Il nemico invisibile: recensione in anteprima
Ennesima disamina post-11 settembre alla quale Paul Schrader fatica a dare consistenza. Ma anche un critica personale, autobiografica per così dire. E la denuncia perciò passa dalle istituzioni governative per poi ricadere su Hollywood. Ne Il nemico invisibile Schrader risulta perciò più lucido parlando di cinema anziché di terrorismo
Evan Lake (Nicolas Cage) esce dallo studio di un medico che poco prima gli ha sottoposto una diagnosi disarmante: demenza frontotemporale, condizione oltremodo limitante poiché incide rapidamente sui processi cognitivi. Evan, dal canto suo, avrà pure un’età, oltre che una carriera oramai alle spalle, ma il vero problema è un altro: quanto tempo gli resta per trovare Muhammad Banir? Quest’ultimo è un terrorista che vent’anni prima ha tenuto Evan come ostaggio, compromettendo definitivamente il suo cursus honorum all’interno della CIA. Da allora, infatti, l’agente Lake è confinato ad una scrivania; da allora ripetendo che Banir è ancora vivo e merita di essere processato.
Archiviata la non esaltante (per adoperare un eufemismo) esperienza The Canyons, Paul Schrader cambia spartito ma la musica è grossomodo sempre quella. Celebrativo in un modo che non ti aspetti, superato tanto nelle premesse quanto nell’esecuzione. È uno Schrader che oramai sembra essere stato risucchiato dalla parodia di sé stesso, ostinato nel suo perseguire idee che evidentemente ha a cuore. Pure troppo.
Congedato a forza dall’agenzia, venuta a sapere del suo problema, Evan Lake può ancora contare sul giovane Milton Schultz, un inquietante Anton Yelchin, qui fuori posto come non mai, ingessato, evidentemente avulso da un contesto che non è riuscito a far proprio. È grazie a Schultz che l’anziano agente, oramai «inutile» alla causa, scopre che da Bucarest arrivano segnali interessanti: qualcuno ordina sottobanco dei farmaci per la talassemia, malattia ereditaria di cui soffre proprio Banir. Non è l’unico indizio che lascia ben sperare, ecco perciò che i due s’imbarcano per la Romania, dove un’ex-fiamma di Evan (Iréne Jacob) si è detta disponibile ad aiutarli.Quella di Schrader è una riflessione post-11 settembre che non è certo da scartare a priori, né tantomeno risulta tardiva. Ma se in The Canyons si avvertiva almeno quel fuoco che scaldava un film molto modesto, vuoi nel bene o nel male per la sua atipicità, vuoi dunque per il suo porsi al di là di ogni logica meramente commerciale, vuoi per la location, qui il discorso lo si può entro una certa misura ribaltare. Propensione al genere, meno libertà e dunque meno rischi; resta l’asprezza di fondo, quella denuncia tutt’altro che velata la quale, senza dubbio, ha mosso il regista da principio. Eppure il suo resta un tentativo innocuo, ma soprattutto incerto, perché essenzialmente incastrato tra la sua vocazione al prodotto commerciale da un lato, e la volontà di fare critica, di denunciare, dall’altro.
Ciò che resta sono alcune uscite del personaggio di Cage da incorniciare, ma per motivi presumibilmente diversi da quelli auspicati: a fatica si trattiene almeno un sorriso quando il nostro irrompe minaccioso in un appartamento esordendo con un «salām ‘alaykum, coglione!». D’altronde si riscontra pure un’innegabile debolezza proprio nella costruzione della vicenda, per cui la ricerca stessa di Banir non genera alcun interesse (né può strutturalmente generarlo). Un film ripiegato su sé stesso Il nemico invisibile, che si sofferma su temi come virtù, ostinazione, tradimento, disillusione mediante profili macchiettistici e risvolti privi di mordente.
In fondo però Evan Lake potrebbe benissimo essere Paul Schrader stesso, ed allora l’opera assume un’altra valenza. La parabola dell’agente della CIA può senz’altro essere assimilata dalla biografia del nostro: nel film Lake è una sorta di idealista, fedele ai principi che lo hanno spinto ad entrare in quel mondo e che, fino a un dato momento, gli hanno consentito di fare carriera. Poi il brusco risveglio, l’essersi accorto che la realtà non è più all’altezza dei suoi ideali né forse lo è mai stata; perciò la ribellione, per lo più interna, che si manifesta in inazione forzata (e per il personaggio di Cage «ci sono due tipi di persone in questo mondo. Gli uomini di azione. E tutti gli altri»). Anche alla luce del penultimo film di Schrader, ci pare tutt’altro che peregrina questa ipotesi.
Un Paul Schrader che non ha mai davvero smesso di girare film, così come non è rimasto a casa Lake; semmai che è stato frustrato nel suo desiderio di lavorare sul campo, strada preclusa che nel percorso del regista potrebbe magari tradursi nell’impossibilità, imposta dall’esterno, di portare a termine i progetti che davvero gli stavano più a cuore. Come con The Canyons, anche la prima missione «indipendente» dopo anni di Lake si risolve in un mezzo fiasco. Ma come ci suggeriscono le ultime sequenze, ciò che agli occhi esterni può essere considerato un fallimento, per il protagonista rappresenta un tassello fondamentale, forse addirittura un punto di non ritorno. A suo modo, perciò, potremmo leggere Il nemico invisibile come il racconto autobiografico del suo regista e sceneggiatore, con particolare riferimento alla sua penultima fatica. Perché no? In maniera peraltro beffardamente non calcolata, visto che a Schrader è stato negato il cosiddetto final cut.
Ed è forse questo che contribuisce a rendere Il nemico invisibile un lavoro di scarso appeal se preso come puro intrattenimento; il discorso di Schrader va infatti ben oltre e la sua apparente impenetrabilità sta proprio nella vicinanza delle premesse alla vita di chi le ha pensate, al suo perciò essere autobiografico per interposta persona (e storia). Tuttavia non si pensi ad un epilogo in tal senso scontato, e che, anzi, assume un senso proprio se si dà per buona l’ipotesi autobiografica. Il film si apre e si chiude infatti con un discorso di Evan Lake fatto alle giovani leve, alle quali non risparmia sentenze tutto fuorché incoraggianti.
Solo che, al contrario di quanto si possa pensare, anche il dolore e la ribellione di Evan hanno un limite e quelle ultime parole, lungi dal voler allontanare coloro che dovranno prendere il suo posto, appaiono più come un invito a continuare, perché comunque ne vale la pena. Un invito goffo, siamo d’accordo, ma pur sempre toccante. Lo stesso che, dando per buono ciò che ci siamo fin qui scritti, Schrader rivolge ai futuri cineasti, ai giovani che sentono «la chiamata» sebbene tutto intorno a loro li dissuada dall’assecondarla. Il «morire della luce», di cui al titolo originale del film, non è altro che questo perciò: aver perso la speranza nel cinema, specialmente nel farlo. Peccato che il film arranchi troppo nel descrivere questo processo, oltre che nel consegnare quel messaggio finale che arriva dal regista stesso: un passaggio di testimone, di suo, meraviglioso e toccante, che andrà rivalutato da coloro che in futuro vorranno cimentarsi in una monografia su Paul Schrader. Dato che per il momento, stando così le cose, Il nemico invisibile non è purtroppo in grado di reggere siffatto peso.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
Il nemico invisibile (Dying of the Light, USA, 2014) di Paul Schrader. Con Nicolas Cage, Anton Yelchin, Alexander Karim, Irène Jacob, Aymen Hamdouchi, Claudius Peters, Adetomiwa Edun, Robert G. Slade, Derek Ezenagu, Geff Francis, Tim Silano, Silas Carson e Serban Celea. Nelle nostre sale da giovedì 9 luglio.