Il Ponte delle Spie: recensione in anteprima del film di Steven Spielberg
Film classico nel puro senso del termine o retorica americana in confezione pregiata? Comunque la si pensi, Il Ponte delle Spie è l’opera di un regista che sa cosa vuole e soprattutto sa come vuole dirlo: con una sicurezza e un controllo da lasciare a bocca aperta. Lunga vita a Steven Spielberg!
Più americano, più classico, più Spielberg di così forse non ce n’è. Ma non mi sembra affatto una brutta notizia, anzi, a meno che non siate tra coloro che hanno odiato War Horse per quello che è o snobbato Lincoln perché tedioso. Buona notizia anche per voi: mi pare che Il Ponte delle Spie sia però assai più divertente e ironico dei precedenti.
Il Ponte delle Spie è l’ennesima dimostrazione di tante cose, e per questo è rassicurante. Ma non nella maniera reazionaria che ci si può immaginare: trovare un film così classico, che a tratti sembra uscito dritto dagli anni 50, e che funziona benissimo per tutta la famiglia, non è più cosa di tutti i giorni. Può una cosa non scontata essere reazionaria? E sempre di uno spy movie si tratta!
Questa è innanzitutto l’opera di un maestro che sa benissimo cosa vuole dire e come lo vuole dire, con una sicurezza e persino leggerezza (anche nell’essere retorico) che lasciano davvero a bocca aperta, oggi più di ieri. Perché i tempi sono cambiati, il cinema stesso è cambiato, eppure un film come Il Ponte delle Spie sembra senza tempo. Un classico, appunto.
L’inizio è una lezione di regia vera. Ci viene introdotto Rudolf Abel prima che venga catturato dall’FBI nella stanza di un albergo con l’accusa di essere una spia sovietica. Prima che questo avvenga c’è tanto movimento, con Rudolf che se ne va dal suo appartamento, e viene poi inseguito e perso più volte nella folla dagli agenti. Tutta la sequenza è muta: solo rumori e cacofonia della città a fare da teppeto sonoro all’azione. Non sarebbe dispiaciuta a Hitchcock.
Il film si divide poi in due parti: una ambientata a New York e una ambientata a Berlino Est subito dopo la costruzione del muro. Nella prima, l’avvocato James Donovan (Tom Hanks) viene incaricato di difendere Abel: un compito ingrato, vista la Paura Rossa e la reputazione che difendere un comunista potrebbe portargli. Nella seconda, Donovan vola a Berlino Est per negoziare da privato cittadino la trattativa di scambio tra Abel e Gary Powers, pilota americano di un aereo abbattuto dai sovietici.
Le cose per lui si fanno moralmente più complicate quando viene a sapere che un altro cittadino americano è stato catturato: Frederic Pryor, studente di economia a Berlino. Ma la CIA è solo interessata a Powers per questioni di equilibrio politico, mentre Donovan crede che sia giusto riportare a casa anche il ragazzo. Il problema è che Powers è detenuto in suolo sovietico, mentre Pryor è detenuto nell’appena nata DDR. Come negoziare una sola persona per ottenerne in cambio due?
Lo script dei fratelli Coen, che fila liscio come l’olio ed evita volontariamente i meccanismi intricati di altri film di spionaggio (non siamo in zona La Talpa, per chi se lo stesse chiedendo), presenta Donovan come un uomo ordinario che esce dalla staccionata per motivi esterni e gliene succedono di tutti i colori. Ma il personaggio è ovviamente assai più spielberghiano di così: ha una morale e dei principi che vuole difendere a tutti i cosi. È un avvocato, certo, ma è innanzitutto un uomo retto e giusto.
Donovan è anche un padre e un marito, che rischia di mettere in pericolo la famiglia con le sue azioni, ma poi fa di tutto per restare nell’ombra e non mettere moglie e figli in mezzo. Donovan è l’esempio, colui che ha deciso di essere cittadino americano perchè crede nella Costituzione. Descritto così è già un personaggio insopportabile, e invece l’ironia che i Coen gli attribuiscono, e l’interpretazione francamente incantevole e vecchio stile alla James Stewart di Tom Hanks, lo rendono irresistibile.
Non ha l’urgenza politica di Munich, l’atmosfera da capolavoro a tutti i costi di Schindler’s List, e non raggiunge l’amara perfezione di Prova a prendermi. Però non mi pare nemmeno che Il Ponte delle Spie provi a seguire le orme di quei film: semmai, appunto, è una versione assai più rilassata di Lincoln, in cui si ragiona sulla politica come costante trattativa e compromesso anche quando gli ideali sono, appunto, giusti e retti.
Poi ci sono molti dei soliti tocchi di Spielberg, una confezione controllata (fotografia freddissima di Janusz Kaminski e musiche non pompose di Thomas Newman comprese), una scena sul ponte da incorniciare, e un po’ troppi finali. Ma se il familismo può certo infastidire, fa anche forse credere che sotto nasconda comunque una riflessione su un’epoca.
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”8″ layout=”left”]
Il Ponte delle Spie (Bridge of Spies, USA 2015, spionaggio 135′) di Steven Spielberg; con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Alan Alda, Peter McRobbie, Billy Magnussen, Austin Stowell, Michael Gaston. Uscita in sala il 17 dicembre 2015.