Berlino 2015, venerdì 13 febbraio: applausi per Vergine Giurata, oggi si chiude il concorso e arriva Cenerentola
Festival di Berlino 2015: si chiude oggi il concorso con gli ultimi due titoli, che guardano entrambi a Oriente. E tra gli applausi all’unico film italiano in concorso, Vergine Giurata, e scoperte dell’ultima ora, ecco arrivare l’ultimo eventone della rassegna: la Cenerentola di Kenneth Branagh.
A cura di Gabriele Capolino
La 65. edizione del Festival di Berlino sta arrivando alla sua conclusione. Mancano solo due film in concorso, che verranno proiettati oggi, e domani sapremo chi avrà vinto l’Orso d’oro e gli altri premi assegnati dalla Giuria capitanata da Darren Aronofsky. Domani verso mezzanotte ci sbilanceremo per bene con le nostre previsioni e i nostri favoriti del concorso.
Di certo c’è da dire che questa Berlinale si è rivelata assolutamente di livello. Ci sono stati molti titoli assai apprezzati e altri titoli che hanno diviso ma hanno trovato una loro forte cerchia di sostenitori. Per ora i film più forti per entrare in palmares mi paiono The Club di Larrain, Under Electric Clouds di German Jr., Taxi di Panahi, 45 Years di Haigh.
E pure Vergine Giurata (qui la recensione), applauditissimo ieri in proiezione stampa, potrebbe saltar fuori. In molti scommettono che il premio per la migliore attrice, praticamente sin da subito ipotecato da Charlotte Rampling per 45 Years, ora sia stato messo in discussione. Insomma: la Giuria pare dovrà scegliere tra la classe e la professionalità di un’attrice decennale, o di lanciare definitivamente nel panorama internazionale la nostra Alba Rohrwacher.
Se vincesse lei sarebbe il secondo premio di fila preso nei tre più importanti festival cinematografici europei. Ricordiamo infatti che Alba ha vinto la Coppa Volpi per la sua interpretazione di Hungry Hearts a Venezia lo scorso settembre. E ricordiamo pure che qualche mese prima era a Cannes come interprete del film della sorella Alice, Le Meraviglie. Mica male.
Prima di passare agli ultimi titoli presentati in questa giornata, voglio segnalarvi un film visto ieri che è subito entrato tra i miei preferiti di questa Berlinale. Uno di quei film che mi hanno fatto onestamente commuovere. Si tratta dell’indie americano Petting Zoo, primo lungometraggio della regista Micah Magee (ecco la regista del festival, altro che Isabel Coixet o Ma?gorzata Szumowska!).
Siamo a San Antonio, Texas. Layla è una diciassettenne che da poco sta vivendo a casa del fidanzato coetaneo. Va a scuola, lavora in un call center, e fa la vita di tutti gli adolescenti. Poi un giorno scopre di essere incinta. Vorrebbe abortire, ma i genitori – in particolar modo il padre – non glielo permettono. Nel frattempo si lascia col ragazzo, che non sa nulla delle condizioni di Layla, e si trasferisce a casa della nonna. E incontra un altro ragazzo…
Un vero coming-of-age, visto che Layla dovrà trovare finalmente sé stessa entrando nel mondo degli adulti, e soprattutto una tranche de vie che scorre piacevolmente via come l’acqua. Ma arrivando verso il finale ha la forza dirompente della vita. Petting Zoo, nel suo essere sempre limpido e mai retorico, colpisce dritto al cuore. La Magee è una regista da seguire, e la dolcissima Devon Keller, che interpreta la protagonista, la rivedremo presto.
Lascio poche righe a 13 Minutes, titolo internazionale di Elser, nuovo lavoro di Oliver Hirschbiegel presentato fuori concorso. Il motivo? È un film visto e stravisto mille volte, almeno nella confezione e nella modalità di trattare la materia. Narra la storia vera di Georg Elser, l’uomo che l’8 novembre 1939 tentò di uccidere Hitler: fallendo e subendone le conseguenze. Si tratta, a detta di Hirschbiegel, del secondo capitolo di una trilogia dedicata all’epoca nazista, di cui La Caduta era il primo episodio. Speriamo si inventi qualcosa di più brillante il prossimo giro almeno a livello di regia.
Passiamo finalmente ai film che verranno presentati oggi. L’eventone fuori concorso è la Cenerentola di Kenneth Branagh. Il regista si è ormai venduto ai blockbuster dopo anni di onorata carriera cinematografica dedita al suo amato Shakesperare e a produzioni para-teatrali. Vedremo se questo sarà almeno meglio di Alice in Wonderland di Burton. Noi siamo comunque curiosi e non vediamo l’ora di rivedere Cate Blanchett di nuovo sul grande schermo.
Chiudono infine il concorso gli ultimi due titoli in corsa per l’Orso d’oro. Il primo è Big Father, Small Father and Other Stories del vietnamita Phan Dang Di: è la storia di giovane studente di fotografia che s’innamora del compagno di stanza, uno spacciatore di eroina. Il secondo titolo guarda ancora a Oriente: si intitola Chasuke’s Journey, è diretto dal giapponese Sabu, e narra la storia di un angelo arrivato sulla Terra per salvare una donna dal suo tragico destino.
12 febbraio: Greenaway non convince a pieno, oggi è il turno dell’unico italiano in concorso
A cura di Antonio Maria Abate
«Sold out». Due parole che il sottoscritto in questi giorni si è sentito rinfacciare spesso, e più o meno sempre dallo stesso tizio. Ieri, povero, all’ennessimo sold out sbattutomi sul grugno, gliel’ho dovuto proprio dire: «ma com’è che da quando sono qui un biglietto non me l’hai dato?». Temo non abbia colto l’ironia. Ad ogni modo, tale premessa per attenuare almeno in parte la mancanza della giornata: chi scrive non ha infatti visto 50 sfumature di grigio.
C’è la recensione comunque, e da quello che mi si dice pure le risate non hanno avuto lunga durata. Pazienza. Avrei voluto parlare anche di 54: The Director’s Cut ma, ehi, anche quello sold out. Perciò l’aggiornamento di questo diario mi tocca in una delle giornate meno fruttuose, dove all’attivo ho comunque non uno, bensì tre film del concorso. Non solo.
Tra una cosa e l’altra sono infatti riuscito ad infilare Blackhat di Michael Mann, che in Germania è uscito il 5 febbraio. A riguardo per il momento dico solo quanto segue: quando il brano più manniano dell’intero film lo si sente sul finire dei titoli di coda, cominci a pensare che Mann ti stia volendo dire una cosa, ancora una volta: niente etichette per favore. In Blackhat Mann c’è eccome, ma in maniera inedita; uscendo peraltro confermata l’idea secondo cui si tratti dell’unico vero maestro americano su piazza, anche senza sfornare capolavori. Fermiamoci qui; il resto a suo tempo.
Di Aferim! ho già scritto e mi pare di non avere altro da dire al momento. Solo ricordo che mi trovavo qui due giorni fa, dichiarando prematuramente “chiuso” il concorso che conta. Grazie al cielo mi sbagliavo, e tra Under Electric Clouds l’altro ieri ed il western rumeno, pare che questa sezione abbia da dire fino alla fine. Una dark comedy spassosa e irriverente Aferim!, molto consapevole nell’uso dei codici e dal buon ritmo, a dispetto di tanto, tanto parlato (che però al sottoscritto non ha pesato proprio per niente).
Attenzione però, perché ieri era anche il giorno del ritorno di Peter Greenaway. Sopra le righe, montaggio fuori di testa, buona partenza. Poi, un po’ alla volta, lo sgonfiamento. Per quanto mi riguarda è mancato quel coinvolgimento intellettuale (perché Greenaway è a quel livello che funziona) che per esempio riscontro in un film come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante. Il suo Eisenstein in Guanajuato è un discorso interessante fino a un certo punto, che ruota attorno al celebre regista russo ma che in fondo si risolve in una storia di sesso. Sprezzantemente scandaloso nel suo riportare quasi per intero una scena di sesso omosessuale esplicita, non mancano alcune trovate notevoli. Ma alla fine della fiera l’argomentare mi pare per lo più debole, sebbene mi renda conto che il regista britannico mira ad altro. Non a caso in una scena viene pure costruita una carrellata magistrale, ma niente. In questo film non ci ho praticamente messo piede.
L’ultimo film rappresenta un po’ il «ma che davvero?!» di questo Concorso. Credevamo di aver riscontrato in Jacquot il peggiore, ma Gone With The Bullets si impegna talmente tanto a spodestarlo che quasi quasi gli si fa spazio. Un disastro cinese che sembra non finire mai, fiero nell’ostentare la sua emulazione di Baz Luhrmann, ed in generale completamente senza senso. Una giostra senza né capo né coda, che parte da subito per la tangente, perdendosi in ancor meno tempo.
Oggi altra strana battuta d’arresto. In Concorso solo Vergine giurata, film di debutto per Laura Bispuri. Fuori concorso c’è Elser, su un tentativo di attentato ad Hitler, che apre la girandola di proiezioni alle 9. Per il resto, beh… vediamo cosa ci porterà la giornata. I biglietti, manco a dirlo, sono tutti sold out.
11 febbraio: due indie americani incantano il festival, oggi è il turno di 50 Sfumature di Grigio
A cura di Gabriele Capolino
E prima o poi il giorno doveva arrivare. Perché per la maggior parte delle persone il giorno più atteso della Berlinale sarà pure stato quello di Knight of Cups di Malick, ovviamente, ma per altri è la giornata oggi, che vedrà il Gala di Cinquanta Sfumature di Grigio [risate dal pubblico], la trasposizione del primo romanzo della trilogia di E.L. James.
Dirige Sam Taylor-Johnson, ed è interpretato da Dakota Johnson nei panni di Anastasia Steele e Jamie Dornan nei panni dell’ormai iconico Christian Grey. Il film è in uscita nelle sale italiane domani. Siete un po’ bagnati, eh? Io vi dico solo che ieri mattina ho provato a prendere il biglietto per il Gala (sì, la stampa per quelle proiezioni deve farsi un biglietto gratuito in biglietteria con l’accredito), ma nel giro di un paio d’ore erano finiti. Proverò la proiezione stampa in contemporanea, ma la sala è piccola. Se non enterò… pazienza.
Ricapitoliamo la giornata di ieri. Due sono state le soprese principali, ed erano fuori concorso, rispettivamente in Panorama e Forum. Si tratta di due bei indie americani. Il primo è Nasty Baby, che vede il cileno Sebastián Silva tornare alla regia. A chi scrive Silva piace e non poco, ma in giro l’opinione su di lui si è piuttosto divisa dopo il discusso dittico formato da Magic Magic e Crystal Fairy & the Magical Cactus and 2012, entrambi al Sundance 2013.
Questo è prodotto in America anche da Pablo Larrain, e il suo nome sui titoli di testa deve aver stampato in faccia un sorrisone a tutti quelli che hanno amato The Club in concorso. Al Sundance qualcuno diceva che Nasty Baby non era particolarmente riuscito: io l’ho trovato invece molto bello. Si potrebbe descrivere come la storia di due ragazzi gay intenzionati ad avere un figlio assieme alla loro amica.
Ma Nasty Baby è molto di più. Mi pare innanzitutto sia un bellissimo spaccato della vita ‘artistoide’ di Brooklyn, scritto e interpretato in modo eccellente, e senza un attimo di stanca (il ritmo è travolgente). Poi, come in tutti i film di Silva, si vira con gli ultimi minuti in zone veramente scurissime. Molti spettatori avranno problemi con l’ultima parte del film, ma a me pare persino coerente con tutto il resto.
Silva interpreta Freddy, uno dei due ragazzi gay, il più ossessionato all’idea di avere un figlio, mentre Kristen Wiig (perfetta) è Polly, la migliore amica che dovrebbe portare il bimbo in grembo. C’è poi un secondo filo di trama che vede il personaggio di Bishop, un barbone che metterà a dura prova i nervi del trio, tra rumori mattutini in strada e assalti di notte ai danni di Polly.
Tutto è così ben amalgamato che pare che il film ci interroghi costantemente sul nostro modo di approcciarci agli altri attraverso etichette e il nostro modo di vivere e vedere il mondo. Non lo fa mai però in modo diretto e facilotto. Meglio un Nasty Baby che dieci I am Michael, il piatto film con James Franco gay ‘riconvertitosi’ etero visto sempre in Panorama.
Il secondo indie è Queen of Earth, ed è la conferma di Alex Ross Perry, a poco più di un anno di distanza dall’ottimo Listen Up Philip. Questo suo nuovo lungometraggio è se possibile ancora meglio del precedente. Protagonista è Catherine, una ragazza a cui è appena morto il padre a cui era legatissima, e che è stata pure lasciata dal fidanzato per un’altra donna.
La migliore amica la invita per un periodo nella sua casetta in riva al lago per stare da sola e rilassarsi, ma questa vacanza si trasforma presto in un incubo. Prima iniziano (o continuano?) delle incompresioni tra le due ragazze, decisamente feroci nei toni e nelle accuse. Poi si entra in territorio paranoia, con Catherine che sembra cominci a perdere il controllo della sua vita e della realtà che le sta attorno.
Alex Ross Perry firma un film profondamente polanskiano (quando Listen Up Philip si rifaceva invece a Woody Allen), e firma un ‘gioco al massacro’ che poi va a finire in zona Repulsion. Con all’attivo un copione intrigante dai dialoghi appuntiti, e con un montaggio di Robert Greene a dir poco strepitoso, e con un uso della dissolvenza incrociata bellissimo e stacchi di montaggio inaspettati. Poi ci sono le due attrici, Katherine Waterston (la vedrete in Vizio di Forma) e soprattutto Elisabeth Moss, che con la sua Catherine trova già il ruolo di una carriera.
In concorso è poi stato presentato Under Electric Clouds (la nostra recensione), ritorno di Alexey German Jr. (figlio del grande omonimo padre scomparso poco meno di due anni fa) a sette anni di distanza da Paper Soldier, Leone d’Argento per la regia e Osella per la fotografia a Venezia 2008 (anno in cui trionfò The Wrestler). Si tratta di un gran film, affascinante tanto quanto difficilissimo.
Si tratta di 140 minuti densissimi di personaggi, parole, riflessione sulla Storia della Russia dell’ultimo secolo, analisi tra passato e futuro, botte surreali e momenti di pura malinconia. Si può restare storditi e si può uscire affatticati dalla visione, ma è Cinema autoriale nella sua forma migliore. Con una regia a dir poco strepitosa, ricchissima di trovate visive. Per me è il candidato numero uno all’Orso d’Argento, e combatterà con Larrain per il premio maggiore.
Ultima menzione per quel pasticcio che è Every Thing Will Be Fine (la nostra recensione), il film che Wim Wenders porta fuori concorso in occasione del suo Orso d’Oro alla carriera. Protagonista è James Franco, e c’è chi già fa ironia sul fatto che è presente anche in Queen of the Desert, altro flop di critica qui alla Berlinale: sarà mica colpa sua se due tra i più grandi registi tedeschi di oggi hanno portato a Berlino due opere così fiacche?
Wenders firma il primo dramma in 3D della Storia (?), ma continua a cercare Antonioni e l’incomunicabilità, trovando soltanto il più noioso dramma 3D della Storia… Non si capisce che cosa voglia dire, né ci suggerisce qualcosa per cui ci dovremmo interessarci a questa storiellina sull’elaborazione del lutto. La stereoscopia lo costringe spesso a fare voli pindarici con la costruzione dell’inquadratura. Bella e affascinante la colonna sonora di Desplat, realizzata settimana scorsa (è vero). Il resto è nonsense.
Oggi in concorso passano tre film (e saremo perciò a quota 15 di 19): il romeno Aferim!, ‘western’ in bianco e nero firmato da Radu Jude; Eisenstein in Guanajuato, il ritorno di Peter Greenaway, uno dei film che più attendo di questa Berlinale; e il cinese Gone With The Bullets di Jiang Wen, che si preannuncia come un fulminante e spassoso omaggio al Cinema nella tradizione dello stile del regista.sempre
10 febbraio: El Club di Larraín è un serio candidato all’Orso d’oro, oggi è il turno di Wenders
A cura di Antonio Maria Abate
Con ieri, salvo soprese, i più forti sulla carta sono tutti andati. Mancava solo El Club di Pablo Larraín per poter cominciare a tirare le somme, e non stupisce più di tanto che il suo possa essere il vero Orso d’Oro di quest’anno. Per intenderci, chi scrive continua a coltivare una particolare predilezione per Knight of Cups, che resta il mio preferito. Ma se parliamo di favorito, beh, il discorso cambia.
Il lavoro di Larrain è di una durezza disarmante, cosa che però non gli impedisce di ironizzare in alcuni punti, sempre però padrone del discorso. Argomento scabroso, quello di alcuni preti che hanno abusato di ragazzini, e che per questo sono stati confinati dai loro superiori all’interno di una casa praticamente in mezzo al nulla. Il regista cileno evita di cadere in tutte quelle trappole che un argomento di questo tipo tende a disseminare; le elude, ci gioca, e con un’arguzia che oggi è raro trovare. Ancora una volta, dinanzi ai mostri che dipinge e descrive, Larrain sublima il suo sdegno mostrandoli per ciò che fanno, non semplicemente per ciò che sono (sarebbe troppo facile).
Il suo è un ritratto impietoso, cupo, un saggio sulla reale natura umana e su quanto questa sia essenzialmente terribile. Nel suo El Club non ci sono personaggi positivi o negativi, bensì uomini e donne che scontano ancora la catena di errori a suo tempo innescata; inarrestabile, radicalmente corrotta. Vittime e carnefici al tempo stesso, alienati, dispersi. Piaccia o meno l’uomo è anche questo. Ma il quesito tremendo che suscita il film è: che farsene di queste persone? Se la loro stessa esistenza è un crimine, allora vanno rivisti tre secoli di “indipendenza culturale/intellettuale”. Se invece si deve imparare a convivere sotto lo stesso cielo, beh… Larrain furbescamente non risponde. Non lo facciamo neanche noi.
Altri due i film mostrati ieri, entrambi in Concorso. Il secondo ed ultimo tedesco, As We Were Dreaming, è un imperfetto ma interessante spaccato di un mondo diviso a metà, ossia la Germania dell’Est prima della caduta del Muro. Un tentativo di fare un po’ il punto della situazione su ciò che è stato e su ciò che è rimasto, in una cornice talmente assurda da sembrare un sogno, come il titolo suggerisce. Body, invece, ha il suo da fare nell’approntare un approccio vagamente originale a tematiche affini come spiritismo ed elaborazione del lutto. Un film che ha decisamente il suo perché, ma che tutt’ora non ci sembra del tutto riuscito. Lento, a tratti impenetrabile, pecca forse di una certa fumosità.
Oggi il Concorso diciamo che si prende una leggera pausa, mostrando un solo film, ossia Under Electric Clouds, unico russo in Concorso. Tuttavia non è finita, perché poi tocca all’Orso d’Oro alla carriera di questa edizione, ossia Wim Wenders, col suo Every Thing Will Be Fine. Per quanto riguarda il sottoscritto, al netto di sale intasate o notizie estemporanee sulla necessità di biglietti che, immancabilmente, sono terminati, ci sono pure Petting Zoo e Chorus nel pomeriggio, entrambi in Panorama.
9 febbraio: Malick divide il festival, oggi in concorso The Club di Pablo Larrain
A cura di Gabriele Capolino
“Sinvergüenza!”, si sente urlare in spagnolo all’apparire dei titoli di coda di Knight of Cups alla prima proiezione stampa di ieri al Berlinale Palast. Non c’è proiezione a un festival che presenti un film di Terrence Malick che non abbia un po’ il suo circo finale: prima Cannes con The Tree of Life, poi Venezia con To the Wonder, e ora Berlino con il settimo film del regista.
Per carità: l’insulto di cui prima, un paio di fischi e un’accoglienza fredda ma condita da qualche forte applauso sembrano un traguardo per Malick. Però è evidente che, al solito, c’è una belle discrepanza di opinioni riguardo al suo lavoro. Non potrebbe essere altrimenti, visto che il regista continua per la sua strada e non dà segni di voler tornare indietro. Prendere o lasciare, perché il Malick de La rabbia giovane e I giorni del cielo non c’è più.
Abbiamo approfondito nella nostra recensione in anteprima, ma scrivo un paio di righe per precisare la mia ‘posizione’. Non ho amato To the Wonder, che ‘rispetto’ ma mi ha lasciato a mia sorpresa freddino, e Knight of Cups mi piace di più. Mi sono chiesto il motivo: sarà forse perché, nel primo, Malick usa ancora una ‘trama’ e invece in Knight of Cups si lavora direttamente sulle emozioni del personaggio e quindi del pubblico?
C’era una cosa secondo me splendida in To the Wonder, che è lo sguardo sulla periferia americana. La stessa qualità la si ritrova in Knight of Cups, che è una specie di film definitivo su Los Angeles. Non solo Hollywood, ma anche tutto ciò che gli sta attorno, dal deserto fino a Santa Monica, da Venice Beach fino a Beverly Hills, dai reietti di Downtown fino ai canyon, dai lussuosi interni fino alle discoteche ai neon. Terremoti compresi, altrimenti non sarebbe L.A..
E se è vero che il gioco stilistico di Malick, la voce off continua ripresa quasi pari pari da The Tree of Life, il protagonista ‘muto’ di Christian Bale (che però funziona alla grande e molto meglio di Ben Affleck in To the Wonder), il montaggio emotivo, la colonna sonora, ecc. rischiano di creare una certa ripetitività, è innegabile che ci sono attimi di emozione e bellezza cristallina. Se Godard manda a quel paese il linguaggio cinematografico canonizzato allora va (giustamente) bene, se lo fa Malick…
Secondo film in concorso della giornata di ieri è stato El botón de nácar (The Pearl Button) del documentarista cileno Patricio Guzmán, esploso grazie a Nostalgia de la Luz. A Berlino porta un altro documentario che, partendo dall’Acqua e finendo a parlare dei desaparecidos in Cile, si ricollega al film precedente. C’è chi ha detto che non è così bello, e chi invece l’ha definito un po’ forzato: può essere, ma questo incrocio che ha in sé un po’ di Oppenheimer e un po’ di Herzog ha un suo fascino e una sua forza mica da poco.
Tre gli eventi fuori concorso. Partiamo dal peggiore in assoluto, che è forse anche il film più brutto che il sottoscritto ha visto qui a Berlino finora: Woman in Gold, girato dal Simon Curtis di Marilyn. Storia vera di Maria Altmann, donna che combattè per riavere il quadro di Klimt Donna d’oro che apparteneva alla sua famiglia prima dell’arrivo dei nazisti in Austria, è una specie di Philomena che incrocia The Monuments Men.
Helen Mirren è costretta a fare il ruolo da signora po’ scorbutica visto già mille volte, e Ryan Reynolds viene costretto a commuoversi e piangere un po’ troppo spesso (non gli riesce mica bene). Si tratta di exploitation della Storia, al servizio di una storia ‘americana’ con confezione di lusso (insomma…), che però a volte fa involontariamente molto ridere. Il solito filmetto acchiappalacrime distribuito da Weinstein: ma se siete fra quelli che hanno odiato The Imitation Game, beh preparatevi a rivalutarlo. Un vero macello di bruttezza infinita.
Meglio Mr. Holmes, storia di uno Sherlock Holmes ormai in pensione che si ritrova a risolvere un ultimo mistero. Bill Condon ritrova Ian McKellen ad anni di distanza da Demoni e Dei, e gli affida un ruolo che ovviamente l’attore porta a casa con estrema facilità. Sorta di buddy movie che si mescola a una riflessione sulla vecchiaia e ad altre sottotrame mystery, è un film a suo modo pure piacevole che però stilisticamente starebbe benissimo in tv. Però lo vedrete al cinema: in America lo distribuisce la rediviva Miramax.
Ancora meglio dei due precedenti è Love & Mercy, in anteprima europea alla Berlinale dopo il passaggio a Toronto 2014. E accidenti, ammetto che non mi sarei mai aspettato un prodotto così amaro e persino cupo. Si tratta dell’atteso biopic su Brian Wilson, cantautore e anima dei Beach Boys: infatti il film si potrebbe tranquillamente intitolare ‘L’altra faccia dei Beach Boys’, di cui tutti conoscono le canzoni più allegre e orecchiabili.
Qui c’è però il ritratto serio e angosciante di un esaurimento nervoso e del rapporto problematico tra paziente e dottore, che diagnostica a Brian la schizofrenia. L’incontro con Melinda Ledbetter, una donna con cui inizia una relazione, potrebbe salvargli la vita. Bello, doloroso, inaspettato: questo è Love & Mercy, che ha anche la cortezza di entrare nel processo creativo di Wilson pur volendosi concentrare prevalentemente su altro. John Cusack e Paul Dano, Brian da grande e da giovane, sono eccezionali. Dirige Bill Pohlad, nominato agli Oscar per The Tree of Life.
Oggi ci sarà il giro di boia del concorso, e con i tre titoli presentati in corsa per l’Orso d’Oro ne avremo già visti 11 su 18: El Club, attesissimo nuovo film di Pablo Larrain dopo la trilogia sul Cile di Pinochet; As We Were Dreaming, del tedesco Andreas Dresen; e Body, della polacca Ma?gorzata Szumowska. Per il sottoscritto ci sarà poi anche la proiezione di I Am Michael di Justin Kelly, appena visto al Sundance, con James Franco e Zachary Quinto coppia gay, ma con il primo che si ‘riconverte’ all’eterosessualità.
8 febbraio: in concorso Terrence Malick con Knight of Cups
A cura di Gabriele Capolino
Questo è forse il giorno più atteso del Festival di Berlino 2015. La motivazione l’avete già letta nel titolo: viene presentato in concorso e in prima mondiale Knight of Cups, l’attesissimo settimo lungometraggio di Terrence Malick. Storia di uno sceneggiatore (Christian Bale) che vive a Los Angeles e si confronta con donne e il mondo che gli ruota attorno, è già stato descritto come un nuovo ‘flusso di coscienza’. Tra poche ore la nostra recensione.
Il concorso continua ad alternare alcune soddisfazioni ad altre delusioni. Di Queen of the Desert, il pasticciatissimo film di Werner Herzog con Nicole Kidman, ne abbiamo già parlato: ci tengo a sottolineare che è davvero una delle delusioni più cocenti degli ultimi anni, vista la portata del progetto e dei talenti che c’erano in ballo. Alcune zampate alla Herzog e il suo senso per la Natura ravvivano raramente un film piuttosto piatto e lunghissimo. Avrà i suoi (pochi) difensori, comunque.
Ora che ci penso non è che si possa proprio parlare di delusione invece per Journal d’une femme de chambre, il film che Benoît Jacquot ha presentato in concorso a pochi mesi dalla presentazione al Lido del fischiatissimo Tre Cuori. Non è una delusione almeno per chi scrive: da Jacquot non mi aspetto proprio nulla. Si tratta della terza versione cinematografica del romanzo di Octave Mirbeau, dopo quelle targate Jean Renoir (1946) e Luis Buñuel (1964).
A sorpresa Journal d’une femme de chambre parte molto bene. Jacquot gira in modo spigliato e monta velocemente, e si entra subito nelle vicende di Célestine, capitata nell’ennesima nuova casa sotto il controllo di una nuova padrona. Costumi, arredi e compagnia bella sono perfetti, e forse non si è mai vista una Léa Seydoux così bella (brava sì, lo è praticamente sempre).
Si sente subito una puzza di losco e viscido tra questi vestiti così lussuosi e puliti, tra queste tappezzerie così pregiate e questi gioielli così costosi. E infatti c’è del marcio nella nobiltà. Ecco: quando incomincia a trasformarsi in film su una scalata sociale, Journal d’une femme de chambre va a pezzi, si affloscia del tutto e non si riprende più. Soprattutto: a chi interessa una roba del genere oggi?
Meglio gli altri due film in concorso, il guatemalteco Ixcanul Volcano e il tedesco Victoria. Del primo ne abbiamo già parlato bene nella nostra recensione in anteprima. Il secondo è invece un oggetto molto curioso, tutto girato in un unico pianosequenza di 140′. Ma, al contrario di un Birdman, non c’è trucco e non c’è inganno: non ci sono stacchi.
Sebastian Schipper e la sua troupe hanno iniziato a girare alle 4.30 di una mattina e non si sono più fermati, complici 150 comparse e attori di eccezionale bravura che non hanno sgarrato per più di 2 ore. Una sfida assurda, che supera tutte le operazioni del genere fatte finora. Anche perché le location davvero non si calcolano: si viaggia per mezza Berlino, tra club, case private, diversi quartieri, hotel, garage e molte strade.
Qualcuno l’ha definito un incrocio tra Before Sunset di Linklater (si comincia con una turista spagnola che incontra un berlinese, in giro di notte a far festa con amici) e Bonnie and Clyde (ci sono di mezzo i gangster e una rapina). Si tratta anche di un’odissea che non ha un vero scopo, ma che grazie all’abilità del regista e all’impegno di ognuno che ci ha messo il proprio talento si trasforma in una galoppata che vale la pena vivere su grande schermo.
Finisco infine con il mio primo film della sezione Panorama, ovvero Angelica, opera terza di Mitchell Lichtenstein. Che torna in zona Denti (che già non era granchè, ammettiamolo) e fa un disastro. La storia è quella di una donna (Jena Malone) della Londra vittoriana, che conosce un uomo benestante che sposerà di lì a poco e da cui avrà una bambina. Comincia una serie di paranoie sull’astinenza, la sessualità e il peccato che porterà persino alla ‘materializzazione’ di un mostro/malattia.
Ma che è, una specie di Babadook perverso? La paura del sesso, della malattia, persino del sangue e dei corpi estranei sono elementi di un’epoca che Lichtenstein sembra quasi voler prendere in giro. Se lo fa è sempre sul filo del ridicolo, e quando si prende sul serio ci cade dentro alla grande. Lichtenstein vuole essere originale e strambo, e gliene diamo atto: forse però gli manca proprio il controllo del mezzo.
Accanto a Knight of Cups di Werner Herzog oggi scende in campo per l’Orso d’oro anche El botón de nácar del cileno Patricio Guzmán. Ben tre invece gli eventoni fuori concorso: Mr. Holmes di Bill Condon, con Ian McKellen nei panni di un anziano Sherlock Holmes; Woman in Gold di Simon Curtis, con Helen Mirren; e Love & Mercy di Bill Pohlad, biopic su Brian Wilson dei Beach Boys con John Cusack, Paul Dano, Elizabeth Banks e Paul Giamatti.
7 febbraio: Haigh e Panahi alzano l’asticella, Concorso in salita
A cura di Antonio Maria Abate
Virata spaventosa alla Berlinale. Dopo un primo giorno, per così dire, in sordina, ecco una seconda giornata di alto livello. Alto in generale, estremo se si confronta a quanto visto ieri. Ed effettivamente, non nascondiamocelo, era ipotizzabile: Panahi, Herzog e Haigh uno dopo l’altro. Che sorpresa è? Infatti non lo siamo, sebbene le conferme siano non solo gradite ma anche confortanti.
Cominciamo da quello che ha colpito meno, o forse non per i motivi giusti. Queen of the Desert è un Herzog che al solito se ne frega delle convenzioni, confezionando un film lungo, che va setacciato per trovarci dentro momenti struggenti. Che ci sono, inutile negarlo, sebbene coperti da una coltre di materiale che non è per tutti i palati. La Kidman è nel suo mondo, un po’ meno il goffo James Franco, che non è da escludere sia stato messo lì per controbilanciare l’eccesso di romanticismo al quale il regista tedesco non è certo abituato – lui che romantico, semmai, lo è in altri termini. Resta che un film che non del tutto riuscito di Herzog è pur sempre meglio della congerie di produzioni analoghe che nulla hanno da raccontare: Queen of the Desert, al contrario, denota un amore spropositato per la narrazione, a tal punto da essere un po’ prolisso.
Ma i veri piatti forti ieri sono venuti dall’Iran e dal Regno Unito. Panahi si ostina a volerlo fare il cinema, non importa come; dismessi perciò i panni del regista-filosofo-impegnato, con Taxi non va affatto per il sottile. Taxi è un film che si rivolge a chiunque, perché chiunque può lasciarsi trascinare da alcuni frammenti di quotidianità ricostruita attraverso un viaggio in taxi. Panahi alla guida, si tratta di una mezza giornata di docu-fiction, lungo la quale il regista iraniano dapprima si limita ad evidenziare certe incongruenze, certe peculiarità della sua gente, salvo poi tirare fuori il bastone e picchiare duro: la censura, l’arretratezza, la miseria. Sono tutti temi che Panahi affronta senza quasi che ci renda nemmeno conto. Con un finale che è tutto un programma.
Di 45 Years se ne parlerà ancora. Questa commovente storia di coppia, a tratti straziante, è scritta in maniera pressoché impeccabile. Tutto è come sembra eppure niente lo è. Quarantacinque anni insieme per poi accorgersi di stare accanto ad uno sconosciuto, quando oramai si dovrebbero cominciare a tirare le somme ed invece sei ancora lì a mettere in discussione ogni cosa, per primo/a te stesso/a. La Charlotte Rambling è di un’eleganza ammaliante, così rapita dal suo personaggio che noi la si segue di conseguenza. D’altronde Haigh lo lascia intendere nel corso del film, ma ci vuole del tempo per capire che è davvero lei il centro attorno al quale orbita questo frammento in cui si consuma una tragedia. Senza squilli di tromba, perché l’enfasi in certi casi è semplicemente inopportuna, per nulla credibile; senza contare che la parte più tremenda viene dopo quel finale da nodo alla gola, lasciando a ciascuno di noi l’onere di colmare il resto. Ma anche no, mica per forza.
Oggi giornata intensa. Al mattino altri due film in Concorso, rispettivamente Ixcanul e Journal d’une femme de chambre, quest’ultimo di Benoit Jacquot. Nel primo pomeriggio ci aspettano due ore e venti di Victoria, se non abbiamo capito male una sorta di thriller metropolitano in piano-sequenza, ambientato proprio a Berlino. In serata spazio a Panorama, con The Last Summer of the Rich e Angelica. Giornata intensa insomma, che ovviamente vi racconteremo nel prossimo aggiornamento.
6 febbraio: dopo una brutta partenza inizia il concorso con Herzog, Panahi e Haigh
A cura di Gabriele Capolino
È come se, con la sua prima giornata di proiezioni, il Festival di Berlino 2015 abbia voluto lanciare un segnale. Si parla ultimamente, soprattutto a causa degli Oscar 2015, delle mancate ‘quote rosa’ nell’industria, e la Berlinale cosa ti tira fuori? Una giornata decisamente femminile, sia perché un paio di film sono girati da registe, sia perché personaggi e tematiche sono altrettanto femminili.
Se però questo può far felice gli amanti delle statistiche e i militanti, a critica e pubblico interessano soprattutto i risultati dei film. Com’è stata perciò questa prima giornata a Berlino? Così così. Non si può certo parlare di trionfo e neppure di apertura riuscita con Nobody Wants the Night (recensione), il film di Isabel Coixet che ha dato il via alle danze e che già al momento dell’annuncio che avrebbe aperto la rassegna tedesca aveva fatto storcere più di un naso.
La scelta di aprire con un film del genere aveva lasciato dubbi perché le scorse aperture erano state affidate a titoli generalmente molto più attesi, e poi perché la Coixet è un’autrice ben discontinua. Purtroppo non c’è stato nulla da fare, e la scelta di Nobody Wants the Night si è rivelata per quello che è: debolissima. Magari Berlino voleva davvero lanciare un segnale, affidando il via alle danze a una regista donna che parla di donne.
Però che ‘slot’ sprecato, se il film dev’essere una cosa del genere (che qualcuno prova pure a difendere: ma è già rimasto solo soletto, allontanato da tutti). Qui si sta parlando di un film senza identità, sempre indeciso nel raccontare un film femminile ed essere un j’accuse al colonialismo bianco, indeciso poi tra un Herzog e un film alla Tracks. Con due attrici altrove bravissime, Juliette Binoche e Rinko Kikuchi, qui lasciate a fare le macchiette.
Il festival, segnato praticamente solo da anteprime stampa in questa prima giornata, ha svelato poi le prime carte della sezione Forum. Assieme a Panorama, quella di Forum è la sezione che fa felice i cinefili più puri, interessati non tanto al concorsone pieno di grandi nomi, ma soprattutto dediti alla scoperta del film indie più piccolo o del film sperimentale più ardito.
E nonostante Forum sia la sezione giusta per presentarlo, un film come il polacco The Days Run Away Like Wild Horses Over the Hills lascia comunque più di un dubbio. Si tratta di una specie di ibrido, una docu-fiction sperimentale che segue tre ragazze (in bianco e nero) e poi delle donne anziane (a colori), forse le stesse ragazze di prima ormai invecchiate. Ragionamento piuttosto deprimente sul passare dei giorni e della gioventù, abusa di cliché da cinema verità e alla lunga stanca nonostante la brevissima durata.
Meglio gli altri due film visti dal sottoscritto sempre nella stessa sezione. La sorpresa del giorno è Hedi Schneider is Stuck, co-produzione Germania-Norvegia di cui credo si parlerà parecchio quest’anno in tutto il circuito festivaliero. Preparatevi, perché potrebbe davvero diventare un piccolo ‘fenomeno’, anche a giudicare dall’accoglienza che gli è stata riservata qui a Berlino. Tutta meritata, peraltro.
C’è una famigliola perfetta, con figlioletto, padre e marito premuroso, e moglie in carriera. Lei è Hedi, la protagonista che, di punto in bianco, comincia ad avere pesantissimi attacchi di panico. Il passo da un primo attacco all’abuso di medicinali e alla depressione è veloce e inesorabile, e rischia di mandare a rotoli l’equilibrio famigliare.
Raccontata così la trama potrebbe anche indurre al suicidio, ma non si tratta di un film deprimente. La regista Sonja Heiss punta invece a firmare più un incrocio tra commedia quirky e dramma. Ho letto in giro che Hedi Schneider is Stuck potrebbe essere l’incrocio tra Bridget Jones e Safe di Haynes: già ci si avvicina di più, e ancora non si rende l’idea del tono del film. Che cambia rotta più volte, ha una parabola sempre più triste che non cade mai nel ricattatorio e non vuole affogare lo spettatore in un mare di lacrime, anzi.
Ci si trova davanti a un film serissimo, che descrive con toni giusti e molto rispetto la ‘malattia’ e con molta umanità le scelte personali dei membri di un nucleo famigliare di fronte alle proprie fragilità e alle difficoltà. Poi ha due interpreti straordinari: Laura Tonke, incrocio tra la Jones già citata e Carey Mulligan, e Hans Löw, che interpreta il marito, un ruolo affatto secondario e che ha un’evoluzione bellissima durante il percorso del film.
Ultima nota per Beira-Mar (Seashore), diretto a quattro mani da Filipe Matzembacher e Marcio Reolon, coppia nella vita: la loro storia ha ispirato quella del film. E si vede la sincerità di Seashore, che a molti potrà sembrare un fin troppo ordinario queer movie sugli adolescenti, piccolo, rarefatto e dolce come se ne possono vedere molti in giro. Per dire: è un film brasiliano, e solo l’anno scorso proprio da Berlino uscì quella meraviglia chiamata The Way He Looks, tra i nostri film inediti del 2014 da recuperare.
Martin e Tomaz sono amici da una vita e si ritrovano a passare un weekend al mare nella casa del nonno di Martin. Suo padre l’ha mandato lì per una questione di famiglia e soldi: Tomaz ne sa poco o nulla, ma visto che è suo amico ha deciso di accompagnarlo. Sarà l’occasione per il duo di fare un po’ di festa e soprattutto prendere decisioni forti. Infatti questo è l’aspetto più importante di Seashore: quello di essere innanzitutto un vero coming-of-age, in cui entrano in gioco scelte serie e il proprio rapporto col mondo.
Matzembacher e Reolon, giocando con troppi movimenti di macchina e troppi fuori fuoco, rischiano grosso, ma sanno prendersi il proprio tempo per far affezionare il pubblico ai due giovanissimi protagonisti. Svelando anche poco a poco il ‘mistero’ che sta dietro alla situazione famigliare di Martin, e arrivando a un finale emotivamente molto coinvolgente.
Sarà davvero il The Way He Looks di quest’anno? Staremo a vedere come Seashore si comporterà in questo 2015: per ora credo si possa tranquillamente candidare al Teddy Bear. Poi il film ci ricorda un’altra cosa, visto che uno dei due protagonisti si ritrova (per pagare pegno a un gioco da ragazzini) con i capelli blu: Blue Is Still the Warmest Color…
Oggi inizia infine ufficialmente il concorso, e Berlino spara subito tre fra le sue cartucce più importanti: Taxi, terzo film di Jafar Panahi dopo la condanna a non poter uscire dall’Iran e a non poter fare film per 20 anni; Queen of the Desert, l’attesissimo ritorno di Werner Herzog al cinema narrativo, con Nicole Kidman; e 45 Years, per chi scrive un altro dei titoli più attesi in assoluto, visto che il regista è un certo Andrew Haigh, autore del meraviglioso Weekend e tra le menti dell’ottima serie tv HBO Looking.
5 febbraio: si dia il via alle danze, per la prima volta Cineblog è alla Berlinale
A cura di Antonio Maria Abate
C’è voluto del tempo ma alla fine ci siamo. Cineblog seguirà per la prima volta il Festival di Berlino, dall’inizio alla fine. E a conti fatti pare non poteva capitare edizione migliore, nonostante quella che ci siamo appena lasciati alle spalle abbia inaugurato cavalcate di tutto rispetto, come quelle di Boyhood e Grand Budapest Hotel.
Basta dare uno sguardo ai nomi, due su tutti: Werner Herzog e Terrence Malick, due maestri da fare gola e invidia a qualunque Festival, ed entrambi in Concorso. Il primo con un film di finzione dopo parecchio tempo, il secondo con un’opera delle sue e che perciò a tanti non piacerà, solo che stavolta pare si parla della discesa e risalita di una celebrità. Ma non solo loro. A sorpresa è venuto fuori pure Pablo Larraín, all’ultimo secondo, quando nessuno se lo sarebbe aspettato.
C’è dell’altro? Beh sì, perché al di là del Concorso (in cui peraltro figurano titoli di sicuro richiamo, come 45 Years, Taxi o l’unico film d’esordio, che è pure italiano, ossia Vergine Giurata), vi è una sezione Panorama di tutto rispetto, cui fa il paio Forum. Noi ne abbiamo già individuati alcuni, affidandoci più che altro all’intuito, ché per ora è il massimo che si può fare. Ma ne citiamo alcuni: Angelica, Why Me?, Love & Mercy, The Last Summer of the Rich e via discorrendo.
È presto per esporsi, dato che ancora siamo ai nastri di partenza. Perciò cominciamo passando in rassegna ciò a cui assisteremo oggi. Il primo giorno di Berlinale prevede infatti anzitutto il film d’apertura, ovvero Nobody Wants the Night di Isabel Coixet, di primo acchito il più debole da qualche anno a questa parte – basti pensare che ad inaugurare due anni fa fu The Grandmaster di Wong Kar-wai, mentre l’anno scorso toccò al già citato Grand Budapest Hotel, di Wes Anderson. Verrebbe quasi da dire «chissenefrega» se pensiamo a cosa ci aspetta nei giorni a venire, ma tant’è.
Sono momenti concitati, quelli relativi all’apertura di un Festival totalmente inedito per noi, che a differenza degli altri due principali in Europa (Cannes e Venezia), coinvolge davvero l’intera città. Non di rado infatti ci capiterà di girovagare per le due estremità del centro a fronte di tempi davvero serrati; ma si fa questo ed altro. Il nostro programma è pronto, eppure sappiamo già che delle modifiche in corsa sono un’ipotesi reale più che una semplice possibilità.
Onde evitare di parlarvi del freddo e della neve che imperversa per Berlino (a cui i berlinesi sembrano peraltro essere indifferenti), preferiamo rinviare le prossime considerazioni al prossimo aggiornamento di questo diario, quando i primi film saranno andati e toccherà a Gabriele parlarvene. Per ora è tutto. Noi siamo pronti.