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Queen of the Desert: recensione in anteprima del film di Werner Herzog

Il Werner Herzog di Queen of the Desert è quello di sempre: meditabondo e senza compromessi. La sua Gertrude Bell è bella ma poco accessibile. Così come non è semplice entrare in sintonia col mistero del film che la ritrae

pubblicato 6 Febbraio 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 18:23

Tutti hanno bisogno di un paracadute.

Una bellezza calamitante. Gertrude Bell era circondata evidentemente da un’aura particolare; l’unica, tra gli occidentali, ad essere trattata con rispetto profondo, considerata quasi una consanguinea da quei beduini che eppure si vorrebbero violentemente maschilisti e patriarcali. Ma quella di Queen of the Desert non è semplicemente Gertrude Bell; bensì è la Bell di Werner Herzog.

Sin dall’annuncio di questo suo nuovo film, il primo di finzione da qualche anno a questa parte, emerse subito l’affinità tra il regista e la protagonista: in fin dei conti non sarebbe del tutto assurdo considerare Queen of the Desert come il tentativo, da parte di Herzog, di dimostrare che lui è la Bell. Parecchi gli indizi disseminati nel corso di questo film che non fa sconti, seguendo pedissequamente la linea tracciata da principio, senza mai scostarsi da essa. Piccole cose: Gertrude viene sparata al braccio e lei minimizza (come l’Herzog di quella famosa intervista); Gertrude viene confusa per una tedesca ed eccola subito ringraziare il cielo di non esserlo (come l’Herzog di tutte volte che sottolinea di essere bavarese: lui i tedeschi non li sopporta).

Ma Queen of the Desert è soprattutto un film che ha una sua lirica, un suo ritmo, perché diversamente non sarebbe potuto essere. Quei sinuosi movimenti di camera che si succedono per l’intera durata del film tendono ad ipnotizzarci; e dipendono per lo più dall’efficacia di tale ipnosi le sorti di questo film. Che lungo è lungo, prolisso, in più occasioni in modo apparentemente fine a sé stesso. Ma come anche solo immaginare che Herzog non si sarebbe soffermato su certi scorci, certe panoramiche di quel deserto che a tanti potrebbe non dire nulla, ma da cui lui è in grado di estrapolare quasi sempre qualcosa?

Basti pensare all’uso del tappeto musicale, per nulla banale, né tantomeno scontato. Ogni brano è lì per un motivo ed uno soltanto; solo che non è dato capirlo, o forse sarebbe meglio dire spiegarlo. Anche qui, ordinaria amministrazione. Non si tratta di manovrare le emozioni, quanto semmai di guidare lo spettatore ad entrare in quell’area dentro la quale le sole immagini non sono abbastanza. Anche questo accade spesso col regista tedesco: le luci s’accendono, cala il sipario, e non ci si è nemmeno accorti di aver indossato le lenti sbagliate. Succede. Né si tratta di snobismo. Ma se la sensibilità di Herzog non ci è in qualche strano modo congeniale, è inutile tentare oltre.

Queen of the Desert ha per di più la “colpa” di essere un film dallo schema tutto sommato tradizionale, raccontando un esteso frammento della vita dell’esploratrice britannica. Partendo dall’approccio meno scontato per un regista come lui, ovvero quello romantico. In fin dei conti la Bell di fine film sembra essere la somma non tanto delle sue seppur straordinarie esperienze, quanto delle sue sofferenze amorose. Vissute tutte con la stessa intensità attraverso la quale studiava e amava i luoghi e le persone che raccontava al pubblico anglofono, ma che hanno segnato Gertrude molto più di quanto qualunque beduino avrebbe mai potuto fare.

Si potrebbe addirittura ricavare che i due più grandi amori della sua vita, interrottisi troppo presto o nemmeno cominciati, hanno rappresentato per lei la molla, il carburante, ciò che ha tenuto in vita questa donna fuori dall’ordinario, che sembrerebbe aver affrontato avventure ben più intriganti e pericolose di una semplice scappatella. In tal senso un Herzog inedito, il cui romanticismo è stato semmai affine a quello dei poeti tra fine ‘700 e inizio ‘800, e che per oggetto ha sempre avuto la vita, il vissuto, specie nelle sue declinazioni più estreme, al posto di una o più donne.

Qui il nostro torna leggermente con i piedi per terra, ma a modo suo, senza alcun compromesso di sorta. Perché per lui tutto è avventura, niente va mai dato per scontato e la sofferenza è di gran lunga la migliore maestra che si possa trovare. Ne viene fuori un film che nella sua staticità cerca costantemente di insinuarsi attraverso anfratti la cui strada in troppi casi può risultare sbarrata. Manca forse quella visceralità che è tipica delle opere di Herzog, quella fiamma che in Queen of the Desert non arde come si sperava ma che nonostante tutto c’è. Così come non mancano colpi da ko, come quando la macchina da presa si sofferma su una Gertrude sconvolta, mentre in sottofondo scorrono le note di un brano ad hoc ma al quale non esattamente chiunque avrebbe pensato.

O come certi esilaranti dialoghi, che uno non si sognerebbe nemmeno di trovare in certi contesti: il console, stanco di vedere la figlia piangere a tavola, anziché rimproverarla, fa di peggio: la sfotte («Sai qual è il lato positivo delle lacrime? Che se piangi tanto pisci meno»). Puro Herzog. Peccato che tutto ciò sia sepolto da una congerie di scene che effettivamente appesantiscono la visione, chiedendo alla spettatore uno sforzo aggiuntivo che chissà in quanti sono disposti a fare. Tuttavia restiamo sempre del medesimo parere: che un film di un cineasta come Herzog riuscito a metà è pur sempre meglio di tanti altri “totalmente riusciti”.

Voto di Antonio: 6
Voto di Gabriele: 5,5

Queen of the Desert (USA, 2015) di Werner Herzog. Con Robert Pattinson, Nicole Kidman, Damian Lewis, James Franco, Jenny Agutter, Holly Earl, Christopher Fulford, David Calder, Renee Faia, Beth Goddard, Mark Lewis Jones, Sarah Crowden e Sophie Linfield.

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