Il figlio di Hamas – The Green Prince: il trailer italiano del documentario
Dopo il successo al Sundance Film Festival 2014, arriva in Italia il documentario “Il figlio di Hamas – The Green Prince”
Esce il 23 aprile il documentario Il figlio di Hamas – The Green Prince diretto da Nadav Schirman con Mosab Hassan Yousef, Gonen Ben Yitzhak, Sheikh Hassan Yousef. Qui sopra trovate il trailer italiano, vediamo insieme la trama ufficiale:
Cresciuto in Palestina, da adolescente Mosab Hassan Yousef sviluppa un’avversione nei confronti di Israele che, da ultimo, lo porta in prigione. Qui, colpito dalla brutalità di Hamas e spinto dalla repulsione per i metodi del gruppo – in particolare gli attentati suicidi – Mosab matura una “conversione” inaspettata, iniziando a vedere in Hamas un problema, non una soluzione. Reclutato dallo Shin Bet (il servizio di sicurezza interna d’Israele) col nome in codice di “Green Prince”, per oltre un decennio spia dall’interno l’élite di Hamas, rischiando la vita e facendo i conti con la sensazione di tradire il suo popolo e la sua stessa famiglia.
Il documentario ha vinto il Premio del Pubblico al Sundance Film Festival 2014, è tratto dal best-seller “Figlio di Hamas” di Mosab Hassan Yousef (edito in Italia da Gremese).
UNA BREVE STORIA: HAMAS E LO SHIN BET
HAMAS: il Movimento di Resistenza Palestinese – una costola della Fraternita Mussulmana d’Egitto – è il più ampio di una serie di gruppi militanti Palestinesi. Dopo una travolgente vittoria alle elezioni Palestinesi del 2006, Hamas governa oggi la Striscia di Gaza. Il movimento ha avuto origine nel 1987, a seguito della prima intifada, o rivolta Palestinese, contro l’occupazione israeliana della zona ovest di Gaza. Originariamente concepito come un movimento religioso politico-sociale, impegnato nel welfare, nella costruzione di scuole e cliniche, e nella diffusione dell’Islam nella zona ovest della Striscia, Hamas è apertamente contrario al processo di pace. Nel 1992 crea la sua sezione dei servizi segreti militari, la Brigata di Al Q’assam, con l’obiettivo di inasprire il conflitto e minare il processo di pace. Le azioni dell’ala Militare di Hamas includono rapimenti e attacchi a postazioni militari, e, dal 1994, un’ondata di attentati dinamitardi con l’ausilio di “kamikaze” trasformati in bombe umane contro la popolazione civile d’Israele. Per sua stessa costituzione, Hamas è votato alla distruzione d’Israele.
SHIN BET: è l’agenzia di sicurezza interna d’Israele che opera con il motto: “Lo scudo invisibile”. La principale funzione dell’agenzia è la salvaguardia della sicurezza dello Stato. I suoi compiti includono scoprire possibili connessioni terroristiche, interrogare i sospetti terroristi e fornire intelligence per le operazioni di contro-terrorismo nella zona ovest della Striscia di Gaza. Dopo gli attentati dell’11 settembre, la maggior parte dell’intelligence occidentale si è rivolta allo Shin Bet, per imparare dai suoi metodi di reclutamento e gestione delle risorse umane (in particolar modo all’interno della organizzazioni terroriste): metodi che si basano su quelli del KGB, adattati nel corso degli anni alla popolazione araba.
INTERVISTA CON IL REGISTA NADAV SCHIRMAN
Cosa l’ha spinta a fare questo film?
Quando sono venuto a conoscenza della storia di Mosab, sono rimasto subito colpito dal suo punto di vista su Hamas, dall’interno. Come organizzazione perlopiù sconosciuta al mondo, i suoi meccanismi non erano mai stati rivelati, e questo mi affascinava. Poi ho conosciuto Gonen, il suo referente israeliano, e quando ho capito la natura particolare del loro rapporto ho sentito di doverlo raccontare in un film: entrambi i protagonisti hanno rischiato la vita per fare la cosa giusta, entrambi sono guidati da una sorta di “bussola morale” e – cosa molto rara nello scenario del conflitto israelo-palestinese – non hanno paura di andare controcorrente. Ho trovato il loro legame così pieno di speranza: ecco cosa succede quando la gente si fida e si batte contro i pregiudizi! E poi, ovviamente, la storia aveva anche tutti gli ingredienti di un vero thriller.
Quali sono state le difficoltà maggiori nel realizzare il film?
Volevamo che il film fosse estremamente coinvolgente, insieme pieno di suspense e catartico, adrenalinico e toccante. Ho sempre in mente le parole di Billy Wilder: «Bisogna afferrare il pubblico e non lasciarlo andare fino alla fine». Più che un film su due personaggi, è un film sul loro rapporto: su come due “nemici giurati” possano diventare “migliori amici”. Per quanto riguarda l’aspetto visivo, ci è stato subito chiaro che avevamo due punti di vista: quello del “sistema”, cioè i droni e le telecamere di sorveglianza che vedono gli esseri umani come semplici funzioni o tracce su una mappa; e quello dei protagonisti, fragile ed emozionale. Inoltre è stato molto impegnativo trovare delle immagini d’archivio che conferissero al film un senso di immediatezza: siamo stati molto fortunati a scoprire alcune vere perle, come il materiale di Mosab a Ramallah, negli anni in cui operava ancora sotto copertura.
Il rapporto spia-agente sembra essere il filo rosso che unisce tutti i suoi documentari. È particolarmente attratto dal mondo dei servizi segreti?
Sono interessato a cosa accade nelle relazioni che sono sottoposte a una estrema pressione. Nel mio primo documentario, The Champagne Spy, si tratta della relazione tra un ragazzo e suo padre, un agente segreto del Mossad che nel tempo diventa schiavo della propria falsa identità. Nel mio secondo film, In The Dark Room, sia la moglie che la figlia dell’uomo più ricercato al mondo, Carlos lo Sciacallo, faticano a venire a patti con le proprie relazioni familiari. Il figlio di Hamas è anche la storia di un figlio costretto a tradire il padre e la famiglia per fare ciò che nella sua mente è giusto fare.
Considera “Il figlio di Hamas” un film politico?
Assolutamente sì e al tempo stesso no. La politica è il terreno da cui nasce la storia, lo scenario. Ma non ha nessun ruolo nelle scelte narrative o tematiche che ho preso. Come spiegavo prima, si tratta di un film sulle relazioni messe alla prova, sugli esseri umani e su come si comportano quando sono sottoposti a una grande pressione.
Quali misure di sicurezza avete dovuto rispettare durante le riprese?
Quando abbiamo girato con Mosab in Germania, abbiamo dovuto essere molto discreti riguardo al suo viaggio e al suo domicilio di residenza. Inoltre, avevamo una guardia armata sul set durante la prima fase delle riprese. Quando ho conosciuto Mosab, un paio d’anni fa a New York, sedeva sempre spalle al muro, con lo sguardo puntato sulla porta. Eravamo costretti a spostarci ogni due ore, per non restare troppo a lungo nello stesso posto. Oggi la situazione è più rilassata, credo. Quando abbiamo girato nella Striscia di Gaza, abbiamo dovuto adottare un profilo molto basso: a volte è stato difficile, essendo la nostra una troupe internazionale, e alcuni di noi israeliani. Ma questo stato di tensione ci manteneva sempre in allerta, in qualche modo in sintonia con il punto di vista del nostro protagonista.
Quale lezione spera che il pubblico possa trarre da questo film?
La speranza, perché laddove i politici falliscono, i singoli individui invece possono avere successo, anche contro ogni previsione. E un incoraggiamento a rischiare per ciò in cui si crede. La consapevolezza che le cose non sono mai come sembrano, e che si dovrebbe approfondire prima di formulare giudizi affrettati.