamo. Ma il bello è che tra una stretta al cuore e l’altra, Interstellar ti obbliga a ragionare, a chiederti, fuor di dissertazioni accademiche, in che misura tutto ciò che vediamo ci riguarda. Per spiegare che la risposta va oltre lo spazio ed il tempo, consumandosi in quell’atto d’amore di cui la dimensione spaziotemporale non ci dice né può dirci nulla. Le emozioni sono “più” del tempo che ci imprigiona, sebbene non si afferri bene in che senso: avvicinarsi ad un valore che sostituisca quel “più” ci porta a cogliere il significato del film. O quantomeno la sua portata.
Non fatevi perciò incastrare da chi vi mostrerà calcoli e tabelle per dimostrare una presunta inconsistenza scientifica; né fatevi mettere sotto da chi della coerenza ne ha fatto un idolo, al cui obolo va sacrificato tutto fuorché l’unica cosa che andrebbe sacrificata davvero, ossia la coerenza stessa. Perché questo rocambolesco viaggio attraverso le galassie ha uno scopo ben preciso, ed evidentemente nel XXI secolo serve uno scorcio mozzafiato di Saturno per dar ragione a quel proverbio tedesco, che sulla falsa riga del latino Orazio, recita: «Il viaggiare cambia le stelle, ma né la testa né il cervello». E talvolta c’è più in una stanza che nell’infinito che ci sovrasta.
Voto di Antonio: 8
Voto di Federico: 9
Voto di Gabriele: 8
Interstellar (USA, 2014) di Christopher Nolan. Con Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Michael Caine, John Lithgow, Ellen Burstyn, Casey Affleck, Wes Bentley, Mackenzie Foy, David Oyelowo, Topher Grace, Bill Irwin, Elyes Gabel, Timothee Chalamet, David Gyasi e Liam Dickinson. Nelle nostre sale da domani, giovedì 6 novembre.