Torino 2014, sabato 29 novembre: previsioni e toto-premi, si chiude con Wild
Torino Film Festival 2014: chiuso il concorso, è tempo di toto-premi. Chi vincerà la 32a edizione della rassegna torinese? Cineblog prova a indovinare e sceglie i suoi preferiti del concorso. E vi propone un commento a caldo sul film di chiusura, Wild.
Ci siamo. Giunge oggi a conclusione il 32. Torino Film Festival. Prime impressioni a caldo sul concorso, prima di andarlo a valutare domani un po’ più a freddo: è stato un bel concorso, molto eterogeneo. Con un bel po’ di punte o almeno film davvero stimolanti, e altrettanti film dimenticabili o discutibili. Chi dice il contrario dovrebbe porsi qualche domandina.
Personalmente vado matto per una triade di opere che mi sono sembrate folgoranti: l’ungherese For Some Inexplicable Reason, ritratto onesto, gentilissimo, inventivo e sentito di un bamboccione quasi-trentenne in stallo; il belga Violet, messa in scena potente e silenziosa dell’elaborazione del lutto; l’inglese The Duke of Burgundy, raffinatissima riflessione sul desiderio e sull’amore con coppia serva-padrona.
Vincesse uno di questi io stapperei lo spumante. Aggiungo a questi due film di genere che difendo con unghie e denti: l’horror austrialiano The Babadook e il mockumentary neozelandese sui vampiri What We Do in the Shadows. Credo però, provando a immaginare i gusti del Presidente di giuria Ferzan Ozpetek, che potrebbe spuntarla il canadese Félix et Meira, mèlo trattenuto con differenze di religione.
Difficile che la pattuglia italiana esca a mani vuote, con un Presidente di giuria nostrano: ma tra N-Capace e Frastuono potrebbe spuntarla solo il primo. Non credo vincerà mai come miglior film, ma un Premio della giuria non è da escludere. Anche se, dal momento che ho visto Violet, mi è sembrato il film perfetto per quel premio: troppo radicale per essere premiato come miglior film, perfetto per un riconoscimento da “secondo posto” per segnalarlo.
Poi sono pronto a tutto. L’altr’anno c’ho azzeccato parecchio, ma questo giro la battaglia mi sembra piuttosto aperta, e quindi potremmo avere parecchie sorprese. La Francia tornerà a casa senza premio? Chissà: forse Mange Tes Morts colpirà la giuria con il suo stile tra documentario e cinema di genere. Dubito poi che l’unico americano in competizione possa vincere qualcosa, ma non escludo affatto che Harry Lloyd possa vincere. Io ne sarei felici.
Di seguito i miei vincitori e quelli che penso che vinceranno:
I miei vincitori
Miglior film: For Some Inexplicable Reason
Premio speciale della Giuria: Violet
Premio per la Miglior Attrice: Sidse Babett Knudsen e Chiara D’Anna – The Duke of Burgundy
Premio per il Miglior Attore: Harry Lloyd – Big Significant Things
N.B.: non compaiono qui sopra due film che mi sono piaciuti molto, The Babadook e What We Do in the Shadows. Se dovessero essere premiati sarò contento.
N.B. 2: For Some Inexplicable Reason, Violet e The Duke of Burgundy sono in realtà un ex-aequo per il miglior film. Se devo proprio andare a cuore, vado con l’ungherese.
Chi vincerà
Miglior film: Félix et Meira
Premio speciale della Giuria: Violet
Premio per la Miglior Attrice: Essie Davis – The Babadook
Premio per il Miglior Attore: Gábor Reisz – For Some Inexplicable Reason
Ieri ho potuto vedere il giapponese Pale Moon di Daihachi Yoshida, storia un po’ schematica e tirata via tra mèlo e dramma fra banche e tanti giri di soldi, e soprattutto il film di chiusura, Wild. Premessa: chi scrive ha avuto una folgorazione nel 2005 con C.R.A.Z.Y.. Poi mi sono disinnamorato di Jean-Marc Vallée piuttosto in fretta: Café de Flore mi è sembrato vittima del suo meccanismo narrativo, e Dallas Buyers Club un semplicissimo veicolo per premi per i due protagonisti, senza utilità alcuna.
Wild narra la storia vera di Cheryl Strayed, che dopo anni in cui ha perso sé stessa a causa di dolori e scelte sbagliate decide di intraprendere il Pacific Crest Trail, il sentiero che va dal confine con il Messico a quello con il Canada. Si tratta del “solito” viaggio fisico e mentale che ci si attende da un’opera del genere. Con tutti i luoghi comuni del caso: il rapporto con la madre, le dipendenze, la droga, il sesso.
Tutto vero, per carità. Eppure Wild non riesce a non coinvolgermi e, a tratti, toccarmi davvero. Questa volta il montaggio emotivo di Vallée, che finalmente torna a osare qualcosina nella forma, credo non solo che abbia senso, ma sia persino spesso emozionante. Mi pare l’unico modo per dare un senso alla storia “oltre” e comunque troppo piena di cliché (almeno per il cinema) di Cheryl. Non è che così ogni cosa sia sistemata e vada al proprio posto, ma io ci vedo una volontà di non spingere mai il pedale sulla faciloneria, sulla retorica o sul piagnisteo. Nonostante tutto.
L’intento principale del regista, invece, mi sembra innanzitutto quello di descrivere un personaggio a tutto tondo. Secondo me ci riesce, e lo spettatore si ritrova davvero a viaggiare assieme a Cheryl (interpreta da una bravissima Reese Witherspoon). Il film cade e si rialza continuamente con lei, personaggio femminile che non nega del tutto il suo passato (che probabilmente l’ha portata lì dov’è ora) e che, rivoluzione!, non disdegna il sesso occasionale. Se devo scegliere fra Dallas Buyers Club e Wild io non ho dubbi. Tra poche ore la recensione.
E così si il nostro diario giornaliero dal festival si chiude qui, in attesa dell’annuncio dei premi principali. Stay tuned.
28 novembre: Dario Argento presenta la versione restaurata di Profondo Rosso, mentre si chiude il concorso
Era il 1975 quando arrivava nelle sale Profondo Rosso, film spartiacque nella carriera di Dario Argento. A metà tra il thriller della “trilogia degli animali” e l’horror puro di Suspiria, il film rappresenta ancora oggi una tappa fondamentale nella cinematografia italiana da una parte, e di puro genere senza distinzione di nazionalità dall’altra.
Girato in gran parte a Torino (se siete qui al TFF fatevi un giro in Piazza C.L.N., con la Fontana del Po: è vicino al Reposi), Profondo Rosso verrà oggi presentato nella sua versione restaurata dallo stesso Dario Argento alle 22.30 al Massimo 1. Uno degli eventi più attesi dell’intera rassegna, e non solo perché si festeggiano i 40 anni che il film compirà l’anno prossimo, ma anche perché vedere il film su grande schermo resta un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.
Si chiude oggi il concorso ufficiale. Passano in rassegna gli ultimi due titoli: il francese Mercuriales di Virgil Vernier, che recupererò proprio oggi (l’ho saltato per accaparrarmi uno dei biglietti obbligatori per partecipare alla proiezione di Profondo Rosso di stasera), e il neozelandese What We Do in the Shadows di Jemaine Clement e Taika Waititi.
Due righe su quest’ultimo prima della nostra recensione in anteprima. Si tratta dell’ormai celebre mockumentary sui vampiri, ed è proprio quello che vi aspettate. Ma non è solo divertentissimo: ha addirittura una confezione impeccabile, con tanto di effetti speciali inaspettati ed efficacissimi. Le chicche non si contano. Andrà a premio? Non pensiamo, ma non dovete perdervelo.
Qualche commento sui quattro film di Festa Mobile che ho visto ieri. Comincio subito con A Second Chance, il film diretto da Susanne Bier: che ritengo una cosa immonda. Ridicola storiaccia con scambi di neonati e via dicendo, è pure girata con la manona pesante da una Bier completamente sfrontata e sfacciata. In più, alcune inquadrature (ad esempio i neonati ridotti in condizioni atroci, o persino morti e in putrefazione) sono al limite del pornografico.
20,000 Days on Earth di Ian Forsyth e Jane Pollard è invece il docu-film su Nick Cave che ne descrive appunto il suo ventimillesimo giorno di vita. La patinata ma bellissima confezione e la sceneggiatura da fiction fanno sì che forse escano più verità che non se si fosse realizzato un semplice documentario. Per me si tratta di una specie di film-gemello di Holy Motors, e non solo per la ovvia presenza di Kylie Minogue. Un vero regalo per i fan del musicista.
Infinitely Polar Bear di Maya Forbes ha portato giù il Massimo 1 dagli applausi. Lo amano tutti. Storia personale della regista, che fa interpretare una delle due figlie del bipolare Mark Ruffalo proprio alla sua stessa figlia, è un prodotto molto indie e lineare. Il pubblico lo amerà, ma a me sembra trascurabilissimo: ha un’atmosfera molto familiare, da film che avremmo visto nell’annata 2006/07. L’anno prossimo non se ne parlerà già più.
Infine c’è The Drop, il film tratto da Dennis Lehane, che ne ha curato anche la sceneggiatura, e diretto dal Michaël R. Roskam di Bullhead. Da quel film, nominato agli Oscar 2012, recupera Matthias Schoenaerts e lo affianca a James Gandolfini (alla sua ultima apparizione sul grande schermo) e soprattutto a un inedito Tom Hardy, davvero in una parte che non gli abbiamo mai visto fare. Seriamente: non lo abbiamo mai visto dare attenzioni ed istruire un cucciolo di Pit bull!
Storia di traffico di soldi illegali e di bar in un quartiere di Brooklyn dimenticato da tutti, e in cui nessuno sa nulla di nulla, è un film piuttosto riuscito. Non per la trama (che non è nulla di che) o per la regia (senza infamia né lode), ma perché lavora bene sui personaggi e sul senso del luogo. Uscirà in Italia a marzo con il nome Chi è senza colpa, titolo giustificato solo dal fatto che Lehane ha tratto a posteriori un romanzo dalla sua stessa sceneggiatura che uscirà in libreria con questo titolo.
A domani con l’ultimo aggiornamento di questo diario, con pronostici e i miei premi personali!
27 novembre: For Some Inexpicable Reason si candida a un premio, P’tit Quinquin fa faville
Pensate a un True Detective completamente strafatto ambientato in un corrispettivo di Twin Peaks in Francia. Se ci aggiungete un pizzico di Pantera Rosa potete avvicinarvi all’idea di quello che è P’tit Quinquin, la mini-serie tv che Bruno Dumont ha diretto per Arte, e presentata in prima mondiale alla Quinzaine di Cannes 2014.
Quattro episodi da 50 minuti l’uno (assieme fanno 200′ nella versione per il cinema, vista qui al TFF) che rovesciano con un colpo d’ala inaspettato tutto il cinema di questo regista austero e spesso fin troppo spirituale. Anche se il cinema del regista c’è tutto, facce deformate e campagne comprese: solo che questo giro Dumont inietta nel suo cinema una dose da cavallo di comicità.
Il risultato? Una roba che forse si può definire capolavoro. In P’tit Quinquin si ha l’impressione di star guardando per davvero il lato grottesco della vita e, soprattutto, del Male. Quel Male che in fondo Dumont ha sempre messo in scena e che qui viene tirato in ballo dagli stessi personaggi nei loro discorsi, spesso oltre l’assurdo.
Si ride senza pausa almeno in una decina di scene, compreso il funerale più esilarante della Storia del cinema. Ed è un’idea geniale l’aver mantenuto alcune scene con gli attori che se la ridono senza potersi trattenere, o che persino sbagliano una battuta e ricominciano. Poi c’è la parte finale, che forse recupera davvero la “spiritualità” demoniaca del cinema di Dumont. Il Diavolo è sempre fra noi.
Il concorso arriva oggi a quota 13 film su 15 con Frastuono di Davide Maldi e For Some Inexpicable Reason di Gábor Reisz. Il secondo film italiano in concorso è purtroppo una cocente delusione. Si tratta di un’incursione nella storia di due giovani di Pistoia e nel loro rapporto con la musica (e col mondo), sognando Berlino. Parte benissimo, ma poi si sfilaccia in tre secondi con un discutibile agglomerato di frammenti.
Il film ungherese è invece una vera e propria chicca, e punta dritto ad un premio, forse addirittura a quello per il miglior film. Così si fa una commedia sullo “smarrimento” di un quasi trentenne: onesto, intelligente e a tratti davvero esilarante. Sarà stato fatto con due lire di budget, ma funziona sempre; e in modo inventivo sopperisce a qualche carenza tecnica. I titoli di coda sono un meraviglioso omaggio a tutti quelli che ci hanno lavorato. Mi scalda il cuore che esista un film così.
Chiudo velocemente con due film da cui mi aspettavo molto e che mi hanno francamente deluso. Il canadese The Editor di Adam Brooks e Matthew Kennedy è un omaggio-parodia con tutto (ribadisco: tutto!) l’armamentario di genere italiano anni 70. Puro gioco cinefilo di fan per fan. Io lo sono, ma riesco a prendere solo singole idee (alcune geniali) e singole scene (sempre clamorose): il risultato globale invece mi pare un po’ lungo e, visto che si ha l’impressione che i registi si ritengano un po’ i primi della classe, persino antipatico.
L’irlandese The Canal di Ivan Kavanagh è invece un film che parte dall’horror nipponico e lo contamina con molto altro. Pare quasi il contraltare “maschile” di The Babadook: che però è ben più personale e originale nel mescolare e usare le sue influenze. Qui è tutto già visto (c’è persino la creatura che esce da uno schermo…), e invece di venire coinvolti nella storia si pensa al film da cui quella determinata idea è stata rubata.
Finiamo citando i tre grandi appuntamenti di oggi della sezione Festa Mobile: The Drop, con Tom Hardy e James Gandolfini; Infinitely Polar Bear con Mark Ruffalo; 20.000 Days on Earth, il film a metà tra doc e fiction con Nick Cave.
26 novembre: maratona The Disappearence of Eleonor Rigby, arriva A Second Chance della Bier
La mattina di questa giornata al TFF sarà occupata per molti accreditati da una maratona “speciale”: quella di The Disappearence of Eleonor Rigby. Il film di Ned Benson, come forse saprete, ha una storia molto particolare alle spalle. Una prima versione del film fu presentata a Toronto 2013 semplicemente con il nome The Disappearence of Eleonor Rigby.
Si trattava di un work in progress della durata di 3 ore in cui la stessa storia veniva raccontata dai punti di vista di lui e di lei: due veri e propri film messi uno di fila all’altro, che sarebbero infatti diventati poi The Disappearence of Eleonor Rigby: Him (durata 89′) e The Disappearence of Eleonor Rigby: Her (durata 100′).
A Cannes 2014 è stato invece presentato nell’Un Certain Regard The Disappearence of Eleonor Rigby: Them, versione fortemente voluta da Harvey Weinstein in cui i due punti di vista si fondono per creare un punto di vista “oggettivo” e lineare. Oggi alle 9.00, al cinema Massimo, si parte con Him, per poi vedersi alle 11.00 Her.
Continua ovviamente il concorso, che dopo un paio di titoli notevoli si arresta un po’. Il francese Eat Your Bones, osannato dai Cahiers, è un film molto interessante e curioso ma a cui mancano un po’ di energia ed empatia. L’argentino Anuncian Sismos è un titolo che potrà pur far simpatia a qualcuno, ma è l’essenza del cinema amateur.
Abbiamo anche già visto in anteprima stampa altri due titoli del concorso (e siamo a quota 11 di 15). Prime impressioni veloci. Il canadese Felix et Meira di Maxime Giroux, con la Hadas Yaron de La sposa promessa, è un mèlo cauto e corretto in cui gli opposti si attraggono. Lei, sposata con un rabbino ortodosso, incontra lui, che vive alla giornata: ed è amore. Un paio di scene sono splendide, ma anche qui manca un po’ di vero coinvolgimento e pure un po’ di ritmo.
Giudizio veloce che si potrebbe applicare anche ad As You Were di Jiekai Liao. Siamo sull’isola di Saint John, separata da un braccio di mare da Singapore, che ospita un centro di rieducazione per giovani problematici. Uno di loro scappa e nella metropoli ritrova il suo vecchio amore. Si capiscono bene intenzioni e intuizioni, diluite in lente camminate e lunghe contemplazioni della natura.
Ultime considerazioni su qualche film visto nelle altre sezioni. De La Teoria del Tutto, il biopic su Stephen Hawking, ne ho già scritto nella mia recensione. Segnalo volentieri Stella Cadente di Lluís Miñarro, visto in After Hours. Si tratta di un atipico “biopic” su Amedeo d’Aosta, re di Spagna nel 1871, ruolo dal quale abdicò due anni dopo per “ingovernabilità” del paese.
Lo stile del film sta a metà strada fra Peter Greenaway e Albert Serra: inquadrature che funzionano come tableaux vivants, dettagli pruriginosi, senso di marcio tra oggetti costosi e dorati. Personalmente mi aspettavo anche meglio, ma Stella Cadente resta un film dalle intuizioni folgoranti: ad esempio le tartarughe con il guscio ricoperto di gioielli, l’Origine del mondo al maschile, e un uso improprio di un’anguria. E il re è persino circondato da assistente hunk (il nostro Lorenzo Balducci) e cameriere twink.
Ultima annotazione per Prima di andar via, film di 65 minuti diretto da Michele Placido, visto in Festa Mobile. Pochissime righe per descrivere questa versione cinematografica di uno spettacolo teatrale che tratta di suicidio: l’ho trovato di volgarità e superficialità cinematografiche totali (ma ancora stiamo a usare lo split screen in quel modo?). Nel trattare il tema del suicidio, poi, persino supponente e spicciolo. L’effetto doveva essere il contrario, ma pare roba da Pubblicità Progresso.
Oggi passano in rassegna tra gli altri anche A Second Chance, ritorno in patria di Susanne Bier (di cui si è visto da poco nelle sale il criticatissimo e travagliato Una folle passione), e The Rover di David Michôd con Guy Pearce e Robert Pattinson.
25 novembre: arrivano Eddie Redmayne e La Teoria del Tutto, concorso al giro di boa
C’è molta attesa per la proiezione di questa sera de La Teoria del Tutto (The Theory of Everything). Innanzitutto per ciò che racconta, ovvero la storia del celebre fisico, astrofisico e cosmologo Stephen Hawking. Poi perché è di James Marsch. E soprattutto perché alla proiezione sarà presente il bravissimo Eddie Redmayne, a cui verrà consegnato il Premio Maserati/Torino.
Torniamo alla giornata di ieri, che ha visto il concorso infiammarsi grazie a due tra i suoi migliori titoli: il raffinatissimo erotico The Duke of Burgundy e l’intenso horror femminile The Babadook. Abbiamo già visto altri due film del concorso, quelli che si vedranno oggi in proiezione ufficiale (presto le recensioni): il francese Eat Your Bones e l’argentino Anuncian Sismos. Il primo è interessante e incompiuto, il secondo terribile.
Vorrei soffermarmi su due film che meritano attenzione. Il primo è il caciarone The Guest, in After Hours, nuovo film di Adam Wingard. Che se con You’re Next non mi aveva convinto affatto, qui mi dà prova di essere uno che sa quel che vuole fare. Qualcuno ha storto il naso, ma non ne capisco il motivo: il suo film non solo è avvincente e giocoso, ma anche pieno di idee e, attenzione!, sicurissimo.
Qui si gioca coi generi che è un piacere. Si passa dal dramma alla commedia, dal film d’azione all’horror, ma lo si fa con una capacità di slittare tra uno e l’altro che personalmente mi è parsa ottima. Abbiamo poi trovato la colonna sonora dell’anno (e pure qui Drive ha fatto scuola). In sala erano tutti innamorati di Dan Stevens, che interpreta il protagonista prima amico e poi nemico di tutti, e Maika Monroe, già vista in It Follows.
Chiudo infine con The Mend, in Festa Mobile, anche questo un film indie americano, ma di tutt’altra pasta. Diretto da John Magary, qui alla sua opera prima, si tratta di una “commedia” newyorkese decisamente non sui generis. Due fratelli alle prese con i casini della vita sono costretti a condividere un appartamento: potrebbe finire in ogni modo, tra loro due…
Se si entra nel flusso di chiacchiere e nel loop tutto suo, ci si sta per bene: divertiti, perplessi, amareggiati. Josh Lucas e Stephen Plunkett sono i capitani di un cast fantastico a cui viene data una sceneggiatura dai dialoghi realistici. Provate a dargli un’occhiata: se passate indenni il primo segmento, quello della festa, vuol dire che siete dentro al film. Preparatevi a una parte finale a suo modo “estrema”.
24 novembre: Violet fischiato dal pubblico (ma è da premio), arriva The Babadook
Ricordo due anni fa quando, alla presenza del regista Tim Sutton (che poi avrebbe girato Memphis), il pubblico del TFF fischiò il film in concorso Pavilion. Era un piccolo film indie americano quasi senza trama, dalla durata di neanche 80 minuti. Chiaro: perché mai bisognerebbe pagare un biglietto per una roba del genere? Che fregatura! Che presa per i fondelli!
È successa la stessa cosa – ma senza regista, non prensente per un lutto in famiglia: almeno gli risparmiamo l’umiliazione – anche durante questa edizione, ieri, alla proiezione ufficiale del belga Violet. Che dura circa 80 minuti, ha una trama esilissima e uno svolgimento poco narrativo nella forma mainstream del termine. Che fregatura, pure qui!
Si tratta invece di un film che crede nella forza delle immagini e del suono, nel valore narrativo dell’inquadratura, e che non cede neanche al commento musicale. Si tratta di cinema che richiede pazienza, nessuno lo nega. Ma perché andare a un festival se non si è disposti a vedere cose come Violet? Sono 80 minuti in cui un po’ di pazienza la si può dare: se poi il film fa schifo si può lasciare la sala senza essere belve feroci. Tanto poi la proiezione successiva è Magic in the Moonlight, no?
Violet, per quel che mi riguarda, è da premio. Non avranno mai il coraggio di premiarlo come miglior film, pena una sommossa popolare di dimensioni colossali, ma un Premio speciale della Giuria ce lo vedo (lo vinse anche Pavilion, fra l’altro). Per carità, manca più di metà del concorso, ma vedo più possibilità di vittoria per l’ipnotico film di Bas Devos che, ad esempio, il buon poliziesco The Kings Surrender.
Oggi ad esempio se ne vedranno ben tre. Scende in campo il primo titolo italiano, N-Capace di Eleonora Danco, che ho già visto ed ha cose belle e altre che mi perplimono, ma è stato accolto bene: recensione in arrivo nelle prossime ore. Arrivano anche due tra i miei titoli più attesi: l’inglese The Duke of Burgundy di Peter Strickland e l’australiano The Babadook di Jennifer Kent. Finalmente un horror in concorso, quando lo volevamo!
Sarò veloce su uno dei film di Onde che ho visto ieri, La Sapienza di Eugène Green: se non è la vostra tazza di the statene alla larga (ma lo trovate per tre giorni in sala a partire da oggi). Lo stile di Green è come l’incrocio tra Manoel de Oliveira – nella messa in scena e nelle riflessioni – e Wes Anderson – nella recitazione anempatica -. Si ragiona sulla luce, sull’architettura, sul passato e sull’amore. Erano le 9 del mattino e l’ho guardato tutto con attenzione.
Spendo infine due parole su uno dei film che più mi sono piaciuti finora, e che ho avuto modo di recuperare solo ieri all’ultimissima replica: ’71 di Yann Dernange. Si tratta di un tesissimo survival (war) movie veramente fantastico, di quelli che coniugano il piacere puro dello spettacolo robusto con la riflessione sulla Storia (siamo a Belfast nel 1971: capirete il casino). È un’opera prima. C’è Jack O’Connell, meraviglioso come sempre. Non perdetelo per nulla al mondo.
23 novembre: è il giorno di Magic in the Moonlight di Woody Allen, commuove Stray Dog
Finalmente è arrivato il giorno che in moltissimi attendevano: tra poche ore il TFF proporrà l’anteprima italiana di Magic in the Moonlight, la nuova fatica di Woody Allen a un anno di distanza da quello che chi scrive ritiene il suo film più riuscito degli ultimi 10 anni, Blue Jasmine. Tra qualche ora potrete leggere la nostra recensione in anteprima: come sempre restate connessi.
Facciamo però un passo indietro. Vorrei spendere due-righe-due su Ogni maledetto Natale, la nuova commedia degli autori di Boris che ha già trovato molti consensi (anche qui su Cineblog). Nessuno ce l’avrà a male se in tutta onestà dirò che per me si tratta non solo di una sonora delusione, ma proprio di un bruttissimo film tout court.
Nel voler fare l’anti-cinepanettone, il trio Ciarrapico-Torre-Vendruscolo (validissimi sceneggiatori) casca in un tranello mica da poco: quello di voler usare gli stereotipi più comuni dell’Italia mediocre. Così dividono ricchi e poveri come in un cinepanettone qualunque, e in mezzo ci mettono una storia d’amore: come a dire che lo si può fare senza essere sdolcinati o scontati o banali o ecc.
Ma l’aria da primi della classe non aiuta, se il risultato è quello di una narrazione facilotta e facilissima come quella della trama a “specchio”: la cena del 24 dalla famiglia di lei, più povera e ignorante e grezza, e il pranzo del 25 da lui, che lavora nella ricchissima azienda di panettoni e dolci per il Natale gestita dal padre.
Entrambe le famiglie sono interpretate dagli stessi attori (quelli di Boris più qualche nome nuovo come Laura Morante). Non si sovverte nulla, non si preme il pedale su niente, ci si accontenta di qualche botta cinica nel mezzo di un mare di sketch all’acqua di rose che scimmiottano il cinema internazionale. Ma Ogni maledetto Natale è già pronto per la prima tv italiana.
Tutt’altro discorso con uno dei film più belli visti finora qui al TFF (appena fresco di visione stampa: la prima ci sarà oggi alle 19 al Massimo 1): Stray Dog, il nuovo lavoro di Debra Granik, la regista di Un gelido inverno che è anche nella giuria del concorso ufficiale capitanata da Ferzan Ozpetek.
Si tratta di un documentario su Ron Hall, chiamato dai suoi amici Stray Dog (“cane randagio”). Ron è un biker, ma è innanzitutto un veterano della guerra del Vietnam. La Granik ci fa entrare nella sua quotidianità con l’amatissima moglie e gli amici, e ci guida nei suoi viaggi in moto durante il Vietnam Memorial di anno in anno. Ricordi, dolori, incubi, amici, amore, e un possibile nuovo inizio.
La Granik ha un tocco leggero e semplice, non calca la mano sugli orrori della mente di Ron. Ci restituisce anzi il ritratto all’inizio decisamente commosso e straziante, poi dolcissimo, di un uomo a cui ci si affeziona in neanche due minuti. Un film gentile e meraviglioso che vale la pena seguire e godersi minuto dopo minuto.
Un film che ha diviso non poco i festival dove è stato presentato e anche qui a Torino sembra aver lasciato perplessi è The Better Angels, opera prima di A.J. Edwards, collaboratore di Terrence Malick (che produce). Si tratta della storia dell’infanzia di Abraham Lincoln nelle campagne dell’Indiana: qui dovrà affrontare la morte della madre, l’arrivo di un’amorevole matrigna, e la quotidianità della vita nella natura.
Le perplessità di molti stanno innanzitutto nello stile: è come se l’allievo copiando il maestro avesse diretto il “prequel di Lincoln” applicando a The Tree of Life il bianco e nero. C’è molto déjà vu in The Better Angels, non si può far finta di nulla: Natura e Grazia, il padre violento e la figura della madre amorevole, le riprese degli alberi, i movimenti di macchina…
Malick è ovunque. Meno nell’uso della voce over, qui con funzione e modalità diversa, e nella bellissima fotografia in bianco e nero. Però il film fa anche un po’ di fatica ad arrancare. Eppure adesso, a poche ore dalla visione, non riesco a cestinare facilmente il film. Perché comunque ci trovo dei tocchi sinceri e persino molto commoventi, soprattutto dopo l’arrivo della matrigna (Diane Kruger).
Concorso: dopo Gentlemen e Big Significant Things, è il turno di altri due film. Parliamo del belga “alla Gus Van Sant” Violet e del durissimo poliziesco tedesco The Kings Surrender. Tra le anteprime di rilievo invece segnaliamo il formidabile Whiplash, vincitore del Sundance, The Guest di Adam Wingard, e Butter on the Latch, opera prima della Decker.
22 novembre: esalta la Tokyo hip pop e folle di Sion Sono; comincia il concorso
Non è che il cinema di Sion Sono sia per tutti, evidentemente, e non solo per i fiumi di sangue a cui ci ha abituato. Non credo neanche che Tokyo Tribe piacerà per forza a tutti i suoi estimatori, e credo anche che alcuni fan incalliti esaltino le qualità del suo ultimo lavoro in modo pure esagerato.
Però Tokyo Tribe ha momenti che davvero esaltano: roba che va vista solo su grande schermo, altrimenti si perde la potenza dei beat in colonna sonora. Come un Why Don’t You Play in Hell? al quadrato, Tokyo Tribe gioca con tutto e tutti. Ma gli appassionati possono stare tranquilli: c’è una forte coerenza con la poetica del regista e con il suo percorso.
Invece: siete già andati a vedere Diplomacy – Una notte per salvare Parigi? Dopo la presentazione al TFF alla presenza di Volker Schlöndorff lo potete già trovare in sala. Si tratta di una potente e coinvolgente riflessione sulle responsabilità personali di fronte alla Storia. Non fatevi intimorire dalla matrice teatrale: dategli un’occhiata e non ve ne pentirete.
Ieri ho poi avuto modo di vedere un curioso film della sezione Festa Mobile, Eau Zoo. Si tratta del tipico debutto che si potrebbe vedere quasi solo al TFF (punto a favore del festival, ovviamente). Scritto e diretto dal belga Emilie Verhamme, parte da un’idea che poteva esserci benissimo in un film della new wave greca.
Esiste un’isola in cui gli adulti sono ossessionati da qualche ipotetica catastrofe imminente, vanno di baratto e impongono regole assurde ai figli. Due adolescenti provano a vivere la loro storia d’amore in questo contesto. Non che manchino le idee in quest’opera prima che ha un certo fascino: peccato che man mano che procede, il risultato va a parare su lidi piuttosto prevedibili alla Romeo e Giulietta.
Comincia ufficialmente oggi il concorso delle opere prime, seconde e massimo terze. Il primo titolo a scendere in campo è lo svedese Gentlemen di Mikael Marcimain, quello di Call Girl (spoiler: l’ho già visto e lo recensirò a brevissimo, ma non sono proprio convinto…). Il secondo è invece l’unico film americano in competizione, Big Significant Things di Bryan Reisberg.
Bulimia invece fra i titoli delle altre sezioni: da non perdere It Follows, l’horror capolavoro di David Robert Mitchell. E poi passano il war movie ’71, il bel film di Amalric La Chambre Bleue, il malizioso Thou Wast Mild and Lovely di Josephine Decker, la “biografia rurale” di The Better Angels prodotta da Malick, e anche Ogni maledetto Natale degli autori di Boris. E per noi ci sarà il recupero del film d’apertura, Gemma Bovery. Piatto ricco…
21 novembre: si parte con Gemma Bovery
Ieri c’è stata la preapertura con la performance e i corti di Josephine Decker, ma le danze si aprono ufficialmente oggi. Parte il 32. Torino Film Festival (qui i nostri consigli) con la proiezione di Gemma Bovery, presentato alle 21.30 al Lingotto. Diciamolo: tra i titoli in programma non è certo quello più “di richiamo”.
Però si tratterà di sicuro di un film che può accontentare un po’ tutti, critici esigenti e pubblico occasionale. Nuovo film diretto da Anne Fontaine, si tratta di una commedia eccentrica e amara ispirata all’omonima graphic novel del 1999 di Posy Simmonds, autrice di Tamara Drewe, da cui Stephen Frears ha tratto il suo film nel 2010.
Fabrice Luchini interpreta un uomo che vive in un villaggio della Normandia ed è appassionato di letteratura romantica ottocentesca. Quando arrivano i nuovi vicini di casa, l’uomo quasi non ci crede: di cognome fanno Bovary, come la Madame di Flaubert. E inizia così a fantasticare su Emma, interpretata da Gemma Arterton (già protagonista di Tamara Drewe, appunto).
Ma il Torino Film Festival inizia già di pomeriggio, sia per stampa con i primi film in concorso (il primo è lo svedese Gentlemen) che per pubblico. Tra i vari appuntamenti al cinema Massimo segnaliamo: Storm Children, Book 1, il nuovo doc di Lav Diaz (16.30, M2); Diplomacy (17.30, M1), in contemporanea con l’uscita in sala e alla presenza di Volker Schlöndorff; Tokyo Tribe, il nuovo Sion Sono (20.00, M1).
Tra gli appuntamenti della retrospettiva sulla New Hollywood non possiamo non notare un “duello” da brividi. I cinefili incalliti dovranno infatti decidere tra Il Fantasma del Palcoscenico di De Palma (22.30, M1) e La Conversazione di Coppola (22.00, M3). Domani invece comincia il concorso vero e proprio con, oltre al già citato Gentlemen, anche l’americano Big Significant Things.
Ma domani è anche il giorno di Ogni maledetto Natale, la nuova commedia degli autori di Boris, e di ’71, il film di guerra inglese che conferma Jack O’Connell come uno dei talenti più importanti della sua generazione. E poi si vedranno The Better Angels, prodotto da Malick, La Sapienza di Green, In Guerra di Davide Sibaldi, Thou Wast Mild and Lovely della Decker, La Chambre Bleue di Amalric… Insomma: che la bulimia da #TFF32 abbia inizio!
Cineblog seguirà il festival per voi con recensioni in anteprima e soprattutto con questo “diario” che aggiorneremo giorno dopo giorno: stay tuned!